Andrea Castrovinci Zenna su “Liturgia dell’acqua” di Daìta Martinez, Anterem 2021

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La scrittura di Martinez si diversifica visibilmente da forme poetiche più tradizionali, fin dall’impaginazione; centrati e squadrati in diversa ampiezza, i testi, all’occhio, presentano diverse lunghezze, e per lunghezza va intesa propriamente la dimensione orizzontale di questi versi con impaginazione spesso giustificata: come se stessimo guardando delle figure geometriche proposte per blocchi più o meno ampi, molto spesso quadrati o rettangoli. Già una disposizione tale propone una riflessione: è possibile parlare davvero di “verso” per Martinez? Se canonicamente intendiamo un verso concluso grazie all’uso dell’a-capo non sembra possibile valorizzare i versi dell’autrice. Trovando sul limitare dell’a-capo preposizioni articoli congiunzioni e parole irrilevanti dal punto di vista semantico, sembrerebbe proprio che chi scrive non abbia alcun interesse ad un uso tradizionale del verso. Leggendo i testi, infatti, ci si ritrova immersi in un andirivieni, continuo e magmatico, di artifici, ma raramente essi sono ascrivibili a quelli di posizione incipitaria ed explicitaria dei versi: assenza di punteggiatura e maiuscole, assonanze, consonanze, quasi anagrammi talvolta, quasi paronomasie, rime interne, rime ricche, figure etimologiche, poliptoti, usi transitivi di verbi solitamente intransitivi, neoformazioni verbali, mistura di italiano e dialetto, metafore continue e, a complicare i testi, una sintassi talvolta apparentemente scorretta: in questa scrittura densissima non è agevole parlare dunque di “verso” per come lo si intende tradizionalmente, perché l’uso talora inatteso, improvviso, spiazzante di certi schemi, di testi che generano altri testi spezzando i legami sintattici tra parole e parole, tende a formare non propriamente dei “versi”, quanto più delle circostanze, degli eventi linguistici da cui ne scaturiscono altri, determinandone il senso reciprocamente.

Questo ostinato lavorìo potrebbe richiamare una sorta di ecriture automatique, un improvviso affiorare agli occhi e alle orecchie del lettore, che rimane felicemente sbigottito, ed ha certamente unicità nella poesia contemporanea, se si esclude il caso della straordinaria Amelia Rosselli, da cui sembra attingere la maniera, vertendo tutto se stesso sul concetto originario di ποιέω, del fare poetico, che diviene a tutti gli effetti generazione, e senza tra l’altro mostrare spiccati barocchismi1 . Non per nulla la neonata casa editrice Anterem, la cui storia come rivista è ormai ultradecennale, sceglie di aprire la propria pubblicazione di testi proprio con Martinez, autrice che, grazie a questo suo peculiare uso della lingua, sembra voler arrivare a una forma primordiale, che si situi in una posizione precedente all’uso della stessa parola.

Sembra quasi di affondare (e affogare) nella composizione di chi scrive, e a tale proposito giunge utile una citazione della stessa Rosselli, tramite la quale potere comprendere meglio questo stile; ella scriveva così nel tentativo di spiegare la generazione dei testi: “Tentai di osservare ogni materialità esterna con la più completa minuziosità possibile entro un immediato lasso di tempo e di spazio sperimentale. Ad ogni spostamento del mio corpo aggiungevo tentando, un completo “quadro” dell’esistenza circondantemi; la mente doveva assimilare l’intero significato del quadro entro il tempo in cui essa vi permaneva, e fondervi la sua propria dinamicità interiore”.2 Che sia questa la tecnica per scrivere dell’autrice palermitana non è dato saperlo, ma a conferma di quanta vicinanza ci sia con la Rosselli è possibile applicare un commento della Enciclopedia Treccani alla Rosselli stessa:

“[…] Il testo è composto attraverso la retorica della ripetizione, della variazione e dell’opposizione: all’interno della logica sintattica s’innesca così un’interazione associativa che punta a rifondare la ragione occidentale senza l’esclusione dell’irrazionale. L’inevitabile oscurità che ne deriva è rotta da illuminazioni spesso lancinanti.3

 

L’autrice siciliana genera un fluido verbale entro il quale stordirsi, una osmosi spazio-temporale, sonora, visiva, olfattiva, tattile: un confluire di evocazioni multisensoriali e isocrone. Martinez offre una sua, e sembrerebbe unicamente, egoisticamente, visceralmente propria poesia, al limite del disinteresse verso il lettore. Ma “per chi vuole ascoltare”, come scrive nella esilissima prefazione Maria Grazia Calandrone, la musica di Martinez suonerà sì molto distante dai pattern regolari e noti della poesia canonica, ma non per questo priva di una propria “armonia tendenziale”, come titola una delle sezioni di Liturgia dell’acqua.

Si propone una breve antologia di passi dai quali sia possibile evincere sia lo stile peculiare che, nell’apparente caoticità delle parole in gara tra loro, immagini e tematiche trattate già in altri volumi editi: l’infanzia, le figure genitoriali, l’amore, la città di Palermo; a conferma di una voce decisamente personale e che va proseguendo il proprio cammino poetico.

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p.29 

a mano recidere dovrebbe qui silenzio

e s'allaga e s'ombra e non muove da

muovere che s'inverna minima chiosa

la cena dentro l'arcata al di dentro dei

limoni tondi rotonda una caduta tonda

ripasso sparso lì sparso che si dice sia

l'avverbio a frugare tra le gambe il sole

bambino per strada e qualche moneta

avvolta sulla pancia di una trottola la

primissima volta di un bacio il risvolto

del soggiorno la luce di traverso come

ombelico mangiato d'un fiato col fiato

morbidissimo la tazzina del caffè quel

primo piano dimenticato che nascosto

si lascia ninnare dalla tenerezza di Dio

 

p.36

 

l'immobile l'assoluto più preciso

bacio punto della rosa o dispersa

sposa crocevia a spinta di gambe

allentata quasi regola il miracolo

ch'io s'arrotola ch'io accresciuta

sfusa la condanna avrebbe capito

insazia lontananza tuttora invoca

 

*

 

trattenere l'attenzione in un petto

fermo alla stazione s'accresce la

limpida mostura d'un incontro né

l'ultimo ridà loro cinte le pupille

quasi campo assolato nel grembo

proteso l'incline pigolìo del cielo

 

p. 37

 

indipendente dormendo ascende

l'argomento il particolare del no

esistente dimentico da nessuno i

minuscoli secondi l'intimità con

qualcuno dentro la casa isolata e

le pesche i fiori a cornice l'erba

dalla palpebre cresce nascosta ai

santi sulla piazza oggi poco fa si

è accesa l'ultima lanterna e dalla

strada assale l'infanzia del vento

la precisa irrealtà di una distanza

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Le sensazioni vissute dal lettore possono essere spiazzanti, ossimoriche: rifiuto, incomprensione, abbandono, catarsi. L'autrice non lascia al lettore alcun punto di riferimento, non gli offre la possibilità di scegliere, se non arbitrariamente, quale parola sia legata alla successiva o alla precedente, o quale sintagma spesso in forma metaforica meglio si adatti a esprimere il senso del discorso, a riprova della fluidità di testi che si possono agilmente adagiare entro forme diverse, qualità inconfondibile di ogni fluido.

A questo punto è possibile fare un gioco con i testi di Martinez; gioco serissimo: tentare di ricomporre in versi liberi i testi che, come quello a p.49, sono in prosa. Stesso tipo di lavoro era possibile svolgerlo, e critici di epoche passate lo hanno fatto già, con parecchi testi dell'Allegria di Ungaretti. A p.49 mi sono permesso di barrare con degli a capo quelli che a mio personalissimo parere potessero essere versi singoli, senza star lì a conteggiare sillabe e sinalefe per forzare sulla metrica tradizionale: mi sono soltanto permesso di inserire barre e andare a capo; il testo così avrebbe una sua lettura, con pause e riprese, con un respiro dettato dal lettore. Ciascuno può giocare così con quasi tutti i testi di Liturgia dell'acqua. Ma il limite di quest'operazione risiede proprio nel fatto che tale atto, benché non del tutto arbitrario, (è l'autrice a permettercelo, non offrendo al lettore nessuna indicazione tramite segni di punteggiatura o a capo specifici) rimane esattamente del tutto arbitrario: perché dare rilievo maggiore tramite una pausa a una parola anziché ad un'altra significa scegliere; e la scrittura di Martinez in diversi luoghi, come in questo a p.49 non sceglie: se la scelta comporta necessariamente uno scarto e, nella poesia, un limite metrico (il precipizio dell'a-capo), l'autrice preferisce il flusso, (la liturgia è dell'elemento fluido non a caso in rimando al titolo) lasciando poi eventualmente a chi legge il piacere di arrovellarsi con la pregnanza (maggiore o minore) di un passo, di un periodo, di un sintagma, di una parola, di una pausa.

Dalla raccolta Il rumore del latte infine è possibile estrapolare una sorta di dichiarazione di poetica. In esergo alle pagine sinistre si trova una parola o un breve sintagma: ricomponendole viene fuori il seguente testo.

 

Sottosopra l'affondo dall'ombra spioggia appena alba sospesa primula bambina a bassa voce d'inesistenza duole e cade impertinente finità dando controvolto tutt'intorno discende assenza voltarsi andando imperfetti dentro uno specchio toccarsi nell'unico intervallo una carezza nel grembo sovraposto.

 

“Sottospora” è il modo di lavorare spiazzante di Martinez: esso prende spunto da un vicolo, da un profumo, da una qualsiasi sensazione per snodarsi e diramarsi improvviso lungo inattese altre sensazioni o ricordi. L'“affondo dall'ombra” è il movimento di ricerca del sé proveniente da una oscura (non per questo macabra o tetra) profondità dell'essere, la quale riesce “appena” a “spioggiare”, neologismo interpretabile quale momento che segni la fine della pioggia: ad esso segue un momento luminoso e incerto una “alba sospesa”, assimilabile per analogia del tutto intuitiva ad una “primula bambina a bassa voce d'inesistenza”, voce quasi impercettibile che rasenta l'io poetico dell'autrice, la quale “duole e cade” ecc. Si potebbe molto congetturare sull'interpretazione semantica di alcuni passi come questo sopra citato, ma nuovamente la scelta l'autrice la lascia in ultimo al lettore; certo è invece che in questo testo in filigrana emergano continuamente tematiche affini se non costanti delle opere di Martinez: l'infanzia, l'ostinazione nella ricerca, l'assenza, il voltarsi indietro, verso il passato, l'intuizione dei brevi attimi di felicità vissuta, talvolta in assonanza con una o con entrambe le figure genitoriali, talaltra con la città di Palermo, i suoi odori, le sue luci, i suoi spazi, il tutto in una scrittura che cerca di risultare “una carezza” all'interno di luoghi vagamente fantasmatici e sovente chiusi, quasi claustrofobicamente riversi in sé stessi, in posizioni di percezione straniata, in un “grembo sovraposto”.

 

1Benché di aura baroccheggiante abbia parlato in prefazione al Rumore del latte Lucio Zinna, sostenendo che ci sia un surplus immaginativo che permetta all'autrice di sperimentare se e fino a che punto possa dilatarsi la metafora, dichiarando poi (citando anche Nicola Romano in prefazione a La bottega di via alloro) che si tratta non di estenuato, citazionista, ricercato, artificioso, ostentato e tronfio barocco, ma al contrario di un fascino (discreto) della sperimentalità, creando una poesia edificata su proprie fondamenta, illuminata da fantasmagorici richiami assonantici.

2Tratto da Spazi metrici - Amelia Rosselli, in: La parola ritrovata, a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Marsilio 1995