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Marzo 2008, anno V, numero 9

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Carte nel Vento

 

periodico on-line 
 del Premio Lorenzo Montano

 

a cura di Ranieri Teti

 

“Carte nel Vento 9” si collega strettamente al numero scorso,  continuando l’indagine teorica intorno alla poesia. L’opera di scavo intorno ai versi questa volta è affidata agli stessi poeti, riprendendo un’idea sviluppata alcuni anni fa nelle pagine di “Anterem”.


I poeti che presentiamo
- Aglieco, Assiri, Caracciolo, Germani, Lisa, Ponzio, Svampa, Testa, Trucillo, Turra Zan - sono stati scelti tra i partecipanti alle ultime edizioni del Premio Lorenzo Montano e delle ultime Biennali Anterem di Poesia. Ci offrono l’occasione di rivisitare alcune delle opere che hanno tessuto la storia recente del “Montano”, ci indicano le loro nuove ricerche e soprattutto ci guidano nelle ragioni della loro poesia, attraverso  puntualissime riflessioni teoriche.

Tutto questo prelude al lavoro che costituirà il fondamento della prossima Biennale, in cui ancora più stretto sarà il legame tra poesia e critica: ciascun poeta invitato a parteciparvi, scelto tra i selezionati dell’edizione del Premio che scade a fine marzo, sarà commentato “in diretta” dai poeti della redazione di Anterem e da critici di provata esperienza.


Ranieri Teti cartenelvento@anteremedizioni.it  

Poesia: dalla Biennale e dal "Montano", testi e note di poetica

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I poeti che presentiamo sono stati scelti tra i partecipanti alle ultime edizioni del Premio Lorenzo Montano e delle ultime Biennali Anterem di Poesia. Ci offrono l’occasione di rivisitare opere che hanno tessuto la storia recente del “Montano”, ci indicano le loro nuove ricerche e soprattutto ci guidano nelle ragioni della loro poesia, attraverso puntualissime riflessioni teoriche.

Giovanni Turra Zan

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Giovanni Turra Zan è nato nel 1964 a Vicenza, e risiede a Dueville (VI). Laureato in Psicologia dell’Educazione e diplomato al Conservatorio Musicale di Vicenza, lavora da diversi anni nei servizi sociali e come counselor professionale, facilitando anche gruppi di mutuo aiuto al lutto.

Vincitore nel 2005 del concorso “Poeti per Posta”, promosso dalla trasmissione radiofonica di Rai Radio 2 “Caterpillar” e da Poste Italiane, è stato menzionato al premio “L. Montano 2006” e segnalato nell’edizione 2007 dello stesso premio. Nel 2005 ha pubblicato la sua opera prima “Senza” (Agorà Factory), con prefazione di Stefano Guglielmin. Con la silloge “Il lavoro del luogo”, ha vinto la VI edizione del concorso “Pubblica con Noi 2007”, indetto da FARA Editore che l’ha successivamente pubblicata. Una sua lirica è stata selezionata per l’antologia “Il corpo segreto”, di prossima pubblicazione con le edizioni Lieto Colle. La sua nuova raccolta, “Stanze del viaggiatore virale” sarà pubblicata nel prossimo maggio dalle edizioni L’Arcolaio di Forlì.

Giovanni Turra Zan: Nota teorica e poesie edite e inedite

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In “Finders Keepers” (“Chi lo trova se lo tiene”, mia traduzione) Seamus Heaney ci offre un cocente resoconto di un attacco d’ansia di cui egli fece esperienza quando, per la prima volta, incontrò la poesia di T.S. Eliot. Ciò avvenne negli anni ’50, in un tempo in cui Eliot era considerato, dai poeti anglo-americani, la Luce  e la Via: un nome sinonimo della stessa poesia moderna. Ad Heaney fu consegnata a scuola una raccolta di poesie di Eliot “come fosse un pacco di cibo”, e tuttavia, invece di procurargli  un piacere tanto atteso, gli causò qualcosa di più simile ad un attacco di panico.  I versi di Eliot viaggiavano ad una lunghezza d’onda così inaudita per Heaney, da sembrargli lo stridio di un pipistrello. I sintomi fisici che Heaney provò (un crescente nodo alla gola, l’irrigidirsi del diaframma, ecc.) non si attenuarono in seguito alle letture successive del testo eliotiano. Al contrario, e per anni, “Eliot mi faceva paura, mi imbarazzava e mi faceva sentire minuscolo; mi faceva venire voglia di invocare la Madre dei Lettori, affinché venisse presto e avesse pietà di me, e mi offrisse la pacificazione di un significato parafrasabile e di una struttura ferma e riconoscibile”. Stava esagerando? Non credo. Nello stesso momento in cui egli ci invita ad identificarci con la triste condizione dello scolaro, Heaney ci dice anche che l’acuta ansia che sta descrivendo non è la semplice reazione di un giovane studente di letteratura. O non solamente questo. Noi tutti apprendiamo da Eliot, così come da altri autori, che una poesia non può mai portarci completamente oltre la sua lingua, in un luogo limpido e precisamente a fuoco, come se la sua “oscurità” fosse acqua torbida che una razionale ed intelligente lettura ed interpretazione potesse rendere trasparente e chiara. “Una poesia deve resistere con successo alla razionalità” è l’affermazione schietta, e abbastanza facile da accettare, di Wallace Stevens. Ma ciò che per me è così attraente in Heaney è la franchezza con cui ammette l’ansia causata dal non comprendere. Quando W. Stevens scrive: “Un uomo e una donna/ sono uno”, lo possiamo capire senza difficoltà. Ma quando scrive: “Un uomo e una donna e un merlo/ sono uno”,  questo può sconcertare il lettore. Ci incamminiamo qui in un sentiero fragile, nell’ansiosa speranza di arrivare presto o tardi ad un principale, inequivocabile significato della poesia che includa il merlo. Ma forse, perdere l’orientamento è una parte fondamentale del processo. Il campo da gioco in cui si pone il titolo della raccolta di prose di Heaney, “Finders Keepers”, ha come controparte lo smarrimento, la perdita di qualcosa.

Una dichiarazione, che Heaney fa in un capitolo successivo, riesamina la mia immagine del percorso: “La poesia è più una soglia che un sentiero, qualcosa da cui costantemente ci si allontana e a cui continuamente ci si avvicina, e presso la quale lo scrittore ed il lettore si sottopongono, in modi differenti, all’esperienza di essere allo stesso tempo rilasciati e convocati”. Forse è stata l’immagine dello spazio della soglia, così come il tema dell’ansia e della perdita, che mi ha fatto venire voglia di ridare un’occhiata alla storia, raccontata da S. Freud in “Al di là del principio del piacere”, del bambino e del gioco del rocchetto. Il bimbo, nel tentativo di far fronte alla sofferenza causata dall’allarmante abilità della madre di scomparire spesso per ore dalla sua vista, inscenava un gioco ripetitivo: tenendo in mano lo spago, scagliava con consumata precisione il rocchetto dietro la spalliera a tendina del suo letto, di modo che l’aggeggio sparisse. Contemporaneamente emetteva un suo caratteristico suono, che Freud aveva intuito avere il significato di “via!”. Quindi ritirava il rocchetto dal nascondiglio e salutava la sua riapparizione con un festoso “eccolo!”. Questo gioco così ossessivo rappresentava la presenza e l’assenza della madre. Così almeno ci racconta Freud. Parte dell’attrazione che ha per me questo racconto, viene dall’identificazione che mi piace fare di tale bimbo con la figura del poeta. E’ quindi l’idea che il desiderio della presenza e l’effetto dell’assenza sono interdipendenti, si coinvolgono, si implicano e stimolano vicendevolmente ed in modo continuo. Il gioco del “via!” e del “eccolo!” è un gioco giocato dal poeta nel piccolo teatro che è ogni suo verso. Con la Madre dei Lettori a tenere la mano del poeta, le parole giocano i loro ruoli familiari con una logica rassicurante e consolatoria: lì c’è uno statico sostantivo, là il verbo attivo, più in là ancora gli spazi e le prospettive aperte dalle preposizioni, ecc.. E soprattutto, da questa parte, c’è la rigida dualità e la separazione dei soggetti e degli oggetti. Nei fatti poi, la necessaria grammatica della frase predispone il mondo ad un ordinamento da cui dipende quotidianamente la nostra salute mentale. Questo, direbbe Yeats, è “il linguaggio della sala da tè”. Improvvisamente però, nel flusso rassicurante delle frasi, si creano degli elementi di disturbo. Le parole vengono organizzate in linee, le linee in versi, la sintassi viene aggirata, con inversioni e iperbati, epifrasi a formare pattern di materia fonico-musicale. E questo menzionando solo alcune delle articolazioni possibili, delle “spaccature” che la forma poetica introduce nel linguaggio. La metafora si porta via il senso letterale e la Madre è caduta nella botola, fuori dalla vista. Ci ritroviamo così in una zona paurosa, ma vivida, che Yeats descrisse bene come Phantasmagoria, dove la nostra consapevolezza della soggettività degli oggetti e dell’oggettività dell’emozione soggettiva diviene eccezionalmente possibile. Ed è proprio qui che iniziamo a discernere il senso, ogni volta rifoggiato e ricreato, della poesia. 
 
 
 

Da Il Lavoro del luogo, Fara Editore 2007
 
 

si preferiscono certo lumi di luce gialla

al ritorno, alla fatica di concorrere

nei tempi: quelli dicevi allora persi. 

alzati di buonora il mattino che il mattino è dove

le cose restano fresche nella testa e il cervello ha

la temperatura del caseificio e l’uguale scambio

di materie liquide in idee. non si fa tardi non serve 

insistevi che la notte è della morte o dei tralasciati.

 

un grido, la lingua dei fastidi è saliva

stantia, sputi, stacchi o baci raffermi:

come si fa d’inverno a non vaccinarsi? 

con l’umido fai un’immunità e allontani

il sequestro del freddo sotto un piumone;

il convertitore ribalta i chilometri in pianti

tra restare con la casa che si sfa e andarsene 

scegli ora, entrambi.

 

l’origine riflette ogni stasi, l’opera sfuma

e si lascia dietro odore di macero e carta

unta. anche la camera riconta i vuoti. 

stai a rivelarci quel giusto mezzo se come sei

procuri maremoti. ricordarti è pena

o si preferisce quella foto in cui stai

in cima ai concimai di fine marzo.

 

si danno gli ordini, intanto che al macello

ci sono uomini. non so infatti checcazzo 

si faccia ora dicevi. ridondano al fine le convinzioni

e non ci sta con la testa, ed è come un vento, oggi.

e c’è la disco-music dietro le carcasse di vacca

e si balla, gesù. si balla come dei matti.

 

perdona se nel conclave degli orti stavamo

come gentili ad innaffiarci e crescere

mettere radici nei luoghi arresi al pensiero 

che non più uno spostamento fosse possibile

una fuga imbranata dal vizio di riaprirsi

comunque considerare che sia spaesarsi

del canto che qui non germoglia. basta il fatto

generato vedi a farci confluire, a catturare

metro su metro la collana dove infilare

le liti. almeno ovunque ne riparleremo

smotteranno cumuli di fango e, cielo, avremo

          gli anni dalla nostra.

 

occorre morire prestino

pensavi, e lasciarti erede del bene

di noi nella storia, tra gli argini dove 

libero è il nostro fiume, raccolte le pianure.

prestino, così da permetterti ogni codardia

così che non lasci debiti sul contatore

sullo scatto dei numeri, sul computo

dei registri del pianto e non i figli come

appoggio, ma i nasturzi sul terrazzo,

ed il vecchio galantuomo che sa

di latino e di greco, rimasto a tenerti

     le mani.

 

i contorni formano l’arco dei legni,

il quadrato su cui appoggiare l’ansia

ha la sua rada classificazione

la sistematica 

elencazione dei contenuti in un numero

un codice per il prestito della memoria

il cui interno dà sul prato, e se vedi

lampade proiettare l’ombra ti fai serpe

e faina per cancellare il nome dall’elenco

degli esistenti, per lasciare poche tracce

scarseggiando un’asse di risposte sulle leggi

           della quiete.

 

Da “Stanze del viaggiatore virale”

(di prossima pubblicazione con le Edizioni L’Arcolaio di Forlì)

 

purché sia ragione il volo, siamo noi

ad inquinarne il lampo: o torni o vai,

o lasci l’impero nella rabbia, sfai

le vesciche, gli stomaci e con questi

reggi cornamuse. dove borbotti ora sei

bordone al servizio d’una giga. il calvario:

sul ciglio sosti a raccattare semi e gramigna,

ne fai un erbario che è croce di natura, pannello

di secchezze e mostra aperta ad un incerto orario

 

la casa frena e sta su lastre di ghiaccio.

all’interno fatiche si posano, appendono

le attese e il sonno sulla stufa a legna

dove la cura del giorno s’incaglia

nei ruggiti dei transistor del dubbio.

cambiano le attitudini, le anime

attive e pare un cantico la vista

del bollito che si affastella sul vassoio

con le bisce a contorno, la scarpa

nella pentola del minestrone, l’ago

da cucito servito sulla trota salmonata,

tuffatosi dal grembiule della sarta. 

ci si sta addosso a natale, come

un’ossessione della generazione

che non si estende, che non ha code.

 

si celebrano qui le indecisioni

le acustiche sibille, gli echi amorfi

nelle miniere. eloquenti saranno

i termini del virus, e il disprezzo.

certo, il virus rimane a riposare

per anni e gramo si rifugia sotto

la parola, nella zona dorsale

di questa: sa il suo anticorpo il libero

radicale. come se la parola

lo accogliesse serpe-in-segno, come se

si dispiegasse nell’antro, sferrasse

l’attacco che diviene tradimento

e cancella le visioni. s’inforna

per posarsi a caldo come vescica

sulla pianura della lingua. il senso

della capitolazione al silenzio.

Allì Caracciolo

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Allì Caracciolo, poeta e regista, è docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l'Università di Macerata. Sue opere, edite e inedite, sono risultate finaliste ai più importanti premi di poesia. Dirige un Teatro di Ricerca a livello professionale. Tra i suoi libri di poesia figurano: Malincòre (una fonologia del vuoto), Amadeus 1996; English cemetery, Edizioni del Leone 2000; La insomiglianza (quattro poemetti), Ripostes 2007.

Allì Caracciolo: Le ragioni del silenzio. Il testo poetico

Versione stampabilePDF version0. DEDICA IN FORMA DI ESERGO
“Quando tutto è stato detto, resta da dire il disastro” 

1. QUASI UNA PÁRODOS
Esprimere una riflessione sull’atto poetico, o della scrittura, è formalizzare un assillo nell’interrogare la Poesia non solo sulle ragioni della sua sopravvivenza nella contemporaneità e sul suo darsi/negarsi, ma in particolare, sul complesso percorso della Parola, sulla sua coincidenza con l’Essere. Interrogarla istituisce una Poetica.
(“Sotto lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione […]. In tale paesaggio di esibizionismo isterico, quale può essere più il posto della più discreta delle arti, la poesia?”. Così Montale già nel lontano 1975).

2. DIDASKALIKÓN 

Troppo spesso non si sa che cosa è Poesia; piuttosto: ‘si sa’. In maniera assertiva ed esaustiva.
Accade che molti sanno che cosa è la poesia: è soddisfazione, tormento, approdo, privilegio, conforto disperante, vanto maledizione esclusione esclusività, appagamento compiacimento realizzazione di sé, suggestione e distinzione, un porto sicuro, una tormentante piacevolezza, una lusinghiera attitudine. E poi è bellezza. Bellezza e bello così come giungono dalle icone sclerotizzate e inamovibili.
Della poesia si può dire con certezza ciò che non è.
Non è un fatto privato. Non uno spazio riservato, lottizzabile mercificabile, non è merce né mercificazione, non è garanzia non è prestigio. Non è consolatorio compenso, evasione dalla cruda realtà, esaltante trasfigurazione delle miserie, produzione di sogni, la casa dei buoni sentimenti.
Conformemente il poeta non è il portatore della verità, l’eletto, il detentore dei segreti, il depositario del verbo.
“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato // […] non domandarci la formula che mondi possa aprirti”. Montale avvisava. Non solo demolendo i perniciosi miti della parola-pantocrator, “sì qualche storta sillaba e secca”, ma evidenziando la forza fatica del negativo: “codesto solo oggi possiamo dirti // ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”

3. TEMA
Occorre muovere dalla identità negante per ricavare la positività e la conoscenza di un grado della qualità poetica. Non nella capacità definitoria, ma in tale facoltà di esistere in negativo, di creare in absentia, risiedono la natura intrinseca dell’atto poetico e il suo fondamento etico.

Se poesia è canto (e canto è urlo nel doppio di sé), lo è nella misura in cui ne scrive Maurice Blanchot: “solo col canto Orfeo ha potere su Euridice, ma anche nel canto Euridice è già perduta e Orfeo stesso è l’Orfeo disperso, l’«infinitamente morto», reso tale fin d’ora dalla forza del canto” .
L’infinitamente morto è accesso alla infinitezza, la costituzione in infinito che la forza del canto determina. Canto che non rende immortale Orfeo: non nel senso della tradizione del canto al tempo umano e alla storia, ma in quello più arduo del negato riscatto dall’esistere. È l’essere infinitamente morto di Orfeo/del poeta, che consente al canto l’identità con l’esistenza. E la sua immortalità.
Scriveva Gadamer che “il canto poetico è l’esser-ci” . Poesia “si dà nel concepire e per un concepire” . Essa è la testimonianza dell’esser-ci, in quanto “attesta la nostra esistenza, essendo esistenza essa stessa” .
Esistenza che in sé è coincidenza di deessere, infinita simultanea destituzione  dall’esistere.
Parallelamente, una poesia che infinitamente si destituisce da se stessa. In ciò consiste la sua cifra, l’essere esistenza. In quanto coincidenza di deessere e costituzione di sé.
“Se tale destituzione trova fondamento nella tesa coscienza esistenziale, o nella demistificazione di ogni accreditato sapere e gratificante certezza, compresa quella del bello, o nella aspra cognizione della violenza umana e storica, tuttavia, proprio dall’atto stesso, precario ed infinito del destituirsi, la poesia deriva la propria necessità e l’unica possibile funzione”  :
( passo da un testo che postula l’idea di poesia come fonologia del vuoto, che cioè trae il suo fondamento dall’atto percettivo di frammenti di suoni che muovono nel vuoto  –attestati di energie in un continuum che è condizione del loro muovere e combinarsi–  e dal loro costituirsi in parola poetica.
In tale prospettiva, poeta è vehiculum, un condotto in cui le energie si incontrano e conflagrano generando vita della parola.
E non tanto, nella direzione di poesia come atto autogenerantesi, di cui il poeta si fa scriba, ma in una dimensione assimilabile a quella che Foucault indica per la follia: che è “senza soggetto parlante”  ).
È il senso di quell’essere infinitamente morto, la sua cifra fonetica.

Si può sostenere, traslato da altro contesto , che Poesia è un linguaggio che torna su se stesso, che ricomincia “senza fine l’atto della propria distruzione” .
Ciò ne qualifica lo statuto ontologico: il silenzio. Che non comporta il paradosso della pagina bianca e simili. Silenzio è la proprietà significante e la qualità della comunicazione della Poesia. La quale non si esprime attraverso il silenzio: si dà quale silenzio. Forse anche nel senso gadameriano di “scrittura che precede il linguaggio […] in modo irraggiungibile” . Ma certo, anche, silenzio in senso cosmico, fratturale, dove si rintraccia l’indifferenziata consistenza dell’esistere nella spaccatura originaria, nel baratro, nella crepa primigenia, nell’evento catastrofico e smisurato della distruzione generante.
L’unico silenzio che non può appartenere alla poesia è quello di ignorare barbarie ferocia le stragi. Tacere davanti ad esse. Omettere di ricordare.
( Poesia è il luogo nel quale non si danno frontiere, il luogo per eccellenza della alterità, ed anche quando i più inviolabili diritti umani, quali il diritto a dignità libertà vita, non costituiscano argomento espresso di essa, in essa sussistono quale sua implicita sostanza e fondante ragione di essere nella storia e nelle civiltà.
Se non è in questi dunque che va ricercato lo statuto ontologico della poesia, certo in essi risiedono la sua dimensione storica e la presenza alla storia, che è legittimazione della scrittura a fronte del prevalere di violenza e misfatto, del suo persistere mentre si consumano crimini contro l’umanità ).
Ne segue il Silenzio come costituzione etica, da cui non può derivare la dispersione della Parola poetica, la sua omologazione, la svendita. La Parola della Poesia è inalienabile.
 “Ciò che si scrive risuoni nel silenzio, facendolo risuonare a lungo, prima di ritornare alla pace immobile dove veglia ancora l’enigma” . Così Blanchot, che ne La scrittura del disastro, annota: “Scrivere non solo per distruggere, non solo per conservare, per non trasmettere, scrivere nel fascino dell’impossibile reale, questo lato del disastro in cui sprofonda, salva e intatta, ogni realtà” . Forza cognitiva nella sorta di ossimoro: sprofondare nel disastro salva e intatta.
È in questa identità, che non è semplice compresenza, che si realizza l’essere della Poesia.

4. QUASI UN EPILOGO
Non si dà atto poetico senza la consapevolezza apocalittica della catastrofe, della destituzione da sé di quell’atto. In questo, l’identità di silenzio e scrittura. Ancora Blanchot: “Mantenere il silenzio, ecco ciò che a nostra insaputa tutti noi vogliamo, scrivendo” .

NOTA O IPERBOLE
La creazione poetica spesso la si sente denominare ‘il parto’, anche dagli stessi autori: ‘È avvenuto il parto’, espressione metaforica per dire ‘Ho terminato l’opera’.
Tralasciando la perplessità per l’immagine troppo viscerale, il cui sangue è mestruo e non ferita palpitante (“il discorso poetico prende avvio da una ferita” ), e la nascita meraviglia usata, l’espressione appare impropria, in quanto rovescia la costituzione profonda dell’atto poetico, il quale non consiste nel parto, o venuta alla luce, di un essere generato attraverso due elementi di segno contrario che si uniscono insieme.
Poesia nasce dall’uno che si separa in due contrari, dei quali uno nell’essere negazione dell’altro lo fa essere, e da tale compresenza/opposizione, negazione che afferma, si genera l’atto poetico.
In tale scissione da sé in doppio di sé, nel prodursi nella propria negazione, nel frantumarsi nell’altro, consiste il fondamento da cui prende avvio un significato di distruzione, catastrofe, alterità. Morte che instaura la parola.
Per questo la poesia può essere individuata come il luogo dove l’uno dalla propria frammentazione genera i contrari, ma dove i contrari tendono infinitamente a l’unificante conoscenza, a la indeterminata somiglianza.
Dove altresì conflagrano, generando vita.
Il luogo del vuoto. O dell’assenza.




[1] Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, Milano, SE, 1990, p. 47.
[2] Dichiarazione di Montale all’Accademia di Svezia in occasione del Premio Nobel.
[3] Eugenio Montale, Ossi di seppia, Milano, Mondadori, 196713.
[4] Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1975, p. 148.
[5] Hans Georg Gadamer, L’attualità del bello. Studi di estetica ermeneutica, a cura di R. Dottori, Genova, Marietti, 1986, pp. 83-84.
[6] Ivi, p. 200.
[7] Ivi, p. 169.
[8] Allì Caracciolo, Malincóre (una fonologia del vuoto), Cittadella (PD), Amadeus, 1996.
[9] Cfr. per il contesto e significato di tale concezione, Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, BUR, 19887.
[10] Vedi l’indagine condotta da Derrida sul pensiero di Foucault in Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1971, specificamente Cogito e storia della follia, pp. 39-79.
[11] Ivi, p. 46.
[12] Hans Georg Gadamer, Persuasività della letteratura, Ancona-Bologna, Transeuropa, 1988, p. 60.

Poesie edite e inedite

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Da: Allì Caracciolo, Monologhi ripetitivi con la Poesia (pubblicazione in corso). 

[1]

Il luogo

Mentre discende come fosse l’ultima

s’aggetta la sera in plumbee nubi

squarciate ove riflette un peltro lucido

lì

si specchiano le cose una nell’altra

alla ricerca della somiglianza 
 

[2]

L’anima canta stanca

mentre tu taci ricordando il canto 


e il ricordo è miseria  nella pallida sera

ove talora s’accasciano uccelli a riposare 


Se soltanto tornare

la tua voce potesse a le occasioni

le perdute ginestre

le feroci pulsioni, riconoscere in esse

la lenta melodia del sangue che in te scorre 


anima mia, dir loro, anzi che questo sguardo

di mancate agnizioni

l’aggirarsi casuale dove il vuoto risuona

il tuo passo d’automa trasognato e disforme 


il filo delle labbra una catena  che apri chiudi apri senza suono 


Forse un segnale,

ripeti versi tra le foglie 
 

[3]

Mentre pentita al bordo del villaggio

attacchi il piede indietro a quello avanti

la linea inseguendo o disegnando

che isola il villaggio dallo spazio

ti vidi batterti il petto anche le spalle

-per lo stolto tuo peccato di essere- 


-e per esso-

saltellare festante attorno attorno

ridda invasata sulla linea a calce

che in cerchio isola il villaggio 
 

[4]

Forse la sera, quando le cose vanno al loro posto

per convenzione (non ontologicamente, s’intende)

forse la sera per convenzione (per un sentire indotto, cioè, ma motivato)

la sera forse

le parole che si sono scritte (e nel giorno movevano i pensieri)

le parole sono figure che attraversano la sera 
 

[5]

Franz Liszt

«Non chiedermi quello che io stesso ignoro. Il mistero che vuoi penetrare non mi è stato rivelato. Io vengo da un paese lontano, di cui non mi rimane alcun ricordo». 

I movimento

Scrivevi che nulla rimane, nella torpida visione. Come un eunuco, come un fanciullo, il misterioso viandante -un ermafrodito o l’Ermes?- rivela la mancata rivelazione.

C’è un sapere nell’assenza.

Era questo il segreto: che nell’ignoranza, nella scienza dell’ignorare, si cela un’antica sapienza, il segreto, quasi, del cosmo.

«La forza che mi spinge è muta e non m’indica la strada» ti dissuade l’enigma che insegui, l’uomo dalle spalle di tempesta, non seguirmi, inutile speranza.

Era muta, diceva e ti descrisse le meraviglie del sogno, l’incomprensibile colore della sera, l’armonia segreta dei venti, la musica la musica 

II movimento

Terra lasciata alle spalle estesa nell’animo in lande traversate dal solenne ricordo di un fiume

tutto tutto attende alla musica nella caverna stanca del viaggio

Volgere alla propria terra le spalle per ritornarvi

il cammino segnato dal filo liso della nostalgia

Visitare città con la metafora della provenienza scandita in note battiti difformi

il suono del suo nome amplificato dalla cassa armonica del desiderio

il pellegrinaggio un ritorno reiterante 

III movimento

Se quella forza è nemica, perché questi sogni divini?

ti chiedeva il viandante chiedendo a se stesso, Se benevola perché questa pena che mai trova requie?

«Addio» disse e s’allontanava facendoti riaffiorare in te stesso

come il silenzio, inespressivo, come lo sguardo, vuoto, come la pallida fronte della miseria o della conoscenza, la languente armonia l’ineffabile arte 

[Vedi la Lettera di F. Liszt al Signor Lambert Massart, Gazette musicale, 2 settembre 1838] 
 

[6]

vicino allo smalto scrostato  del bacile ad un coccio spezzato nomepoesia ti taccio le crepe ai muri i pezzi di calcina il letto stridulo ti taccio un rubinetto perde a ritmo l’attimo d’acqua il tuo nome mi spacca vorrei annientare il tempo che ti ha dato  crearti quando voglio come la goccia un attimo disperderti spezzare lo stampo in gesso rubare  la voce con cui dici io  averti infilata in questa crepa come un filo di paglia fra le labbra una cosa qualunque che per anni è lì poi un giorno uno viene getta via nomepoesia e nessuno s’accorge

così di te vorrei 
 

[7]

Lana di ferro il tuo corpetto

all’abbracciarti urti sul petto  l’irriti

e il tuo, trafitto, si imprime di incisioni,

piccola asceta da insensato medioevo

che i fianchi ti cinge scandisce le tue ore scava i cibi

mentre affebbrata ogni sonno ignori

gli occhi perenni dalle fosse muovi  tuttintorno

e in avanti  forando anche la notte con lo sguardo

o con il mite orrore  della tua lunga cerca a piedinudi 


A volte la poesia è più grassa, la invitano a cena anche i poeti, gli amanti, cultori, ricchi, gli annoiati, chi se ne intende, i fautori, poi gironzola i bar siede ai caffè, sa stare al mondo al mondo accetta, e nutre il bello 

Ma tu, pure se taci sei fastidio, lo sguardo smarrito, riempito da guance cave il silenzio,   come su schermo di cinema ti scorre addosso la teoria affollata delle facce che in questo istante muore per fame silenzio lo stupro irrisione, sgozza il cannone o che altro, cadi tra gli astanti come la mosca nello champagne, c’è da gettare via tutto quando arrivi

anche le cose

deliziose 
 

Da: Allì Caracciolo, Malincóre (una fonologia del vuoto), Cittadella (PD), Amadeus, 1996. 

[8]

tras-figurazioni sublimi per leggere la vita | divinità del dolore-uomo |

plasticità del vizio | amore perduta nobiltà feroce |

tale

vorrei di te – poesia –     ( come a promessa ) e renderti divina      ma vieni da

( vivi in ) una mí

seria nuda

e ti stendi sul greto stancamente a vendere quel po’ di amore che ti ricava dalle tue cóscescárne

un piatto di minestra 
 

[9]

l’impercettibile vuoto

dove tutte avvenivano

tutte si perdono

le mutazioni 
 

[10]

Prolusione affidata all’oralità 


Non parlerò della mia attività di poeta

per coerenza con una biografia intellettuale scandita dal silenzio: quello

imposto /dalla poesia

        \da me

e quello imposto da altri

con la differenza sostanziale della violenza

(l’esortazione cioè quotidiana a vivere senza annunciare la qualità definitoria della parola simultaneamente alla sua precarietà

l’imposizione di un cursus in cui essa –la parola- sancisce qualificando gli adepti escludendo gli esclusi)

La sua irrinunciabile diversità –della parola- è il memento del poeta: la parola come il tempo rovina via, precaria ed irripetibile è teatro che vanisce

Non potrà la poesia mai acquisire la sostanza dell’auctoritas poiché questa istituisce il déjà-dit

L’inespresso, tuttavia, non può sostituire/costituire poesia.

L’unico silenzio è una poesia che si destituisce da se stessa.

Cogliere questo istante è il mio (vocazione imperativo identità) mestiere. 
 

Dal Poemetto Abbozzo per Campana. La Insomiglianza, in La Insomiglianza quattro poemetti, Salerno, Ripostes, 2007. [Finale della II parte, III parte] 

[11]

II

     […]

     stabilire metafore

            tutte

            ogni possibile metafora

per rintracciarne una sola

essa

quella che ti fa vivere

oppure si cela nella identità di somiglianze

lontane fino allo sradicamento totale

alla inversa sostanza

alla

ínsomiglianza 


scrivevi versi sulle foglie 


Sibilla stanca

talora attenui il tuo corso

il gemito dell’antro tutto risonante

tempesta di vento o di sospiri

l’urlo

trascina le foglie non la musa assopita

            – sognava danze

            o

         altro –

l’urlo che imbianca le colline

col rovescio argentato delle foglie

sonagli

le serra

la libertà un filo spinato da scavalcare

le distende argentine

garrule sulla cresta dell’onda

la libertà una ruggine

sonagli

le serra risonanti come la catena

le serra il catenaccio

la libertà

una setticemia dell’anima 
 

III

poesia

evanescenza che non torna

Andare andare

e poi

la muta orgia sbranamento furioso

Venga la morte pallida e mi dica

verrà

l’oscura baccante a divorare 


l’ingordigia e il silenzio

tutto

fu taciuto

Andare andare

e tu bagliore

Nel dolor d’infinite morti amare

vanenteuridice ferma all’attimo

in cui tendi le braccia ti dilegui

tu

poesia

……… 
 


Da Allì Caracciolo, Stampe da manoscritti apocrifi (pubblicazione in corso).

[12]

Teoria del romanzo o altro 

. Il rapporto tra i personaggi. la loro qualità : assenti indecifrabili. definiti una sola volta da un segnale di frase.poi perduti per sempre

                   ↓ 

che non mira a definire alcun personaggio alcuna qualità.solo a sottintendere una parziale memoria·una presunta allucinazione da cui

     il senso -l’unico : parziale·presunto-

     dell’esistenza. 


. L’assenza di pagine : poiché il numero  -o il Numero-  c’è  -quando c’è- 

ma è altro. tuttavia

     ↓ 

una numerazione scandita attraverso parole che percepiscono il fieri momentaneo è attestata -talvolta- nella precaria situazione di un capolettera o di un precipizio sulle/delle parole:

      piuttosto sulla assenza. 


. La capacità  -qualcosa di occulto-  di contenere uomini animali cose si sottrae : l’atto unico consentito al movimento dal quale dipende tutta la successione-simultanea dell’essere nelle sue metamorfosi. la scansione____una lunga linea interminata stabilita dalla necessità di ricondurre la parola ad una qualche permeabilità con lo spazio

poi:

la condizione asituazionale   -schermo·paradosso della asensorietà delle cose. della improbabilità del reale- 


. Il tempo____una assunzione del predicato necessitato a coniugare se stesso nei framm enti dello specchio : illusorio passato·frammento·falsofuturo____negazione-riproduzione

una negazione riprodotta ad infinitum nel nulla·assenza e -pure-

riflessione-rifrazione di un oggetto inidentificabile nello spazio che lo produce come necessità ultima della propria credibilità (metafora : bubbone stanco sostituitosi alla materia) tuttavia:

(gli squarci della lirica ne individuano  -a tratti-  i bordi frastagliati l’umore di ferita l’abisso senza fondo della sua profondità cancrena). 


. La sapienza  -la ignara sostituta della conoscenza-  frantumata nelle piccole pieghe di un particolare ostinato a non trasmettersi e a qualificare il reale : o non piuttosto l’esistenza? 


. La legittimità -infine. requisito assente dell’origine : la sua assenza

delegittima l’esistenza. o non piuttosto l’essere?

                  ↓

la autodefinizione attraverso la parola

o attraverso

il silenzio

      anche il silenzio  -invalso idolo- 

      un esposto sulle scale del tempio.

Italo Testa

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Italo Testa (1972), vive a Milano. Ha pubblicato per la poesia il concept album «canti ostili» (Lietocolle, Como, 2007), la raccolta «Biometrie» (Manni, Lecce, 2005, premio San Giuliano Terme/Poesia Incivile) e il poemetto «Gli aspri inganni» (Lietocolle, Como, 2004). Ha ottenuto per la raccolta inedita i premi Dario Bellezza e Eugenio Montale. Suoi testi sono apparsi in antologie, tra cui «Chaos and Communication» (Link Diversity, Sarajevo, 2001), «Così non ti chiamo per nome» (Empiria, Roma, 2001), «Nodo Sottile 3» (Crocetti, Milano, 2003), «Parco Poesia» (Guaraldi, Rimini, 2003 e 2004), «Il presente della poesia italiana» (Lietocolle, Como, 2006), «Poesia e natura» (Le lettere, Firenze, 2007), «La joven poesía italiana» (Cuadernos del matemático, Madrid, 2007) e su diverse riviste, tra cui «Portals. A Journal in Comparative Literature», «Gradiva», «El coloquio de los perros», «Atelier», «Almanacco del Ramo d’Oro», «Pelagos», «Nazione Indiana», «Il primo Amore», «Poesia da fare». Ha pubblicato saggi in volume e su riviste, tra cui «aut aut», «L’ospite ingrato», «Il ponte», «Reset», «La Società degli Individui». E’ co-direttore della rivista di poesia «L’Ulisse» e, presso Diabasis, della collana di saggistica «La Ginestra».

Italo Testa: Nota teorica e poesie edite e inedite

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Dell’etologia poetica 


1.  

L'impulso all'espressione, dapprima tensione mimetica ad assimilarsi alle cose, si arresta nella cesura formale, con un colpo all'indietro che lo riporta su se stesso. Solo di qui è possibile un ritorno alle cose, ora prossime perché estranee. Così l'adattamento non è puro conformismo, bensì tensione che trasforma, metamorfosi. In questa direzione la poesia supera la forma tradizionale delle architetture verbali, basata sull'opposizione figura/sfondo, e si riallaccia alla concezione topografica figura/figura: diventa elemento sporgente ma fuso nel terreno dell'esperienza. La figura, mentre si integra nella topografia del luogo, insieme ne deforma il profilo, escrescenza linguistica che genera nuove forme di vita, inedite morfologie linguistiche. Come un un'arte del paesaggio essa s'innesta nel terrain vague, tra i margini inselvatichiti di parole e cose, rinvigorendone gli arbusti e rendendo riconoscibile la silva dove prima si scorgeva solo un panorama di rovi e detriti.  


2.  

Così, con cura biometrica, l'ars poetica continua la sua tessitura, anche quando le strutture consolidate, le tradizioni si sfaldano. Il grado zero della cultura, che in certi momenti sembra prossimo come non mai, è forse anche un'occasione per la poesia che, come pratica istitutiva, non necessita, nel suo fare paziente, di una legittimazione esterna. In questa prevalenza dell'agire, del fare, la scrittura poetica torna alla sua qualifica di ape operaia, di silenzioso e operoso artigianato che tesse una tela mai pienamente aggiudicabile ideologicamente. Certo, vi e' anche la resistenza dai margini e la salvezza dell'esclusione: ma qui la poesia resiste proprio perche' viene meno il lungo errore dell'appartenenza piena. Quando il tutto che la teneva coesa come pratica culturale si dissolve, la poesia continua a sporgere da quel terreno guasto, facendo segno ad altro. Non piu' sorretto o puntellato da un sistema riconosciuto di valori, questo gesto, acme dell'individuazione, torna a poggiare sull'etologia poetica della specie, ma proprio in questa nudità si osserva dal futuro. 
 


Da Come non torni. Quartetti per la fine del giorno, inedito, 1990-1995


INVITO     
 

Silenzioso il cielo sussurra inviti

ad abbandonare l’arsura, lievi

le vostre voci un cristallo raccolga.

Grumo immemore attende nel tepore

di una calda palude: non ala, battito

che franga lo specchio d’acque oscure

anteriori al giorno.



*


Come non torni, che sgocciola

e fa buio, quasi si leva

dai fossi uno spicco d'urlo,

non sai che in povertà

si consumano bosco e cielo,

un ramo che nella nudità t'incarni,

come non parli, del crollo della vigna,

dove nascosto ancora pregavi,

è vuoto il cesto degli aculei

e tu non torni, la stanza è vuota

di un nulla, un’attesa vigile

che un qualche fuoco arda,

perché non mormori la condanna,

il casolare ormai deserto,

solo ombre quelli che ti cercavano,

quell'ultimo rintocco.



CONGEDO 


Come la vita che scorre intatta

e attraversa la notte: la perdita

è paglia e il silenzio è dono. 
 


Da Gli aspri inganni, Lietocolle, Como, 2004


I. 


Devi fare attenzione, orientare lo sguardo

in direzione del flusso: è bianco il velo

che lambisce i contorni, che accieca: 

tu al bianco devi cedere, muto

aderire all’indifferenza delle cose.

 


II. 

Misura il respiro, lascia aderire

alle forme dell’inganno le membra;

le ossa tenere sfiorano il suolo

a cui il peso dei giorni trattiene 

come brocche dai cieli bagnate;

raccogli, lascia variare i silenzi

di cui nel vetro dell’aria t’investi;

tu lascia vibrare ancora i colori: 

se al docile buio un’ombra t’inscrive

inarca le spalle, al vuoto confida

il resoconto terrestre, gli aspri 

inganni delle forme: tu socchiudi

il passaggio, lenta lascia pulsare

distante la peripezia del tempo.

 


III. 


Se cadi e l’ala non sorregge i passi

che nell’azzurro il corpo in volo traccia,

lascia scorrere l’inganno splendente

ogni cosa fa segno all’estraneo; 

se nel velo la pupilla si annoda,

coda di volpe l’incanto assopisce

dal manto del giorno schiuma apparenza;

chi perde il sentiero presto fiorisce, 

cadendo nel vuoto il taglio richiude

da cui insanguinato un giorno ti levi;

se al suolo un’ombra serena aderisce, 

lascia vibrare ancora i contorni:

la misura si compie, il segno traccia

una nuova voluta nell’aria. 




Da Biometrie, Manni, 2005



RETINE 


  Di ora in ora, appena scatta un allarme

da qualche parte una luce si accende

tra le tende il tuo corpo si nasconde

dalla donna che nella stanza dorme.

  Poi dal frigo un sibilo si propaga:

imbevuto di una tinta acida

il quadro luminoso della strada

sovresposto sulla pupilla dilaga.

  Se un elicottero verde veleno

sovrasta le insegne della notte

battendo ai vetri, dal decimo piano

  manda il tuo segno al profilo alieno

fondi la retina al cerchio radiante

del dio in acciaio metropolitano.

 


SEPOLTO, ASSOLTO 


nel limbo di specchi io mi addoloro

su questa pietra tatuata nel gelo

nell’abbraccio freddo della marea mi verso

se dalla schiuma del vetro riemergo: 


                                                          vedi dell’oscuro le tracce, i lembi

                                                                sfrangi, ammutolito, nel buio:

                                                  discanti il gelo, nel taglio di un mondo

                                                                  la semina dei giorni disperdi: 


nel sonno, io, sepolto assolto

dall’evento tendo il profilo

la cornea sull’incavo del giorno: 


                                                          preso nel laccio non vedi figure

                                                      nel fondo del sogno  scendi, ricadi

                                                                          frammenti di specchi:

 



KARL-MARX ALLEE


1. 


niente avrebbe detto, quell’intercalare

fatto di brevi sospiri, soffi

nel ricevitore,

alterne attese, ma non c’era

malignità in quelle parole,

anche se avevano

la durezza di un vetro,

quasi gli uscivano senza volere, niente

a che fare con le minacce,

i ricatti che erano

il tessuto di quei colloqui,

niente era

il suo intercalare, e lì, in quel tic,

potevi leggere la conferma di quello

che pensava, lamentoso

o sprezzante: niente    


2. 


camminavi con gli occhi chiusi,

o con le palpebre arrossate,

come di chi avesse pianto. 

Ma non avevi pianto.

Niente hai detto, non è stato niente

un’increspatura sull’acqua, una spirale

sulla sabbia:

ad occhi chiusi filtrava

la forma vuota delle nostre vite

in attesa

la geometria lineare della Karl–Marx

Allee

nel breve declino d’Agosto

due ombre nella fuga di vetrate

tra la polvere dei cantieri: dal niente

la selva di specchi profilava i tuoi occhi

una notte qualunque a Potsdamer Platz 
 

3. 


Inizio dell’estate sotto la nuvolaglia

della Ruhr.

Ti dibatti ancora nell’ora

del falso sentire: in proroga concedi i tuoi

giorni, come se il carico

fosse inesauribile

è ai doveri verso te stesso cui sfuggi

perché di te stesso disperi. 
 

Ti allontani, vorresti uscire dal sentiero

per incamminarti nel folto:

detriti di stelle

osano ricoprirti, come artigli

si configgono




Da Canti ostili, Lietocolle, Como, 2007



DISARMATI


ostili, sì, alla vita

sbandiamo sulla traccia

illuminata  a giorno 

intorno si dirada

il folto della macchia

sull'altopiano arioso 

ad altro è inteso il chiodo

puntato sulla tempia

nell'ora che si sfalda 

e rapinoso un volto

rimanda svelto un cenno

che al mondo ci disarma

 


IMPLACATO  
 
 

il sangue che non hai versato

alla battuta d’armi

sui calanchi franosi:                          sbanda nella luce, gira e cade

                                                                    ma la neve, dice, la neve… 
 
 

l’amore che non ha dato

frutto alla terra

in gesti netti e operosi:                      manca un giorno, un’ora, una foglia

                                                                 è il 24 aprile, ma cade, cade…



la paura che non vi ha stretto

addossati ai muri

sotto i colpi esplosi:                          così al campo, che ha arato

                                                                     offre le labbra e confida 
 


II 


qui, nei vostri poderi,

ricalcando i passi

dove la storia ha fissato

una tranquilla dimora,

prendiamo possesso, noi

di un tempo che frana,

per una traccia andiamo

che a voi ci riconduca: 

e fiutiamo, se il vento gira,

con le narici umide di brina

un sangue, implacato, nella neve:                ma canta il dolore che accomuna

                                                                        e una lepre, in fuga, sotto i gelsi 

(Monte Falcone)



SARAJEVO TAPES


VI [16 luglio, spalato: h. 9] 


un bagno d’ocra, di rocce, di scaglie t’accoglie

muri a secco e alle fermate d’autobus

murales stinti con bottiglie di pepsi 

per vie d’acqua, confluendo la macchia verde

   si penetra all’interno

il perimetro del mare ritaglia in occhi verdi

laghi cinesi, una cartolina dal mondo: 

lasciati invadere dall’inganno dei colori

lascia scorrere i profili 

gli occhi degli uomini furono fatti

per guardare: e lasciateli guardare


***


VII [per mostar: h. 16] 


mi dicono che i tuoi occhi sono vuoti

mi dicono che i tuoi occhi sono stupefatti 

segui lo sventolio dei drappi

il rosso, il bianco, il blu

distesi tra le rocce, sulle case

in costruzione a fianco della strada 

mi dicono che i tuoi occhi non vedono prati

mi dicono che i tuoi occhi s’incantano 

conta, ad uno ad uno,

i parallelepipedi bianchi

le bianche distese, da ogni lato

l’abbraccio del paesaggio

fitto di cippi, giallo di luce 

mi dicono che i tuoi occhi si dissipano

mi dicono che i tuoi occhi, i tuoi occhi 

a seguire le cave di sabbia sul fiume

dopo mostar, i mucchi di sabbia e di terra

scavati, nella luce, senza ombra,

per ogni gruppo di case una distesa

di pietre bianche, erette, immobili 

Nicola Ponzio

Versione stampabilePDF versionNicola Ponzio è nato a Napoli nel 1961. Vive e lavora a Torino.

Poeta e artista, ha esordito pubblicando suoi testi poetici in varie riviste letterarie italiane, tra cui Nuovi Argomenti, Galleria e Atelier.

Suoi versi sono presenti in diverse antologie, ultima, Il presente della poesia italiana, a cura di Carlo Dentali e Stefano Salvi. (Lietocollelibri, Como 2006).

Ha pubblicato le seguenti raccolte poetiche: Gli ospiti e i luoghi (Nuova Editrice Magenta, Varese 2005), L’equilibrio nell’ombra (Lietocollelibri, Como 2007), l’e-book Esercizi del rischio (Biagio Cepollaro E-dizioni, 2007)

Nicola Ponzio: Nota teorica e poesie edite

Versione stampabilePDF version    Appunti e contrappunti di poetica

    1
    Guardi un albero e dici: bisogna radicarsi nella terra, per volgere lo sguardo verso il cielo. Ed ecco che l’esigenza di una poesia ctonia, terrestre e interrogante, si rivela in tutta la sua energia mortale, entropica. Mai separata dall’idea di doversi confrontare con la nuda brevità dell’esistenza.

    2
    La poesia, ovvero, il ritmo come forma del respiro. Scrivere per me significa cercare un ritmo che coincida col respiro, un continuo tra mente e corpo, materia e pensiero, visibile e invisibile, che superi il sistema binario delle rappresentazioni. Da qui il difficile equilibrio di una scrittura che pare sempre sfuggire di fronte al proprio referente. L’alterità che cerco così di rappresentare (mai di descrivere) è colta dall'interno della sua eterna e presente contraddizione. Specchio di ogni agire umano.

    3
    L’esperienza del vuoto, di fronte alla pagina bianca, determina il conflitto con la  necessità. Nasce così l’urgenza di stabilire delle priorità rispetto alla propria  ricerca. Rigore, consapevolezza, ascolto. Ancora, una scrittura poetica che non si confronti anche con il corpo di una comunità in divenire, oltre che con la caducità inerente alla propria biologia ed esperienza mortale, rischia di apparire infeconda, arida. Conseguentemente è probabile che non produca frutti autentici, ma solo surrogati di maniera.   

    4
    Etica ed esperienza devono necessariamente coincidere, per rompere il silenzio. Soltanto in seguito si appresta la parola. La lingua poetica diventa così territorio privilegiato d’indagine, meditazione e pensiero. Analogamente alla natura che le fa da specchio, nella sua molteplicità ed erranza. Lingua e natura, quindi, connaturate all’uomo e  identificabili alla stregua di un’interrogazione enigmatica intorno al senso dell’essere e al divenire, al destino e all’alterità.   

    5
    Ma la poesia è anche silenzio. Pausa. Inspirazione, espirazione. Assenza e separazione. Veglia. Attesa. Rotta. Oblio.

    6
    Nell’aperto l’universo metamorfico della poesia si manifesta in tutta la sua crudeltà e bellezza. L’aperto, ovvero la natura ignota e liberatrice, ci espone al rischio dell’erranza totale, al nomadismo definitivo e inafferrabile. La coincidenza degli opposti si fa esplicita, nel fuoco dei possibili alfabeti.    

    7
    Abitare le parole necessarie, ricavandone un’icona del dolore.
    Sottrarre e sottrarre, sempre, e senza tentennare. Vigilando sul respiro e sul silenzio. Ubbidendo a un comando. Aggiungere il giusto sostanziale perché l’osso non ferisca ma affratelli. Come un talismano appeso al collo.

    8
    Pensare obliquamente rispetto alle categorie logiche del sapere scientifico. Curare le relazioni tra gli enti interrogando le parole con umiltà e coraggio, confrontandosi con la tradizione e ponendosi in ascolto con l’alterità.

    La poesia si espone all’apertura spazio-temporale dell’ossimoro e della contraddizione, offrendo la possibilità di esplorare gli abissi della coscienza umana e della percezione del mondo. Senza pretendere salvezza né conforto.   

    9
    Dove finisce la mia poesia comincia quella di un altro.
    Dove comincia la mia poesia?
    Dove finisce la tua poesia?
    Tornare per partire per tornare.

    10
    La coscienza della dissipazione dovrebbe essere compresa in ogni autentica poesia.  Non desidero specchiarmi sulla carta, piuttosto sprofondarvi per riemergere diverso, dopo una lunga apnea. Dall’uomo all’uomo, da un respiro a un respiro firmando una rotta, nella consapevolezza di non pretendere nessun compenso, nessun onore che già non sia connaturato al dono di poter scrivere qualcosa di umanamente autentico, in una forma che passerà.

    11
    Diciamo addio a ogni poesia che ci consoli. Basta! Occorre affrancarsi definitivamente da questi limiti. La caducità dell’esistenza, il momento presente e continuo del distacco, andrebbero accettati senza rivalse sul reale. Il vuoto a venire è già presente nelle orme di un bambino che cammina sulla sabbia. O dentro gli occhi di una gazza, dove si specchia il mondo. Questo accettare. Questo cantare. Senza pretendere salvezza o compromessi.

    12
    Si scrive sempre da un esilio, da una separatezza, affinando le parole in un abbraccio che sia partecipe di ogni cosa del mondo: i riflessi dell’alba su un filo d’erba, le ombre tremolanti sulla neve, il fuoco lungo i margini di un bosco.
    Rinunciare all’attaccamento a se stessi come se questa fosse la più umana delle priorità. Nessun intimismo, quindi, tanto meno patetici soggettivismi lirici dettati dal narcisismo più bieco.
    La poesia oggi non può essere altro che dissidenza. Dissidere, ovvero sedere separatamente, ascoltando con umiltà ma senza cedimenti. Rispondendo con l’apparente fragilità della parola poetica alle iniquità che ci assediano.

    13
    Si dice piede d’accento, non mano, non cuore, non occhio d’accento, ma piede. Forse per voler sottolineare l’attaccamento dell’unità ritmica alla terra, e quindi al respiro.
    Piede = cammino =  respiro = ritmo = nomadismo = erranza = poesia.
                      

Da GLI OSPITI E I LUOGHI
 

Dalla sezione Il falegname Zimmer
 

        Cedere in silenzio fino a eccedere,

        nel silenzio dell’alba. Convertirsi

        alla luce e della luce convertire

        con coraggio, con pietà le sue radici.

        Le sue monete d’oro e d’ombra.

        Custodirne l’alimento

        nel visibile dominio che protegge

        l’ostinata carità di questa carta.

        ***

        Ti metterò alla prova separando

        la viltà dalla tua vita.

        Dove sbocciano le api alla speranza

        di parlare con gli umani,

        in questa casa.


Dalla sezione Gusci


        Comunitario è chi con cura riconosce

        nella propria alterità

        quell’apertura necessaria a condividere

        con gli altri la sua fame.

        ***

        Pensare per frasi rotte

        con la bocca

        del sole che purifica i raccolti.

        ***

        Vivere di espedienti,

        per estinguere quel debito contratto con la luce,

        nella stessa planetaria economia

        di fame e usura.

        ***

        Parlato l’albero nessuno

        parla più.

        Sconveniente è il dialogo.

        ***

        Scrivere forse è sottrarre dal buio

        l’identità dell’alba.

        Premessa che pacifica negli occhi

        una sintassi più terrena, responsabile.

        Promessa che fa fronte alle menzogne

        con la forza di un impegno.


Da L’EQUILIBRIO NELL’OMBRA

dalla sezione Oscillazioni


        Gelsi e il prato un miracolo,
        nel gesto di riempire con il cielo
        la distanza della carne. L’esile

        materia più gelosa.

        Scegliere nel nome

        di ogni cosa la più giusta decisione.

        Credere è questo.

        Allontanarsi da sé per ritrovare

        la scrittura della vita

        in una gioia da disperdere.

        ***

        Coraggio delle scelte mattiniere,

        non attardarsi a discutere

        che cosa sia più giusto

        designare.

        Il tempo è nell’anticipo

        del falco.

        Nel suo respiro

        di meteora.

        Si danno nomi al mutevole

        del cielo senza ipotesi

        plausibili per l’erba che rinfranca.

        Come se tutto qui dovesse vivere

        per noi la stessa gioia,

        l’insostenibile esperienza

        di un convito

        di parole dentro l’erica.


dalla sezione Gli invisibili


        Voglio parole forti.

        Concrete.

        Simili ad un seme che s’infila

        nella crepa

        di una ripida parete di granito.

        ***

        Una chiarezza così estrema

        non permette

        di comprendere la luce

        che si maschera di pagine

        e di cenere,

        per essere vicina ed invisibile.

        ***

        Parlare delle nuvole per dire del dolore

        dei mortali.

        Mutevolezza

        dell’inchiostro che dissimula così

        la sua efficacia.

        La sua perseverante adolescenza.


dalla sezione La pagina, il fuoco


        Ergersi più audaci dentro il fuoco

        di parole che vivificano il cuore

        delle scelte.

        Impegno che determina

        chiarezza.

        Nell’estrema libertà di contraddirsi.

        ***

        Una poesia che non ci sappia provocare

        si smentisce nell’alone

        derisorio

        di un pensiero inappetente.

        ***

        Meglio gli scacchi che esaltarsi

        per le mezze verità dei merlettai.

        Riannodano nel canto per se stessi

        le parole dette piano agli impiccati.


Da ESERCIZI DEL RISCHIO


        Esiti, - dove si ostinano parole

        e resistenza.

        Rotoli in preda al silicio,

        tra segni elettronici persi

        nel vuoto del web.

        Ora insisti

        sui versi, - ti avviti

        sugli input, desisti…

        Se nel monitor vibrano impulsi vitali

        o già morti, - dati al ritmo di bit


Dalla sezione Ambienti


        Improvviso il rasoio

        di un lampo separa gli aironi

        serali dall’ampia risaia.

        Cromosfera di un’ombra

        remota che duplica i pioppi

        inclinati irradiando la vista.

        Le acque lungo l’asse provvisorio.

        ***

        Incoerente è la fede, improvvisa

        la virata di una tortora, - dice

        di un luogo il sigillo diurno.

        Poi, se sfiorendo si assolve

        da sé il paradigma intravisto, - il legame

        di luce che svela gli abbrivi, le foglie, -

        pure il testo si evolve,

        contrasta.

        Segue a domanda

        domanda, una cura agli indizi

        sabbiosi, alle trame di un mandala.


Dalla sezione Esercizi del rischio


        Più debole è la forza che si ostenta.

        Ma forte della stessa debolezza

        è la forza che arretra con arte

        ulteriore, - esponendosi al rischio.

        ***

        Ora maschera – innesta – poi sostanzia

        e dispera di sé mentre vira

        molteplice un verso di vita.

        Il lavoro degli anni, - l’umile

        vista o la brina al fermento di credere

        vero il volersi felice.

        Controversia e primizia.

        Disciplina che dura un istante

        ulteriore, - distante

        da sé e da quel che segue.

        ***

        Mente che mente

        e poi s’inluoga – deriva

        dalla stessa ambiguità

        delle parole questa crescita

        di senso.

        Come una prima nascita, la rima

        intermittente delle acacie.

        Avanguardia

        di luce che duplica il dubbio

        radente una lingua inventata.

Mauro Germani

Versione stampabilePDF versionMauro Germani è nato a Milano nel 1954. E’ stato fondatore e direttore responsabile della rivista di scrittura, pensiero e poesia “Margo”, che ha diretto fino al 1992.
Ha pubblicato i volumi di narrativa Racconti segreti (Forum, 1985)  e Il prescelto (Alberto Perdisa Editore, 2001), e i volumi di poesia L’attesa dell’ombra (Schema, 1988), L’ultimo sguardo (La Corte, 1995) e Luce del volto (Campanotto, 2002).
Suoi testi sono apparsi su varie riviste, tra cui “La Corte”, “Anterem”, “Atelier”, “La clessidra”, “Capoverso”, “Poesia”.

Mauro Germani: Nota teorica e poesie inedite

Versione stampabilePDF versionAll’appello che viene dall’ombra risponde la scrittura, l’ineluttabile rovina della luce e della storia. Si tratta di una parola senza protezioni, senza difesa. Chi l’accoglie sa del suo silenzio e del suo mistero. Si accinge a scrivere dall’esilio del suo ascolto, come sospeso tra due abissi: un fondo oscuro e segreto che si spalanca alle proprie spalle e qualcosa che da sempre attende come un destino. Ciò che resta è la traccia di una scomparsa, il segno di una voce perduta e di un desiderio, la risposta ad una chiamata antica.
La poesia è gettata nel mondo, è delicata e potente al tempo stesso. Nasce ai bordi dell’inesprimibile, tra salvezza e perdizione, tra memoria ed oblio.
Il poeta è colui che vive in sé la frontiera, il margine, l’inquietudine di un’alterità inafferrabile che sente nell’ombra. Sperimenta l’assenza dell’Altro e nel contempo ne ricerca la voce, una voce che da sempre tace nel suo dire, che si sottrae nel suo essere qui, nella carne e nel dolore dell’esistenza.
Che cosa può costruire allora il poeta?
Nel testo c’è sempre un altro testo perduto, tutta l’incompiutezza della scrittura. La costruzione avviene sulla sabbia delle parole, sul deserto di una lingua che frana. Come ha affermato Edmond Jabès, “per lo scrittore ogni parola scritta nasconde un’altra parola del tutto inafferrabile ma incessantemente differita e infinitamente più essenziale. Verso questa parola egli tende”.
E proprio questa tensione mai placata definisce  a poco a poco lo spazio della scrittura, una zona che è per noi lontananza ed intimità, spaesamento e familiarità, costruzione e maceria.


*
Scrittura
d’ombra
e d’esilio,
capovolta
aurora
di pagine
perse.

Dov’è
il vento
che chiama
le labbra,
il raggio
bianco
che scuote
la terra?

Dov’è
la voce
perduta
del sasso,
l’eco
ammutolita
del cielo?

Tutto
si cancella
dove tutto
perdura.


*
Spegnere
un nome
eppure
vederlo
amarlo
senza
ritegno.

Finire
adesso
il mai
cominciato.

E sapere
le notti
che non sanno
e invocare
il cielo
prima
del cielo.

Aspettare
il silenzio.

Scrivere.

Scrivere
sempre
il già
cancellato


*
Persa
raccolta,
persa
memoria.

Catastrofe
dove
il tempo
barcolla
e tace
la notte
tace
il volto
che guarda
l’abisso.

E tutto è
un salto
d’addio
un gesto
solo

aperto
nel vuoto.

Maria Paola Svampa

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Maria Paola Svampa è una laureanda in Letteratura e Filologia Moderna e Contemporanea dell’Università di Macerata. Si interessa di poesia di lingua inglese ed italiana del 19° e 20° secolo, scrittura delle donne, e di studi comparatistici. È in programmazione l’uscita di un articolo sul Sublime kantiano nella poesia di Letitia Landon, presso Literature Compass (Blackwell Publishing). Attualmente si sta occupando dei rapporti ideologici ed editoriali del Rinascimento Americano con la poesia Vittoriana.

Maria Paola Svampa: Nota teorica e poesie inedite

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Solvitur Ambulando. La poesia come incontro. 


     Io non ho un programma, squadrato in bianco e nero, piegato netto in tasca, da squadernare a piacimento. Al massimo – passeggio – leggo, e prendo appunti. E tra i miei appunti – tre punti mi stanno a cuore – il corpo, la performatività, e l’incontro. 

     Doppia chiave 

     Che la scrittura delle donne sia una scrittura del corpo non vengo certo a dirvelo io. La “questione” sta semmai in come questa chiave (di lettura, e legatura) venga usata, ed abusata. Come tutte le chiavi, la si infila per aprire, ma anche per chiudere.

     La porta della mia stanza è una di quelle vecchie porte a doppia chiusura, con chiave e chiavistello non comunicanti. Un chiave esterna serra e disserra a capriccio la stanza – e all’interno tiene un chiavistello, che stringe la stanza da dentro, e si schiude solo per scelta. È questa incomunicabilità, di chiusure ed aperture, che genera la relazione. Con una sola chiave, con una sola serratura, non si dà tensione, ma rapporto di potere – dentro, fuori – non si dà comunicazione.

     La parola del corpo ha avuto il merito di schiudere l’ingresso al laboratorio dell’esperienza poetica. L’errore sta nell’usare poi questa parola del corpo come serratura singola ed inerme, da aprire – e soprattutto da chiudere – a chiave, da fuori, senza considerare la controparte interna. Far riferimento sempre, comunque, ed acriticamente al linguaggio del corpo quando si parla di scrittura delle donne è una seduzione macchiata di cattiva coscienza. Non fa che perpetrare l’antica equazione “donna uguale corpo”. L’insidia sta nel fatto che essa seduce la stessa parola delle donne, spegnendone il carattere. L’adulazione programmatica e normativa della “specificità” della nostra parola ci incasella – la chiave ci chiude in cella, ancora ed ancora ed ancora: fine dei giochi. Se la parola delle donne è automaticamente una parola del corpo, allora c’è poco d’altro che essa possa dire. Come se la “mente” esistesse fuori dalla carne, e come se anche gli uomini non pensassero da “dentro”.

     L’errore sta nel pensare che la scrittura delle donne parli semplicemente del corpo – e come tutti sappiamo, ogni brava donna se ne sta prima di tutto dentro al suo corpo, a fare l’amante, la mamma, la vergine. Questo rende la parola delle donne irrimediabilmente e costitutivamente isterica, e ne stronca la portata trans-gender.

     Le donne non parlano del corpo – parlano dal corpo. Parliamo da un luogo ineludibile ed incancellabile, con la consapevolezza che quando si parla – o si legge – non si è mai originariamente illibati, intoccati dall’esperienza, e che quest’esperienza avviene solo nel corpo. Il corpo non è solo il corpo femminile – ma è la modalità dell’esistenza e della riflessione umana. Il corpo non è una chiave di lettura, ma la carne ineludibile e calda dell’esistenza, ed anche dell’esistenza del testo. Il corpo non è uno strumento critico, ma dato fattuale e pulsante. “My body is not your battle-ground”, dice Mohja Kahf nelle sue E-mails from Scheherazad. E non va trattato come tale. Nè sulla pagina, né sulla piazza.

     La parola delle donne ha il merito di aver aperto e reso centrale l’essere materialmente “locato” del soggetto parlante. A chi legge non spetta una preoccupazione definitoria e circoscrivente, non l’uso arbitrario e rassicurante di una chiave. Chi legge è tenuto, è chiamato ad oltrepassare la porta, a scoprire il proprio pensiero come irredimibilmente locato nel proprio corpo. La novità della poesia delle donne, semmai, sta nel “pro-vocare” il lettore a ri-conoscersi come soggetto incarnato. 

Prendere la parola 

     Una parola che nasca consapevolmente ed intenzionalmente dal corpo impone per coerenza una riflessione sulla stessa sul fenomeno della produzione linguistica. La parola poetica, e forse non solo essa, non nasce come parola astratta, come puro pensiero tradotto su supporto materiale. La parola poetica è di natura fisica già nell’istante del concepimento. Il verso nasce come pensiero in ritmo, e cioè come spostamento sonoro, e quindi fisico, sensoriale, attraverso il cronotopo.

     Ma un verso, per realizzarsi come tale, deve ovviamente essere fruito, e riconosciuto come tale. La lista di personaggi da scomodare in materia è infinita, e passa per Sartre e Marziale. Un verso allora, se nasce come unità ritmica, come nodo indistricabile di carne pensiero ed azione, e se si compie solo attraverso la fruizione, può essere valorizzato dalla performatività.

     Ma con performatività non si intende solamente “l’offrire pubblica lettura di un testo poetico”, attività peraltro utilissima ai fini di riattivare il rapporto con il pubblico. La performatività è una struttura profonda del testo poetico. La parola, ed in particolare la parola poetica, nominandole, chiama le cose all’essere. Questa è la natura prima e costitutiva della performatività del linguaggio poetico (e non solo). La parola poetica nasce come stringa ritmica il cui movimento sonoro attraverso lo spazio ed il tempo costituisce elemento fondante della significazione.

     È a questo punto piuttosto difficile immaginare un testo poetico che “non funzioni” nella performance, o un autore che “non sappia” leggere se stesso. Quando questo accade, siamo di fronte ad una mancanza. Una mancanza che può essere intenzionale, e che quindi diventa strategia (anti)comunicativa, rientrando così nell’ambito della performatività; ma che spesso, purtroppo, è solamente una mancanza inconsapevole.

     Pensare alla lettura, e perché no, anche alla lettura a voce alta, e alla lettura reiterata come avvicinamento al testo non significa solamente prendere atto della natura del testo poetico come pensiero materico. Significa anche aprirsi al fruitore sin dall’inizio, sin dall’atto creativo, ammettere alla coscienza che la creazione è un atto sociale, liberandosi così dalle mitologie solipsistiche. 

La poesia in cammino 

     La parola è un’arte impura – e sporca è la poesia. La parola sarà anche ombra di un’idea – ma porta addosso l’odore del mondo e di ogni luogo in cui è stata. La poesia s’impasta fango d’albero e sputo di seppia, asciugato dalla polvere della via, perché tutto – è – materia. Soprattutto in poesia, fatta di ragioni, misure, metri, piedi...

     La “ragione” di un testo poetico è nel suo libro conti, elenco bruto, economico, ponderato, valutato, misurato. Nel libro di conti s’incontrano calcolo e materia; la sua misura sana la frattura (tutta immaginaria) tra l’astratto ed il concreto, tra un passato di cui dar conto ed un futuro da programmare – proprio come avviene nel testo poetico. Il libro conti possiede tutta l’oggettività d’uso che gli viene concessa da chi lo usa, da chi lo interpreta. Il libro conti non sta a sé ma, legato alla “realtà”, lega chi lo redige e chi lo legge.

     La poesia è fatta di misura. È fatta di movimento – scorre, s’impunta, ristagna, procede a salti, si sustanzia solamente nello spazio e nel tempo. La misura è un palmo di strada, uno dopo l’altro, scopo, ragione e mezzo costituente del viaggio. È la misura fa il viaggio – e la poesia, che si fa viaggio. La misura è una curva percorsa, la misura è carne numerica, la misura ci fa, e ne disfa il senso.

     La scrittura dunque innesca un incontro tra pari, in cui chi legge conta tanto quanto chi scrive, chi dispone del testo conta tanto quanto chi lo propone; essa genera una democrazia della differenza, della donazione di senso, dell’ascolto, della costruzione. Il testo è una strada, ed è su questa strada, in questo viaggio, che avviene l’incontro, o meglio molti incontri. Incontri combinati, a volte; a volte appuntamenti al buio.

     Se mettersi attorno al testo – leggerlo, scriverlo, parlarne, anche solo osservarlo – significa mettersi in strada, allora tutto ciò che possiamo sapere del testo non è che conoscenza di viaggio, o meglio, conoscenza in viaggio. Non possiamo parlare di viaggio (fisico o meno che sia) dal centro di una fissità, senza aver accumulato miglia e miglia nei piedi e nella mente, senza accettarne il carattere precipuo di incontro in movimento. E se la poesia è un viaggio, non possiamo accostarci ad essa muniti di concetti “incellophanati”: per andarle incontro dobbiamo essere disposti ad intraprendere ogni volta un viaggio, con tutti i rischi e le rivoluzioni che esso comporta. Perché un viaggio interroga le origini, e talvolta le modifica. E così se la teoria legge la poesia, oggi la poesia usa la teoria, la piega, la celebra e la sbeffeggia – le getta il guanto di sfida. Oggi, sta a noi lettori raccoglierlo.

     Non si tratta di abbandonarsi all’impressione fuggevole di una “esperienza” passeggera, ma di mettersi, ogni volta, in umile ascolto del testo. “Rimanere presso il lavoro” diceva Cézanne. Io sto dalla parte del lettore. Avvicinandoci al testo non siamo mai vergini. Né possiamo “uscire” da noi stessi, spogliandoci della carne del nostro vissuto e delle nostre conoscenze. Ma non possiamo limitarci a leggere il testo come uno specchio entro il quale troviamo conferma delle nostre teorie e delle nostre conoscenze acquisite. Un testo è una chiamata ad un incontro – sta a noi metterci in cammino, e intraprendere il dialogo. Un testo si scioglie solo percorrendolo. 

     I testi che seguono sono delle missive, degli appunti di viaggio, ponti caracollanti, dialoghi forse impossibili tra i soggetti, ma tentati – tra il testo e il lettore. Le miglia marine e terrestri sono il segno di una distanza incolmabile eppure cercata,  ribadita come autoaffermazione, esuberante o ripiegata. Tipi e generi di una tradizione (auto)ironicamente usurpata e miscelata in fondante ambiguità non hanno il valore di un compiaciuto capriccio combinatorio. Questo è un tentativo, seppur barbarico, di rimettere in moto nel testo le tradizioni, i generi, i pensieri, le parole, la carne, così come essi sono simultaneamente all’opera nel reale.  



Testi poetici


la selvaggia sul ponte 


Distesa coll’odore appena amaro • che amo incassato in faccia • io - sono - Berthe • Berthe dai begli occhi - Berthe la fraintesa - Berthe la disprezzata - Berthe bambina cattiva • che non ha mai scritto a te • Berthe rotonda e nera - tranne che al sole • bestia di questa terra • di sera - di nodi di lana verde • spighe e rivoli di fuoco - orlati di spighe ancora - spighe e fuoco • dentro e intorno agli occhi • Berthe che abita il mare • quel mare che per te era vacanza per me era l’unica via • e mentre tu giocavi con le vele - io mi aggiustavo gli alamari spianavo la mia giacca blu e consunta• come tintinnano dorati • i miei crini d’Achille - le mie ciglia bionde • Berthe piccina e nera - rotonda e nera • m’avvio lungo il molo • per saluto una risata • perché solo legata • al grande albero di pino bianco • Dio com’è bianco - d’alabastro diritto polito e mio • mia ancora - mio arpione - mio rostro in ogni senso • soprattutto in quello che non sai – capire – carpire • perché Berthe da piccola era Greta • e sosteneva che fosse già morta • ma era solo una scusa per non comportarmi bene • per tagliare quadrati di mare • e dare la colpa al gatto - si sa che ogni nave ne ha bisogno prima o poi  • Berthe o forse Bertha • che porta il fuoco nei sogni • considerate le parole che inseguo - presto più presto • trafiggile con una freccia – la mia freccia d’ebano e calda • prima che s’acquattino nel buio – sotto la luna • le mie perle le mie - collane di perle • che da sola tendo tutt’intorno - alle impurità del mondo - a non ferirmi la carne • e non sono le vostre collane • angelo ninfa e musa no grazie • a me • lasciate  • il desiderio • ad essere una pagina bianca – e nera • non mi sono ancora • arresa • Berthe la malappresa - Berthe rotonda e nera • nena • Berthe l’ispanica – dai capelli rossi • Berthe che ha come sempre • troppo sole spalmato addosso • e ne brucia l’aria d’intorno • finché non s’affievolisce il fiato • e allora ride – mistero superiore • di sé – di te – e di tutto il resto 



la strada per roma

vent’anni dopo · la strada per roma è ancora lì · bianca intatta immaginaria immaginata impercorsa · solo che stavolta · si allunga ancora più in là · segue il corso degli imperi · quest’impero del sonno · questa lana verde e dorata · che i tuoi occhi azzurri che la tua pelle rossa · amavan tanto · non si è mai destata · il grande sonno · nella luce di sorbetto della sicilia · non c’è mai stato · ma puoi trovarlo qui · nelle pieghe grasse e antiche · imberbi · nell’ombra di pioppi sulle nostre guance · ed ora · nel bianco scheggiato · di questi campi scoscesi scosciati indecenti · east of nowhere · da qui · siamo sempre dovuti fuggire · fuggire dalla terra ma l’argilla · ci rimane sulla pelle · puoi annusarla · nello sguardo sbarrato e spento nell’accento greve su ogni pezzo di carta dell’impero · ai confini dell’impero · noi ci siamo per statuto · dimenticati nella norma · con la nostra malinconia la nostra fatica cupa e muta · chiusi come le nostre valli · il limite ce lo portiamo in bocca · in questa lingua che non conosco · ma il cui retrogusto · persiste · è il vinello dei poveri · la nostra rassegnazione · è istituzione · la portiamo scritta · nel nome · nella dimenticanza · questa terra che non sappiamo lavare · ibridi inutili marginali · nessuno · ci ha mai · accolti · e qui · non abbiamo spazio

Alessandro Assiri

Versione stampabilePDF versionAlessandro Assiri, nato a Bologna  il 24/07/1962, da molti anni residente in Trentino. Presente in diverse antologie poetiche, ha pubblicato per Aletti Editore "Morgana e le nuvole" e "Il giardino dei pensieri recisi", con la prefazione di Paolo Ruffilli. Per Lieto Colle "Modulazione dell'empietà", con prefazione Alberto Mori. In uscita sempre per Lieto Colle "quaderni dell'impostura"
con la prefazione di Chiara de Luca.
Collabora con riviste sia cartacee che telematiche.

Alessandro Assiri: Nota teorica, Poesie edite e inedite

Versione stampabilePDF versionCredo che ogni parola oggi sia principalmente parola contaminata e che compito del dire poetico sia il ricondurre al tentativo di accasarsi in un senso . La cultura dell'accelerazione ci fa credere sia necessario evacuare emozioni, espellere da sé, quasi fosse una cultura del rigetto, l'imperativo di far spazio non per produrre significati, ma per introdurre speculazioni inservibili In questo scenario, la parola poetica diventa oggetto da smaltire, perdendo per strada la primaria funzione di essere destinata all'ascolto.

Fondamentale è prendere atto che in questa riconsiderazione del reale il pensiero è come costretto a pensare l'irrimediabile, frantumando l'intimità in schegge di malessere che diventa necessario catarticamente rigettare per sopravvivere, ma dire per non soccombere esaspera la parola facendola scadere in un grido che non dice che non chiede altro che aiuto.

Sembra che oggi sia diventato comprensibile solo diffondere o preservare, senza prestare attenzione a quale sia l'oggetto da difendere, a quale sia la merce che a ogni costo deve essere commercializzata. Ritengo che il poeta sia chiamato a cercare, oggi più che mai, di ritrovare autenticità, senza dimenticare che autenticità è darsi la possibilità di rintracciare il
percorso delle proprie idee.

Riportare la poesia all'ascolto, riportarla dove non arriva semplicemente perché non parte, perché perde di vista quel prerequisito che è quello di essere udibile. Ritrovarsi come bambini stupiti e non come orfani impauriti davanti a un testo è attribuire un senso chiamato: meraviglia. Ricondurre la
poesia allo stupore della rivelazione improvvisa è darsi in questo tempo una possibilità di riscatto.


Poesie inedite



1

Soltanto parla
ma è già senza vita
poco prima di essere abbattuto
un pensiero finalmente

2

 ...e a te che ti ricordi non riesco
mica a dire: sopravvivi

ma solo a tenere quel tono
scortese
adesso che l'attesa
rimarrà in eterno

sono solo sei scrupoli senza
senso

3

incontri improvvisi
per l'appunto
come amori tra l'asfalto
in imbarazzo
attieniti all'amore
luogo geometrico
di rapporti sciolti


Da “Modulazioni dell’empietà”, Lietocolle

2.

Accarezzai l'idea
molto prima del tuo viso
Misi da parte la velocità
di una vita invadente.
Scrissi la trama di un addio
con parole di niente.

15.

Le discese troppo corte
per sciogliere l’affanno,
assorbendo gli odori
di ruggine e polvere.
C’è sempre una parola
che respira in tutte le altre
come il bacio di una madre
prima di dormire
una carezza leggera che sazia la notte.

C’è sempre un segno verso la fine
una ruga profonda che ieri non c’era
una rondine che si appresta a partire
nell’accorciarsi di luce
della stagione finita.

18.

Io sono un incerto addio
Tutte le turbe dell'espulso
I malori del rigetto

Qualche acuto tenta di levarsi
Forse qualcuno vuole primeggiare
li riporto a un brusio
a un sommesso chiacchierare

se vivessi di spalle camminerei all'indietro
verso l'anonimato
un paio di spalle larghe
sovraccariche di vita
che si incurvano sotto un peso
una fatica.

Luigi Trucillo

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Luigi Trucillo è nato a Napoli nel 1955. Ha pubblicato Navicelle, Cronopio, 1995, Carta mediterranea, Donzelli, 1997, Polveri, Cronopio, 1998, Le amorose, Quodlibet, 2004, Lezione di tenebra, Cronopio, 2007. Una scelta delle sue poesie è apparsa in Germania, sulla rivista Akzente.

Luigi Trucillo: Nota teorica e poesie inedite

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     Sono sempre stato attratto dalla sintesi, il repentino processo attraverso cui il mondo ci si dà. Così mi è sembrato naturale tentare di creare con i miei versi una più complessa sintesi derivata dalla contrapposizione dell'elemento percettivo con quello analogico e astratto.

     All'inizio della mia ricerca poetica, quando cercavo uno spessore allusivo della singola parola che attraverso la precisione arricchisse di significati l'essenzialità del verso, mi sono imbattuto in una definizione di Ezra Pound dell'Imagismo che per me è stata fondamentale. "Un'immagine - diceva - è ciò che rappresenta un complesso intellettuale ed emotivo in un istante di tempo." La fulmineità del potere evocativo della parola poetica adombrata in questa frase, e l'istantanea liberazione dalle barriere spazio-temporali ad essa inerente mi sono subito balzate agli occhi, convogliando i miei sforzi sull'elaborazione di un'immagine non astratta, immediata e frutto dell'intuizione. E quindi, per deduzione, su un'immagine attraversata dall'irradiamento preciso della brevità. 

     Con coerenza intellettuale, inseguendo una forma visiva e immediata in cui un oggetto esteriore riuscisse a saettare in un movimento soggettivo, Pound si era avvicinato alla "poesia di una sola immagine" dell'haiku orientale, e cioè a quella cristallizzazione di sintesi sensibili che tanto mi affascinava anche da un punto di vista epistemologico. Ciò mi ha inevitabilmente condotto a uno studio dell'ideogramma cinese. Val la pena di ricordare che i primi ideogrammi nacquero come imitazione dei segni che comparivano sui gusci di tartaruga. L'ideogramma veniva quindi immaginato come il prodotto dell'autoscrittura di un cosmo che si rivelava in figure. Nasce così l'dea della scrittura come calligrafia: il poeta deve immedesimarsi nel soffio nascosto delle cose, essere in consonanza con la vibrazione invisibile che le sostiene, per manifestare poi questo contatto in una calligrafia che non rappresenti il soffio stesso, ma direttamente lo divenga. Ciò crea una parola-figura che coglie l'istante in cui significante, significato e referente sono tutt'uno. Il senso ultimo di questa parola-figura non va individuato nel contenuto, ma coincide con la materia significante (il col,ore dell'inchiostro, per esempio, o lo specifico tratto calligrafico: istanti in cui il cosmo si rivela segno di se stesso).

     Qui si può solo accennare come la nascita del nostro alfabeto occidentale, quello greco che sviluppava il sillabario fenicio, isolò le vocali per trascrivere meglio la poesia epica (fondata proprio sulla scansione delle vocali) che veniva vista come voce della verità. In Occidente la scrittura appare subito, quindi, come trascrizione di una verità che si manifesta al di fuori della scrittura stessa. Da ciò deriva che la scrittura si manifesta come un sistema di differenze tra la verità e il discorso dove non è mai possibile una coincidenza tra il soggetto pensante e l'oggetto pensato. In poche parole, come un'interpretazione deviata.  

     Queste le coordinate. Poetare la sensazione e non il termine astratto: ecco il suggerimento di un ideogramma che anche in Occidente può essere riformulato attraverso delle nuove sintesi sensibili. È facile comprendere quanto la strada orientale aperta da Pound nella sua fase imagista contenesse già in sé la poetica germinale dell'stante creativo poi sviluppata, ad esempio, da René Char. L'ipotesi di un'immagine non stazionaria che smuovesse la centralità dell'io lirico ha convogliato la mia ricerca poetica facendola sfociare nei paradigmi della tradizione orientale: l'irradiazione, la condensazione, la ricerca dell'implicito, il contrappunto con il vuoto, la risonanza sensibile, l'immanenza sorgiva. E soprattutto la brevità. 

     Una poetica in cui "lo spirito aderisca all'atto nel momento del suo presentarsi" (Char) è necessariamente fondata sulla brevità. Che potrei definire come una formulazione direttamente pensata dalla lingua. Ma è anche basata sulla sensibilità, intesa come spazio della risonanza tra significato e significante, tastiera invisibile che attraverso lo stimolo delle allusioni decifra ed evoca l'inarticolato. Nella stesura dei miei versi è sempre presente il fantasma di un ascolto, proprio perché considero la sensibilità uno stato di percezione linguistica rivolta ad afferrare nel ritardo (penso al ritmo di Barthes) un'esperienza vissuta dei segni.  

     Attraverso la propria potenza di spostamento la brevità focalizza: restringe cioè il campo d'azione del linguaggio in un dettaglio istantaneo carico di aura che condensa l'eccedenza dei significati rispetto al singolo significante. Il tentativo di alludere a questa zona "bianca", all'irradiazione delle potenzialità non ancora formulate del linguaggio, si esprime con evidenza nei miei primi tre libri. La ricerca tuttavia di una versificazione più ampia a partire da Le amorose non coincide con l'abbandono di una tematica della brevità, convinto, come ho scritto, che "breve è ciò che, staccato, rivela una lunghezza." E cioè che la forza abbreviativa possiede una propria intrinseca autonomia. Attraverso l'essenzialità ho voluto rivelare come anche nel formularsi della rappresentazione si annidino cellule e schegge linguistiche capaci di isolarsi in un processo di autocondensazione. Anche nel fitto di un tessuto più disteso la singola parola può alludere a uno spostamento che apre un passaggio verso una presenza cognitiva primaria, l'apparizione di una risonanza sensibile che dilata il proprio effetto.  


     

Poesie 




Sestante 


Come un nume esiliato

Qui

nasce dall'angolo

stellato. 
 
 
 

Avanzamento 


Nuvole,

come un esempio di passi

ventosi. 
 
 
 

Lo straniero 


Un favo trasparente

carico di api

e miele. 
 
 
 

Jaipur, monaco su un torrione 


Cercava con lo sguardo

il giaciglio dei venti,

là dove si deposita

l'intuito. 
 
 
 

Napoli, molo di Mergellina 


Celeste la dieta

di chi impara

a cibarsi di mare

come un alga. 
 
 
 

Palermo, bambino che sbeffeggia 


L'asprezza

di una mora

su un fiocco

di bambagia. 

 
 
 

Donna dall'ortolano 


Nel folto dell'aria

la sua espressione incerta

e il rosmarino

profumano

come un unico

mestiere. 
 
 
 

I sandali 


Aperti

come i freschi sconcerti

infantili. 
 
 
 

La bitta 


Sui vecchi moli

con che puntiglio trattiene

zitta zitta

l'orizzonte sbiadito,

il celeste che slitta. 
 
 



Vienna, giardini dello Steinhof 


Preziosa è l'immagine

di un cane

quando dei denti

azzannano. 
 
 
 

Heimat 


Soffio

d'embrione,

la mia Atlantide

in punta di piedi.

Sebastiano Aglieco

Versione stampabilePDF versionSebastiano Aglieco è nato a Sortino (Siracusa) il 29 gennaio 1961. Vive a Monza dove insegna nella scuola elementare. Ha fondato “Teatro Naturale”, un’associazione per l’espressività dell’infanzia e dell’adolescenza.
È autore di diverse raccolte poetiche, tra cui citiamo  Dolore della casa (Il Ponte del Sale, Rovigo, 2006) e Giornata (presentazione di Milo De Angelis, Edizioni La Vita Felice, Milano, 2003). Vincitore nel 2004 del Premio “Montale Europa”. Interventi sulla poesia e inediti sono apparsi su varie riviste e in pubblicazioni collettive.
Dirige il blog “Radici delle isole”. È redattore del semestrale «La Mosca di Milano».

Sebastiano Aglieco: Nota teorica e poesie edite e inedite

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La responsabilità della scrittura


Quando incominciamo a scrivere cerchiamo una voce che ci assomiglia; parole che abbiamo sentito e dalle quali vogliamo ricominciare. Questo è il primo contatto con i maestri, nella vicinanza o nella distanza dai loro scritti e dal loro insegnamento: distanza attraverso i libri, vicinanza nel sogno che ricostruisce e trasforma le parole in altri sogni.

Fare poesia, dunque, è l'atto collettivo del percepire e dell'essere percepiti, del

chiedere e del dare conto; ricompensa o abiura non importa. E' la parola come sacrificio, cioè tramite  del rendere possibile; dell'alzare il velo dell'apparenza che abitiamo.

Se la poesia è, in fondo, un dialogo col Nulla, con la natura deperibile delle parole e delle cose, essa deve prima attraversare l’umanità tutta, non c’è scampo. Forse è in questo attraversamento che si logora e nello stesso tempo si rende necessaria. Da questo punto di vista, dunque, non si scrive per narcisismo - è pura illusione -  ma per attraversarsi. Attraversare il mondo.

Sento sempre di più questa necessità del ricevere attestazione e conferma; scrivere poesie presuppone il gesto della consegna, che è dono nella gratuità, e investe il lettore di un compito. Il lettore è colui che prende visione dei segni incisi, graffiati -  questo vuol dire letteratura nella sua accezione etimologica -  e se ne fa carico. Egli, tradendo il testo, consegna la tradizione del testo; ne permette il passaggio, il giudizio, nei tribunali della Storia. Il testo si fa giudicare. 

La letteratura desidera ritornare a una sua concretezza. Desidera le cose reali, consegnate ai segni, all’immagine astratta dei segni. Questo desiderio non è più, s’intende, materia e carne delle cose, ma il nostos, la nostalgia di un ritorno impossibile. La condizione più naturale della scrittura, dunque, non è la scrivania, il salotto buono, e neanche il computer. La scrittura è ancora atto del graffiare sulla materia sensibile, dello sporcarsi le mani nei segni e disegni incisi nel grande libro dove la foglia è il foglio sono la stessa cosa.

La scrittura  è transeunte: permette il passaggio e non rimane, ma rivive, nell'urgenza del nostro tempo, del nostro essere qui, ora.

Se è vero che ogni cosa, mentre vive contemporaneamente muore, la poesia non si sottrae a questo tragico destino e accetta di essere traccia cancellabile e labile. Ma non può rinunciare alla sua necessità, alla sua ineluttabilità: che non è ricerca di nuovo senso – sempre le foglie, noiosamente, cadono e rinascono –  ma necessità del suo ruolo.

Ecco perché, a un certo punto, non servono più i maestri, non serve più la letteratura. Scrivere poesie è un gesto che improvvisamente ci lascia soli, nudi di fronte alle cose, agli altri, a noi stessi. Davanti al compito del dire senza gioco, inganno, ma con gli occhi puntati addosso.

Ho scritto libri senza necessariamente pensare a questo. Ma per presagio. Poi ho  capito questo  dalla lettura che gli altri hanno fatto dei miei libri. Lettore, ipocrita lettore, fratello.


Da La tua voce, inedito

All’insaputa della notte

quel fumo rappreso sul davanzale

portava i canti delle falene morte

il masso sospeso sulle teste

a ricordargli della fine

il primo villaggio

lo strato più intimo sotto

il taglio del lago.

Tu non conosci la pietra

e il segno di quella mano che

rovina nell’attesa.

Dietro le nostre sere, di

una piazza scolpita nelle parole

scivolata ancora più lontana

acerba nei ricordi dei poeti

- perché non sono mai stato come voi

perché non vi ho mai conosciuti

perché non mi siete mai appartenuti -.

Viscida, schifosa nella luce

mostrata veramente come la cena

della sera, qui, nel cerchio, e

consolato dalla durezza

estraggono a sorte, spaventano una

voce aprendola alla Storia.

Così disse, così rivide quello che

non aveva mai veduto, il ramo del

pianto, secco, l’indurita sentenza dei

poeti, questo sei tu, luce

inappagata, ombra rifranta.


Da Giornata, La Vita felice 2003


Tu non ridere di questo sconforto,

della pazienza persa, dei visi che mi

guardano e se ne vanno. Numi tutelari

hanno tracciato strade verso un silenzio

di ritorno, verso un niente che ritaglia gli occhi.

Non voglio più scrivere poesie;

da queste parole in vedetta

ci sarà il tempo di perdere tutto

il resto, tutto il niente che

non abbiamo ancora visto, tutto il

niente che non abbiamo ancora detto.


*

Terra incominciata, sei apparsa verso

sera in mezzo alle parole ed è finito

il mare. Il viaggio si ritrae per altri

anni, ma ora dobbiamo stare, finire il

lavoro che abbiamo incominciato.

Voglio parole in me, senza la musa

oscura che mi ha generato, senza la luce

dell'angelo. Omettere quell'oscuro presagio:

sulla soglia della casa ti perderai.

*

Esiste un ordine e un tempo,

cerco questo in questo tempo:

macerie all'inizio della Storia

un bambino prima di essere bambino.

Guarda cos'è stato il giorno

nelle ore della pioggia: qualcosa è

accaduto e ci siamo già dimenticati.

Esiste il finire di un luogo

l'imparare a morire come all'inizio.

*

Perdonami, non sono all’altezza,

non so dove andare.

Eppure devi restare

devi sorgere dalle lenzuola

devi  capire, nell’amaranto delle fragole,

il sangue del crocifisso che ci schizzò in faccia,

ricordi? in quella scena dell’infanzia.

Avremmo dovuto distruggerlo per quella nostra

promessa, trapassare i suoi occhi come nei sogni

fondare una parola che dicesse il dolore

che valesse per sempre.

Ma ora  dobbiamo restare

ora che la distanza è netta

ora che ci giudicano e

non accettiamo il giudizio

non vogliamo essere degli altri

come gli altri.

*

Allora qualcuno capisce che tutto è sbagliato

che le parole ci hanno ingannati,

uscendo da una gora

o forse semplicemente volevano dire

che non ci apparteniamo.

Sulla carta  il pensiero è violento

calma simulata

fiato trattenuto per non ingoiare il mondo 

contenuto, è ingannato dalle forme

per dirle ci separa, ci fa scannare.

*

Scrivo nel lampo che il fiore imprime in me

preceduto dal respiro e dalla calligrafia.

Allora  è il vento che mi respira , fratello,

incredulo di un ascolto che a tratti mi governa.

Non c’è più tempo per l’armamentario di

me e della vita mia.

*

NERO SEPPIA

In questo paesaggio

rimangono due mani che vangano la terra

un albero gira ed è tutta la preghiera.

Vorrei essere semplice nel dire

come questo tuo parlare senza colore

l’inizio del segno, o solo la sua conclusione.

Gli uomini sono nel mezzo.

Qualcuno si è allontanato e

ci ha lasciati soli

i poeti rimangono in un cappotto

sono attenti, nella distanza delle mani.

Chi è necessario dice ciò che resta

e non vuole niente.

*


Occhi appena detti nella veglia

liberarsi dall’incanto della neve

delle figure che tornano e pretendono.

Non c’è niente che ci renda felici

non esiste un canto per onorare tutti:

i morti che ci hanno preceduti

i vivi che ci hanno accompagnati.

Chiudere le porte. Ora basta.

Ma i bambini, i bambini in un’aula dove

un mondo è possibile, dove i debiti

saranno rimessi, i bambini che insorgono e

ci chiedono di spiegare il dolore del mondo!

*


Di questo non voglio niente

della casa e del rito degli affetti

delle contese e della storia in un luogo

dove tutti vivono

della chiarezza che pago a peso d’oro.

Costruisco ogni volta un senso coi bambini

li porto a guardare

ciò che saranno e in parte accetteranno:

sciocchezze, riti dello stare e del  perdersi.

Di questo non voglio niente

il mondo si ferma e ride di me

o in un sogno reciproco ci desideriamo.

*


Ora sei il poema di me

vita finalmente libera

sei questo pensiero che ho sognato in segreto

il più debole e puro

che non ho realizzato:

essere prova di sé

nell’inganno del mondo

o nella sua salvezza

nei corpi che chiedono ristoro

nelle menti che desiderano una cosa.

Ma questo non sarà possibile

e niente sarà privo di dolore.

“Qui ingannati si sta bene” *

ma un po’ lontano io resto

in una casa protetta dal contegno

mura coatte, distacco e pavimento

un po’ in voi e un po’ ancora

in questa terra dove  fallire è una vittoria.

*

Ma una parola nuova è solo una promessa

sospetto un inizio senza conclusioni

per lento soffocamento della parola,

una visione che a malapena prende forma.

Né sguardo,  né bellezza

ma solo un vento che cancella e poi ritorna.

*

Io sono felice nell’estate forte

senza respiro

senza visione delle cose

senza il tempo della fatica

che chiede di essere onorata.

Un fermo confine

mostra la separazione

per preparare la preghiera.

Dio della voce ora calmaci

calmaci e custodiscici

dal vero nemico celato nelle parole.

Potenza delle azioni

che liberano e ci salvano:

“non voglio essere amato

voglio amare”.

*

Sei adesso

quello che nessuno dice e non ricordi.

Un baule di poesie sarà lanciato in un  pozzo

verso una luce contraria.

Il viaggio è duro e finisce con un’asta

appartenuti a carne trattenuta

(neanche nostra).

Ci attende un fallimento

e le parole ci bruciano

una mano le sotterra

i versi anelano a una prosa chiara e limpida

ma è ciò che chiamiamo

"lotta dura e persa".

Appartenere: 

solo questo ha senso

solo a questo passaggio senza senso.

*

Io non voglio niente

di tutto questo non voglio niente.

Nella casa l’odore dei gatti e di una cena

distante il cuore, è più forte ciò che preme.

Ma occorre imparare che

sono quello che non credono e non perdonano

sono una mente sotterrata e palpitante.


Da Dolore della casa, Il ponte del sale 2006

Ma questo sarà detto e

giustificato davanti al tuo dio

nell’incedere del tempo.

Queste parole che consumiamo

saranno pesate e disperate

e daranno tempo per tempo

pezzi di carne per un nuovo universo.

Ci sarà ancora il dolore

ci sarà l’attesa e un forte risentimento

le anime di nuovo dietro tutte le nostre parole.

*

UNA SERA HO PRESO LA BELLEZZA

Ora finalmente ti devo lasciare

devo imparare a dire

da questo distacco della

terra — il sole è giallo.

Nella mia carne ti riconosco e saluto

la bellezza che appassisce, ti

sacrifico le mie ultime parole e

non ti servo.

Muore chi deve morire

uccidimi, se vuoi, nell’ora dei vivi

colpiscimi con forza sul punto più alto

della testa, fallo nella piena luce

senza l’ombra delle parole

rinuncio a qualsiasi salvezza

a qualsiasi perdizione.

*

OLTRE IL GIARDINO

Tutto duro, di qua o di là

da una preghiera tra lo steccato e il

pane — movimento di un muro

crollerà l’universo sulle mie ossa e

rideranno di me questi piccoli capi

asserviti al potere di una scrivania.

Cerca il senso dove c’è stupore, e onore

impara che la morte è promessa

nel destino di tutti gli occhi. E allora

non temere le insegne del potere

e quando ti dicono: rinuncia

scendi a patti, accetta la perdita

dell’innocenza, abiura l’ingenuità

non fare l’offeso

accetta questo mondo o vattene.

*

AVVISAGLIE

Ma tu sei questo, questo soltanto

osso ben piantato nel cuore del mondo

e nella mia testa, nella visione di un mondo.

Accetta il colpire per dovere

- l’essere colpiti per dovere.

Ripeterò nella testa ciò che è taciuto

sotterrerò la pietà dei vivi per necessità.

Fuori: attesa e respiro

il racconto del mondo.

*

TI SARAI SVEGLIATO

Mettersi gli occhiali, guardare bene

per non sprecare le parole.

Ma il male è nelle parole che

vogliono dire il mondo e lo confondono

nelle parole che colmano una voce

sottratta per forza alla sua calma.

Accetta, allora, una breve bellezza

non cercata, sguardo indifferente

nelle cose incustodite.

Custodiscile finché non avranno

timore, indica la strada della loro

disillusione quando le luci, infine, verranno

accese e saremo liberati dal sonno.

*

CITTA’ NOTTURNE

Ti guardo e non parlo.

Era il dolore nei sogni antichi

erano i paesaggi notturni

del mio brancolare senza ali

altezza della fatica

nei pensieri segreti.

Erano città notturne incustodite e

vive, lasciate dagli uomini

assenti, in un altro luogo.

Una luce, questo ricordo

un battesimo di stelle che

chiedono l’ascolto di una voce.

Se scrivo di me, per me, è per tutti

perché non vi conosco, perché non

mi conoscete, come in tutti.

*

PICCOLA TREGUA

I


Ecco, ora hai finito di scrivere, hai ritagliato un

senso, scagionandolo da queste menti

c’è un tempo che sa accoglierci, più mansueto.

Poche immagini per dire ancora: casa

giardino, steccato. O per fermarti

difenderti dalle nuove migrazioni.

Alberi frontali, sentinelle di un cielo

sereno hanno una giustizia per tutti.

Qui siamo al sicuro

il vento di ponente non passerà.


II


Léggere, senza dolore, le immagini degli

alberi, le pietre miliari, le infinite

partizioni. I visi ci precedono nella corsa dei

fiumi — cammino nella campagna, appena

toccato dall’acqua scura.

Parlavi del nulla, delle parole sottratte al

timore delle foglie; guarda, sono calme

dicevi, la tempesta non si alzerà

gli argini sono alti, serrati.

Tommaso Lisa

Versione stampabilePDF versionTommaso Lisa (Firenze, 1977). Esordisce in Nodo sottile 2 (Fiesole, Cadmo, 2002) e nell’antologia Ottavo quaderno di poesia italiana contemporanea (a cura di Franco Buffoni, Milano, Marcos y Marcos, 2004), pubblicando poi, in volume, Pornopoemi (Arezzo, Zona, 2004 con allegato CD del gruppo fonografico Rapsodi) e rebis.periferiche (Pordenone, Old Europa Cafe, 2005 + CD reset) realizzato in collaborazione con l’ingegnere del suono Bad Sector (di prossima uscita i due libri-oggetto periferiche/terminali + emulazioni/appercezioni). Nel 2006 è uscito il canzoniere a sei mani Trilorgìa (Arezzo, Zona) scritto con Lorenzo Durante e Federico Scaramuccia ed è stato incluso - con Postreme. Cronache del quinquennio 2001-2005 - nell’antologia Poesia del dissenso II. Dopo aver coordinato la rivista letteraria “L’Apostrofo” (Firenze, Chegai, 2001-2004) ha diretto, insieme ad Alessandro Raveggi, il progetto editoriale “Re;” (www.re-vista.org). Dottore di ricerca in lettere, tra le altre sue pubblicazioni critiche: Scritture del riconoscimento. Su ora serrata retinae di Valerio Magrelli (Roma, Bulzoni, 2004); Poetiche contemporanee. Colloqui con dieci poeti (Arezzo, Zona, 2006); Pretesti ecfrastici. Edoardo Sanguineti e alcuni artisti italiani. Con un’intervista inedita (a cura di Tommaso Lisa, Firenze, SEF, 2004); Le poetiche dell’oggetto: da Luciano Anceschi ai Novissimi. Linee evolutive di un’istituzione della poesia del Novecento (Firenze, FUP, 2007). Suoi testi e saggi sono uscite in rivista (“Atelier”, “Nuovi Argomenti”, “Semicerchio”, “Trame” e “il verri”, dove ha curato i numeri 31 e 32 dedicati a I diari di Luciano Anceschi) e su alcuni siti (AbsolutePoetry).

Tommaso Lisa: Reset (doppio set di sette settine)

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Reset

(doppio set di sette settine)
   in seni e rientri fratte
da istmi appaiono le isole
tra uffici e docks del porto
sull’orizzonte a giorno
cereo scolora il cielo
e oil terminal al vento
cloro e piscine e radar
in nebbia che dirada
a strisce flesse e fratte
per l’irritante sole
fra terre di riporto
i cartelli nel giorno
curvano l’oltrecielo
argentei dentro il vento
colloso sottovento
in tornanti digrada
l’asfalto e ferme effratte
scontrate sotto al sole
le auto verso il porto
occultano nel giorno
lunotti sotto al cielo
gli eurofighter in cielo
sibilano nel vento
in formazione rada
su necropoli e fratte
e off-shore scagliano al sole
tra scafi da diporto
sponsor in gare a giorno
tra crisofite il giorno
dirada gonfi in cielo
cumulonembi al vento
sopra la steppa brada
degli slum catafratte
dalle lenti da sole
dei militari al porto
jeep coi tanks di supporto
a guerre d’oggi giorno
antenne verso il cielo
e rondini nel vento
in trame di contrada
graffitate a spray fratte
le firme vuote sole
crew di skaters al sole
bassifondi del porto
il traffico ogni giorno
di fusoliere in cielo
tra voci chiocce al vento
sottomarini in rada
dighe foranee fratte
   codici a barre in fosco
tessuto arato a sbalzi
dalle robinie brulle
le involute sui colli
righe dei campi dietro
le postazioni a parte
lo sfondo al cielo immoto
zigzagare di moto
smog imbrunito e fosco
grigioferroso a balzi
di selve ingenti brulle
balle irte mucchi e colli
sopra i piazzali dietro
ad un tir che riparte
da altoparlanti a parte
suona un jingle remoto
e ambulanze nel fosco
pulvirulento in sbalzi
sirene bluastre brulle
zone e zombie tracolli
luminescenti dietro
insegne police dietro
a volanti appartate
e pattuglie di moto
tra le rinfuse e il fosco
inseguendo a sobbalzi
contrabbandieri in brulle
dune aride e tracolli
turbinano in decolli
gli elicotteri dietro
alla stazione in parte
rotta dal terremoto
sventaglianti nel fosco
saracinesche a balzi
per bonifiche brulle
frastornate le brulle
spiagge e i mugli sui colli
dal night-club chiuso dietro
gli ombrelloni in disparte
gialli gommoni in moto
con scafisti nel fosco
solcano il mare a sbalzi
grigi i gabbiani a balzi
planano in rocce brulle
guano burrasche crolli
di infrastrutture dietro
le impure scorie sparte
e un aerostato immoto
staziona in cielo fosco
  rotoli di alte reti
scuotono in scrosci al suolo
in porpora e oro fine
i dipluri dai rami
di stecchite piante oltre
basi nucleari scisso
tra scie di cirrostrati
in molteplici strati
slabbrati e cupe reti
arso il crettato suolo
in crepe e ghiaie e fine
l’intricarsi di rami
dal cimitero oltre
l’isolato rescisso
vira in verdeblu scisso
per alcali e acidi a strati
il cr 6+ in greti
su orti e banchine al suolo
nascoste dalla fine
stria di ossidati rami
cola in sintesi oltre
avariate scorie in coltre
viscosa viola scisso
vitreo il brago a strati
tumescenti e arboreti
diramano sul suolo
vibrando in modo affine
versicolori rami
tra i tetti di ferrami
sparsi su sponde oltre
spurî cascami scisso
e idistinto su strati
celle e rulli di reti
di fabbriche sul suolo
il laminato fine
e il pretrattato a fine
lavorazione in rami
d’assemblaggi posti oltre
questo increspato e scisso
susseguirsi di strati
tra gli impianti segreti
si ritorce sul suolo
in magazzini e al suolo
il fango e scoria fine
tra gru e putrelle e rami
in architetture oltre
rilieva un reale scisso
dai polimeri a strati
nelle invasive reti
   brusii in bassa banda
antri e alti altari tra anse
di database in diedri
settori e scansiti echi
elementari il tetro
nero circuito d’oro
ricalca un suono muto
scuro orrido spremuto
tra relé in ombra sbanda
driver dischi di danze
irti attrattori e diedri
dentro campionati echi
stampati in stretto tetro
flusso colore al fluoro
in card suonano in coro
le tracciature e muto
a alto voltaggio blanda-
mente rapprende astri e anse
in brevi brusii e diedri
foreste in suoni in spechi
deframmentando tetro
solchi e sorgenti al tetro
spandersi di ioni in oro
circuitato il premuto
tasto onde contrabbanda
triggerazioni oltre anse
e i resti di poliedri
bisbigli al plasma echi
nei video-tape altri echi
dal desktop dentro il tetro
siliceo spettro d’oro
di sinapsi ago muto
per celle in larga banda
tra arborescenti anse
pulsa oltre orli e diedri
in set suddetti i diedri
dentro agli espansi echi
rudi i rumori e il tetro
spunto di selce e cloro
rossastro nel bismuto
clonando in sarabanda
cavi coassiali in stanze
tubi al neon tiltati e anse
trasformatori in diedri
dilatati in micro echi
masse blu in buio tetro
cristalli e astri in atro oro
dentro dendriti muto
sistri e settori in banda
  vedute in controluce
di residence tra cose
formicolanti in varie
strade e curve nel terso
proliferare in giro
confondendo la spoglia
cifra di skyline e murmuri
di tv accese e muri
azzurrati la luce
si sgrana tra le cose
disposte in pose varie
dentro uno schermo terso
pixel slot bite a giro
nella silicea spoglia
delle schede si spoglia
in camera tra i muri
e gli armadi la luce
che staglia fioche cose
messe nel frigo varie
cogliendo il filo terso
dei contorni nel giro
di oggetti sparsi a giro
in una stanza spoglia
tra le muffe sui muri
vividi prismi in luce
allungano ombre e cose
in parabole e varie
insegne al neon deterso
dal temporale il terso
orizzonte in un giro
chiude una terra spoglia
con i pod dietro i muri
recintati nella luce
leucemica viscose
dai sensori in avarie
di strumentazioni varie
tracce di radon terso
odore acre in giro
di diossina che spoglia
fulvi i rovi sui muri
in crepuscoli e luce
riverberata in cose
mutate vorticose
accatastate e varie
stilla rugiade il terso
filo spinato in giro
sui gates veste e spoglia
la calce sopra i muri
di shelter calda luce
   spettrometriche spie
dai telescopi ai lati
cupole chiare a scacchi
di osservatorî in gusci
proiettano strie e file
sui dossi dietro i monti
cittadine nel verde
e l’afa d’ocraverde
secca asfittica in spire
sparge le nubi ai lati
di caseggiati a scacchi
miriapodi tra i gusci
dei cassonetti in file
attorniano i tramonti
lattiginosi i monti
rigati in grigio-verde
e i resti tra le spine
di ferri affastellati
gas acidi in scaracchi
sotto i fari tra gusci
effervescenti in file
le cave vuote e file
di atri teatri di monti
la moto al cross nel verde
che sgomma torba in spire
truce stremata ai lati
dietro recinti a spacchi
nella melma che sguscia
ai bordi chiuse in gusci
celesti luci in file
sulle piste oltre i monti
scandite in luce verde
tra gli infrarossi e spie
le scritte nato ai lati
su derive alte a scacchi
arbusti e luci e stacchi
e romboedrici gusci
nel buio fredde file
di radar sopra i monti
dove la terra e il verde
increspano luci di spie
soldati posti ai lati
e in cielo decollati
scintillano a scacchi
dopo rullaggi i gusci
di jet catafratti in file
i falò sopra i tramonti
barbagli in mezzo al verde
brividi e bluastre spie
  agglomerati in pace
siti presso una fonte
radioattiva la sera
tra punte di palme astri
riverberati dentro
al buio botro in zone
su cui stanno tra i raggi
di luna nei paraggi
elicotteri apache
posti sui pad al fronte
strati sterili a sera
e scavatori a nastri
nel giacimento dentro
i fanghi delle zone
dei derricks in azione
pozzi e gallerie a raggi
un bulldozer capace
che sta sbancando il fronte
tra gli hangar una serra
e i bunker su pilastri
e tubazioni dentro
flares di torce da dentro
gli oleodotti zone
con i monitoraggi
d’inquinanti rampe e space
frame in piste di fronte
a atterraggi di sera
di aerei-spia fra gli incastri
di barene olivastri
mucillaggini dentro
acri e salmastre zone
restano in scuri raggi
catrami senza pace
campi minati al fronte
nel caldo effetto serra
posti di blocco a sera
sotto agli infiniti astri
brillanti scorre dentro
tubi posati in zone
desertiche a raggi
il petrolio acre e pece
su rena e sabbia in fronte
a caserme la fonte
di fumi densi a sera
tra i soldati grigiastri
investe cortei dentro
mimetizzate zone
scuotendo a gruppi in raggi
bandiere della pace
   autostrade di notte
frangenti azzurre i campi
anabbagliando clivi
con flash fluorescenti e albe
nel riverbero stinto
di sterpeti e improvvisi
boati e esplosioni in nubi
friniscono tra nubi
per subsonici a notte
propulsori sui campi
e incursioni dai clivi
a bassa quota in albe
rivelano uno stinto
stabilimento e avvisi
di divieti tra i visi
mimetizzati nubi
offuscano la notte
da anticarro nei campi
e batterie sui clivi
fioriti in chimiche albe
stazioni meteo stinto
appare un indistinto
scavo edile divisi
azoti ossidi nubi
booster in stadi a notte
sganciati sopra i campi
da capsule e declivi
in immagini ir albe
su autoblindo tra scialbe
traccianti nel distinto
sparire d’indivisi
bagliori ufo le nubi
s’addensano di notte
la scoria imbianca campi
smottando in cretti i clivi
benne e antenne proclivi
ai crolli autosilo in albe
sfumate in uno stinto
seguirsi di preavvisi
di rossi stop tra nubi
nel cuore della notte
e logistici campi
corazzati tra i campi
minati che dai clivi
schermano in algide albe
fioco il bagliore stinto
di contraeree invisibili
missili tra le nubi
mentre scende notte
   lacrimogeni e carte
guerre urbane nel fondo
di vie i blindati e celle
l’assetto a scudo ferma
spari a salve fra i pali
registrazioni a chiazze
e interferenze radio
rumore della radio
risuona tra le carte
dei giornali lo sfondo
in vetrine e asticelle
di ponteggi che fermano
calcestruzzi coi pali
su attici i fiori a chiazze
nella scarpata chiazze
bruciate e brulle a gradi o
distributori e carte
il suburbio profondo
compresso tra le celle
di campo resta ferma
l’ira che svelle i pali
viali auto antenne pali
squatters in gruppi a chiazze
la mattina alla radio
la città è insonne e scarti
di graffiti fan sfondo
a un bus sotto facelle
che al supermarket ferma
intirizzita ferma
gente in quartieri e i pali
tensostrutture a chiazze
negli showroom le radio
tra i tendaggi e le carte
la pattuglia di sfondo
stornata da procelle
black-block chiusi in celle
la polizia che ferma
corduli infranti e pali
manganellando a chiazze
news di g8 alla radio
l’estintore tra carte
un morto cade in fondo
coi no-global a sfondo
pestaggi nelle celle
simmetriche aria ferma
il siderurgico i pali
campetti stenti a chiazze
impianti e raggi radio
per spente prese scart
  i terrazzi in un velo
dietro i palazzi in centro
un autobus che arriva
schiacciando cose a terra
carte e bottiglie rotte
ventoso alza una veste
nei viluppi del flusso
d’aria spinto nel flusso
che oscura sotto al velo
il cosmo senza centro
tecnici sulla riva
scavano nella terra
tra cavi e linee rotte
fluorescente la veste
antinfortuni investe
le file in mezzo al flusso
dei fari dentro il velo
di smog in vie del centro
e i rifiuti sulla riva
dal mare spinti a terra
tra le alghe e cose rotte
avariate e corrotte
tra gli inquinanti investe
il mutevole flusso
di merci quasi un velo
che stringe al centro
il black hawk in deriva
che svisa e scende e atterra
e la scura scia a terra
rintracia rette e rotte
tra casse e scatole e investe
l’ipermarket nel flusso
delle merci in un velo
di smog dal centro
si dirama verso riva
in catena corriva
tutto va sotto terra
nel gioco di ininterrotte
scene che investe
nel vento e sparge un flusso
di polverone a velo
spostando il baricentro
per i lavori del centro
il camion svolta e arriva
tra betoniere e terra
e calce in mura rotte
un alone riveste
il collidente flusso
dei versi in vacuo velo
   i lunghi attracchi a schiera
fregate chiatte brezza
sottomarini e schiuma
chiudono ormeggi in rade
ridde di radar sparte
tra i sonar sulla sponda
missili Trident in guerra
e fra trincee di guerra
oltre torrette a schiera
Boeing stanno nella brezza
e ferri e affusti e schiuma
affastellati a rade
maglie saldate e in parte
obsolete fan sponda
fotocellule a sponda
reticoli di guerra
è vietato da schiera
spinata iridea brezza
oltrepassare schiuma
a bolle il brago in strade
tra i cumuli in disparte
sotto a stelle in parte
l’asfalto che sprofonda
per cingolati in guerra
e le uniformi a schiera
bandiere nella brezza
la mimetica schiuma
che il marrone sorrade
su insenature e rade
sfuocate nella parte
a est i palloni-sonda
lasciano scie di guerra
gli aerei-spia a schiera
stratofortess in brezza
nerastra che si sfuma
e l’acquafan la schiuma
su riviere e autostrade
le strobo si dipartono
dalla disco alla sponda
bruciata nella guerra
racket di bande a schiera
armate spari ebbrezza
sugli spiazzi la brezza
leva cinerea schiuma
stralci e tabloid abrade
rossi occhi in ogni parte
ricevono di sponda
gli effetti della guerra
in tv i morti a schiera
   viluppi in foschi fumi
di raffinerie e nubi
rafferme in una forma
si addensano sui prati
tra cisti e auto in sosta
nelle pieghe del reale
un trattore spento
su zolle trite spento
ara le zolle in fumi
solchi e stridii tra nubi
rintraccianti la forma
d’opima terra ai prati
e i divieti di sosta
nell’atmosfera irreale
di alti pilastri il reale
sugli svincoli spento
il semaforo e i fumi
di tangenziali in nubi
giunture fuori forma
copertoni sui prati
rugginoso risosta
sgorga in bitumi e sposta
scoli acidi e iperreale
cumulo di coils spento
per materassi e fumi
ingrossa grasse nubi
tra assi marci che sformano
sfardellando sui prati
in lai rai dai bui prati
lucidi i led di sosta
la tradotta del reale
su di uno schermo spento
saettano i fuochi in fumi
matrici mute e nubi
protozoi in una forma
rappresi e scuri a forma
inquinanti nei prati
bifidi rami in sosta
macerati dal reale
oltre a un ammasso spento
tra le rovine e fumi
di proiettili in nubi
rosse galassie e nubi
ombre che il cosmo sforma
umide sopra i prati
scuri reparti in sosta
sul collasso del reale
e freddo frinire spento
le scene spente in fumi
   in fabbrica la nassa
rappresa i tenui fili
viscosi e scarti e resti
lavorati di vetro
in lamine e fogli e
il poliammide sparso
che cola nello stampo
le poliestere in stampo
stirato in grigia nassa
di canaline e fili
nel capannone i resti
tele screziate in vetro
lattice gomma a sfoglie
insuffla gas sparso
asettico tra le cose sparso
canceroso lo stampo
costretto dalla nassa
mixa additivi in fili
calandrati tra i resti
scure scaglie di vetro
e coadiuvanti a sfoglie
abscissione di foglie
sintetiche cosparso
si ripete lo stampo
di monomeri in nassa
craking fenoli a fili
saturi eteri e resti
addizionati in vetro
laminati di vetro
coloranti su foglie
lubrificante sparso
poliuretano in stampo
raffredda in una nassa
polivinile a fili
tra polimeri e resti
di propileni agresti
bianche schegge di vetro-
resina gonfiano foglie
stelle a spilli cosparso
termoindurenti in stampo
sulle falde la nassa
termo-processi e fili
quiete resine a fili
unici eterei resti
estrusi e orditi in vetro
negli stireni a sfoglie
e l’eposside sparso
attratto nello stampo
unito in una nassa
   porte tendaggi cose
all’ingresso in un lampo
la pareti di casa
crettate tra le croste
l’armadio appare vuoto
e dei cd la gamma
tra poltrone coi buchi
le macchie scure e i buchi
nello specchio le cose
dal pc in rete un lampo
password violate in casa
nel salotto le croste
di pane sparse e il vuoto
cavi seriali in gamma
l’evanescente gamma
dei prodotti e coi buchi
le giacche scarpe e cose
una cerniera-lampo
vestiti smessi in casa
s’attaccano le croste
tra cibi in sotto vuoto
lenzuola e un letto vuoto
sfatto e sporco la gomma
sui mobili e nei buchi
gli shampi in bagno e cose
peli e pettini un lampo
nei corridoi di casa
equorei umori e croste
sui soffitti le croste
e dentro il frigo vuoto
dai prodotti ingromma
confezioni coi buchi
cibi in cucina e cose
su stoviglie in un lampo
gli odori della casa
nelle stanze di casa
la moquette e le croste
tra cicche spente un vuoto
lampadario che inganna
in salotto ombre e buchi
gli ombrelli luci e cose
che svampano in un lampo
di pubblicità il lampo
un jingle nella casa
con stracci e moci e croste
ha il corridoio un vuoto
Aperto sulla gamma
muta di prese e buchi
per soglie intrecci cose

Tommaso Lisa: Enchiridion (poetica)

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Reset (doppio set di sette settine) è in parte già edito in rebis.periferiche (Old Europa Cafe, Pordenone, 2005) libro con allegato cd reset del musicista e ingegnere del suono Bad Sector. Il nucleo di testi si inserisce in un programma più vasto: due libri-oggetto pluriversi (leggibili indifferentemente in diverse direzioni) periferiche/terminali e emulazioni/appercezioni. Tra le motivazioni di questi testi c’è il piacere di un lavorio artigianale con le parole, imprescindibile dalla natura iconica, tipografica, del testo; una volontà di trattare i materiali verbali, assemblare le sillabe come cose per ottenere artefatti retorici, al contempo bizzarri e algidamente neoclassici. Nelle intenzioni agisce un gioco formale - esplicitato negli acrostici-omaggio - racchiuso nella struttura della “settina” di settenari. Una feticistica passione per il catalogo entomologico, la miniaturizzazione fermodellistica, l’agonistico sfoggio atletico della muscolatura del metro, l’ibridazione e la mescolanza di stili, la campionatura di quanto è reputato notevole all’interno del repertorio della letteratura universale. Un costruttivo impegno critico verso il linguaggio stesso, per ottenere uno stile, un meccanismo funzionante con regole interne coerenti e conformi. Vi agisce la necessità di assemblare citazioni dalla tradizione, lessico tecnico e letterario, situazioni reali - quotidiane e esperite - insieme a fantasie immaginarie, allucinate, frammenti mnestici e lacerti abrupti. Mappatura, disegno, alessandrina ecfrasi che spazia dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, passando attraverso molteplici soglie: dalle galassie alle strutture subatomiche, dal paesaggio all’interno domestico, dallo schermo televisivo, al chip al silicio, alla carne dell’individuo. La recitazione del testo pone in risalto l’aspetto multiversale dell’artefatto, in quanto dovrebbe risultare coerente - ugualmente significante e insignificante - la lettura sia dalla fine che dall’inizio, o da un qualsiasi punto intermedio. Il macrotesto, infatti, dovrebbe costituire un grande calligramma mandalico, disposto in cerchio, come un ouroborus, (e così sarà, non appena verranno acquisite le necessarie competenze di grafica vettoriale). Reset si propone quale miniatura documentaristica del medioevo digitale dell’inizio del nuovo millennio, sospesa – apparentemente senza storia - tra imminente catastrofe ed eterna rigenerazione. Ricetta o istruzioni per l’uso, queste note non intendono esaurire il senso potenziale dei testi: non è l’unico modo di scrivere, neppure il migliore (ne sono consapevole; mantengo infatti attive molte scrivanie, altri opifici letterari, per creare testi anche molto diversi da questi) ma è sicuramente un modo demiurgico per ricreare altre possibilità, una diversa cosmografia.   

(lunedì 25 febbraio 2008, mattina)

Il “Paradiso” tradotto in francese da Jean-Charles Vegliante. Con un sonetto inedito di Yves Bonnefoy ispirato dal "Purgatorio"

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Dopo “Inferno” (1996) e “Purgatorio” (1999), anche “Paradiso” è stato pubblicato in Francia (2007), sempre nella versione di Jean-Charles Vegliante. Qui viene presentato con un omaggio di Yves Bonnefoy: un sonetto inedito ispirato dal Purgatorio e tradotto da Fabio Scotto.

"Paradis" - traduzione della IV di copertina

Versione stampabilePDF versionUna pallida luna, dove  - in modo provvisorio - appaiono le prime anime beate, secondo una sembianza nostra riflessa in acqua limpida, ci accoglie e familiarizza con la terza cantica del Poema sacro : la più sorprendente a vari titoli. Siamo "là  've s'appunta ogne ubi e ogne quando" (XXIX, 12), un non-luogo ineffabile che il poeta viaggiatore ha nondimeno l'incarico di transmetterci, raffigurandolo sotto delle apparenze accessibili ai nostri sensi. Forse anzi a tutti i sensi, come cercasse già di "trovare una lingua" (Rimbaud), e sarà quella degli angeli. Cosicché acceleriamo con lui, trascinati dal riso sovrumano della sua Beatrice, filiamo dietro di loro nel vortice enorme della luce, attraverso gli otto cieli dei pianeti e delle stelle, foriamo il nono cielo cristallino (primo mobile) vertiginosamente mosso dai cori angelici, su fino alla specie di eccitamento cosmico della "candida rosa" visitata senza tregua dai messaggeri dell'Amore divino, colma nella pace immutabile della vera presenza degli eletti, fuori di ogni ingenua rappresentazione. Lontano dalla pochezza di un mondo "che ci fa feroci". In mezzo a quell'empireo di quieto avvampare, ove Beatrice con tutte le altre anime ha ripreso posto, una guida ultima, san Bernardo, condurrà per finire - non senza l'intercedere della Vergine regina - alla brevissima eppur interminata contemplazione di Dio.
Come per i due libri precedenti, la traduzione tenta di seguire quel continuo slancio attraverso lo spazio aperto e gli interstizi d'una lingua altra, anch'essa capace di stabile base e d'invenzioni inaudite, di variazione, di colori e ritmi regolati, di poesia per coloro i quali, leggendo, vorranno riceverne "l'onda / che si deriva perché vi s'immegli".
Il testo originario, rivisto dal traduttore sull'edizione critica del Petrocchi, è tra quelli al momento disponibili uno dei più affidabili.

Sonetto inedito di Yves Bonnefoy

Versione stampabilePDF versionFacesti come quei che va di notte...

Il secouait une sorte de torche 
Dont l’étrange lueur déconcertait 
Ces autres qui cherchaient derrière lui
À ne pas avoir peur, le long du gouffre.

Guide, pourquoi n’as-tu, sur ton propre corps,
Rien de cette lumière que tu offres?
N’as-tu aucun besoin de percevoir
Le vide qui se creuse sous tes pas?

Mais tel est le destin de l’allégorie:
Qui parle ne pourra ni ne doit savoir
D’où vient et où s’abîme sa parole.  

Son pied cherche le sol à même le vide,
Sa voix hésite et tourne dans ses mots,
Flamme de moins de rêve que sa cendre.

Copertina del libro "Paradis", Imprimerie nationale, 2007

Versione stampabilePDF versionCopertina del libro: paradis

Copertina del libro: paradis

Giovanni Raboni, frammento di recensione

Versione stampabilePDF version(dal “Corriere della Sera” del 13 ottobre ’96)

"Siamo agli antipodi della  traduzione-spiegazione, della traduzione-parafrasi, che scioglie i  nodi, i grumi, le oscurità delle figure e delle immagini come se le  metafore fossero altrettante metastasi e il compito principale di chi  traduce fosse quello sostanzialmente sanitario di guarire il testo  poetico della sua poeticità per fornire al lettore, non importa se in  prosa o in similversi, una sorta di replicante quanto più possibile  sterilizzato, inodoro e insaporo. / Poeta prima che italianista o, per  essere più precisi, italianista anche e soprattutto in quanto poeta,  sebbene le sue credenziali linguistiche e filologiche siano con ogni  evidenza impeccabili, Vegliante sa che una poesia o non si traduce  affatto o si traduce con un'altra poesia, che non esistono soluzioni  intermedie; e la sua scommessa - la via stretta nella quale ha visto,  giustamente, l'unica via percorribile - sta nell'aver affrontato il  poema per quello che a dispetto dei crociani di ieri e di sempre,  intenti a disarticolarlo in polpa lirica e ossame o cartilagine  intellettuale, esso in effetti è : un immenso - eternamente  irriducibile e, proprio per questo, eternamente fruibile - "individuo"  poetico. (...) a sorreggere, a ispirare il poeta-traduttore è stata,  in ogni scelta di metodo e in ogni scelta concreta, la musa della  densità..."

Cfr. anche saggio di  Vegliante "Ridire la 'Commedia' in francese oggi", /DANTE/ n° 2, 2005,  pp. 59-79.

Biobibliografia di Jean-Charles Vegliante

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Nato a Roma, Jean-Charles Vegliante vive a Parigi dove insegna alla Sorbonne Nouvelle. Poeta e traduttore, si è occupato dei testi francesi di Ungaretti e di teoria della traduzione (D’écrire la traduction, 1996). Ha pubblicato di recente Rien commun (Belin, 2000), Voci (bilingua, Forlì 2002) e Nel lutto della luce (Einaudi, Torino 2004).

Una poesia di Jean-Charles Vegliante

Versione stampabilePDF versionUna variante di Jean-Charles Vegliante

1.  /F. nel sonno/
amici, vivo con voi ormai,
non mi offende più arido asfalto:
è vero, nostre parole volano,
vischio e nidi lungo l'autostrada,
a quel ricordo di cadenza in me.

2. /In sogno, o quasi/
Amici vivo con voi ormai,
non mi offende più arido asfalto:
è vero, nostre parole volano
(vischio e nidi lungo l'autostrada
orrenda) e tutto ritorna aprile,
e un ricordo di cadenze in me.
(fine del 1994)

Testo inviato al Centro di Documentazione “Lorenzo Montano” nell’ambito dell’iniziativa legata alle “varianti” poetiche.

Traduzione di Fabio Scotto

Versione stampabilePDF versionYves Bonnefoy       

«Facesti come quei che va di notte…»

Agitava una sorta di torcia
Il cui doppio bagliore disorientava
Quegli altri che cercavano dietro di lui
Di non aver paura, lungo l’abisso.

Guida, perché non hai, sul tuo stesso corpo,
Nulla di quella luce che offri?
Non hai alcun bisogno di avvertire
Il vuoto che si scava sotto i tuoi passi?

Ma tale è il destino dell’allegoria:
Chi parla non potrà né deve sapere
Da dove viene e dove sprofonda la sua parola.

Il suo piede cerca il suolo annaspando nel vuoto,
Il suo volo esita e vira nelle sue parole,
Fiamma che è meno un sogno della cenere.

Traduzione inedita di Fabio Scotto


Anticipazione inedita da una raccolta poetica d'imminente pubblicazione in Francia.
Copyright Y. Bonnefoy per l'originale francese, F. Scotto per la traduzione.

Teoria: Giorgio Bonacini, Gaetano Ciao, Marco Ercolani & Lucetta Frisa

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Prosegue la pubblicazione di Oscurità di Giorgio Bonacini, giunta al quarto capitolo. Gaetano Ciao propone un saggio teso tra corporeità e immaterialità, mentre Marco Ercolani e Lucetta Frisa scrivono del Progetto Arca.

Giorgio Bonacini, Oscurità II

Versione stampabilePDF versionFare poesia è avere in mente che il corpo (anche il corpo delle cose) non      è sempre un linguaggio catturabile, ma nemmeno una dimenticanza pura e semplice; il linguaggio del corpo esiste anche in funzione di un corpo di linguaggi da cui attingere per scrivere qualcosa: chiamarla “poesia” è solo una questione di modalità contingenti. 

   Nel caso specifico (l’ingresso mentale, ma anche simbolico, nell’uni-verso della poesia) è l’incertezza conoscitiva, l’indecidibilità di una risposta. Alla fine del percorso, che cosa so dell’immagine del mio corpo? Forse solo un sentimento di astrazione o la fluidità di un linguaggio martellante. 

   La parola sale da una congiunzione all’altra e non si arresta: dimentica di essere al servizio di un pensiero. Posso chiedermi, però, se la poesia sia in grado di sopportare il peso di una dimensione fortemente cognitiva. In altre parole: qual è il senso della metafora nella logica di questo mondo? 

   Wallace Stevens scrive (e dunque scopre) che “Agli antipodi della poesia, buio inverno,/ quando gli alberi brillano di ciò che li spoglia,/ il giorno eva- pora, come il suono udito da un malato.”*1 Io ne convengo, senza per questo dogmatizzare un senso o limitarmi a quella forma. 

   Dunque il paradosso è estremo: la poesia può fare a meno del mondo, ma il mondo non può fare a meno della poesia. E ciò senza ironia, perché il mondo non lo sa e se ne infischia della mente poetica; e ancor di più si disinteressa del corpo poetico e della sua risoluzione nella parola. Ci si può ammalare, si può morire per questo? 

   In ogni caso, pur nell’affaticamento, si affronta l’impresa (le impennate, l’instabilità di un appiglio...) perché il mondo della poesia è convincente: è un atteggiamento teorico, vivo, un modo di fare pensiero che non nasconde le sue difficoltà, ma le risolve in un’astuzia del corpo. 

   Così come il silenzio è un’astuzia della parola, il mondo è un’astuzia della poesia. Qualcuno dice il contrario. E’ vero anche questo, ma nello stesso modo in cui, per una scala, la salita e la discesa sono la stessa cosa. Dipende dallo sguardo o, più naturalmente, dal salire e dallo scendere. 
  


   Certo, si può essere ancora più sottili e riconoscere le disfunzioni di una simile idea: ma è la necessità di non salvarsi da niente a produrre i motivi del senso. In questo modo è possibile allora affrontare con lucidità anche il sentimentalismo, anche una certa pateticità.

E se in tutto questo si parla di vivere, allora la sua pertinenza conduce lo scrivere ad una  valenza  poetica: l’apparente  immobilità dei versi  funziona

perché scorpora ogni aggancio con la realtà (ma non con “il reale”, come  già detto). Ciò che rimane è il giudizio: e questo ha a che fare con i feno- meni possibili, non solo quelli esistenti. 

   In definitiva, il rapporto tra il corpo fisico presente e la fissità o fluidità del linguaggio appartiene sempre più alla metafora in sé, alla sua letteralità: che è la consistenza di una finzione recuperabile all’interno di una retorica culturale, non strettamente artistica. 

   Ma c’è dell’atro: così come spesso non è convincente il racconto del sogno (meglio meditare sulla funzione del sonno), anche  il corpo, nella sua estesa profondità, viene indicato enunciando “l’interiorità, senza concedere l’intimità”.*2 Ciò significa concentrarsi sulla poesia per rivelarne il pensiero, forse la fonte originaria, se mai esiste.

Marco Ercolani e Lucetta Frisa, Il progetto Arca

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“E che altro potevo opporre al nulla se non questa arca nella quale ho voluto riunire tutto ciò che mi era vicino?

Danilo Kis

1 

     I libri dell’Arca hanno una storia lunga e complessa. Il «progetto Arca» - ideato da Marco Ercolani, Lucetta Frisa, Giuseppe Zuccarino, ai cui nomi si sono aggiunti Massimo Morasso e Luigi Sasso - nasce per la prima volta nel 1991, sotto forma di samizdat in buste in quaranta copie per quaranta amici, e si attua in questa forma – Arca prima serie -  fino al 1997. Così Giuseppe Zuccarino descrive questa prima serie della rivista (in cui appaiono, tra gli altri, testi di Blok, Beckett, Rilke, Shakespeare, Char, Masson, Foucault, Nerval, Blanchot, Tal Coat, Mallarmé): «All’inizio del 1808, Clemens Brentano e Achim von Arnim fondano una rivista, destinata a durare solo pochi mesi, alla quale danno un titolo piuttosto singolare: «Zeitung für Einsiedler» («Giornale per eremiti»). La formula è spiritosa proprio in quanto appare intrinsecamente contraddittoria. Come dovrebbe essere – viene da chiedersi – un giornale, per poter sperare di suscitare l’interesse degli eremiti, ossia di persone che non si identificano con i valori correnti della società in cui vivono, e che hanno scelto la solitudine come forma di fedeltà alle proprie idee? (…)

      A un tale, improbabile, «giornale per eremiti» si è portati a pensare in relazione ad «Arca», i cui lettori sono appunto necessariamente rarissimi (vista l’esigua tiratura della rivista) e dispersi in vari luoghi, perlopiù periferici, della Tebaide letteraria italiana. Così come i redattori sono costretti ad essere selettivi nell’identificare, uno per uno, i propri lettori, sperano di esserlo anche nella scelta dei testi da proporre. (…) Una rivista come «Arca» ha un carattere essenzialmente privato, fondandosi su quella pratica ardua e gratificante che chiamiamo amicizia (e l’amicizia, come ricorda Pascal Quignard, «è l’unica vera società segreta»). Tra autori e lettori – ma i due ruoli sono tendenzialmente reversibili – si stabilisce dunque un dialogo, che serve a rendere conto delle rispettive esperienze di scrittura. È vero infatti che chi lavora ad «Arca» (al pari di chi la riceve) si pone consapevolmente nel ruolo dell’eremita, e dunque accetta di rendersi invisibile per i più, ma ciò non toglie che egli avverta la necessità dello sguardo, al tempo stesso complice e impietoso, degli amici. Come diceva una volta André Malraux, «è difficile, per chi vive fuori dal mondo, non andare in cerca dei suoi». 
 

2

     Dopo il 1997 Arca si organizza in rivista “tradizionale” e pubblica dieci numeri, fino al 2004. Arca seconda serie assume una  precisa veste grafica ma la poetica resta sempre identica: individuare opere, marginali ma significative, in cui l’artista affronta le problematiche del suo operare.

      Arca, in questa nuova forma, si divide in cinque sezioni. Segnali: poesie, saggi o racconti di classici e contemporanei. Destini: un omaggio ad autori fraintesi o trascurati dalla critica ufficiale. Variazioni: un dialogo su temi e problemi introno alla scrittura. Sinopie: testi di e per pittori. E infine Graffiti, dove un artista propone alcune delle sue immagini esclusivamente create per Arca.

     In questi sette anni Arca pubblica autori come Ernst Meister, Louis-René des Forets, Maurice Blanchot, Emilio Villa, Philippe Jaccottet, Jean Fautrier, René Char, Antonin Artaud, Robert Walser, Francis Bacon, Paul Celan, Jean Starobinski, Robert Desnos, Yvan Goll, Henri Michaux, Varlam Salamov, Pascal Quignard, Roland Barthes, Michel Leiris, Alberto Giacometti, Dario Capello, Claudine Bertrand, Osip Mandel’stam, Alejandra Pizarnik, André Breton, Jean Dubuffet, Yves Bonnefoy, Ted Hugues, Tatjana Bek, Emile Cioran, Stéphane Mallarmé, Victor Hugo, Luchino Visconti. 
 

3 

     La nuova forma di Arca è oggi una collana editoriale: I libri dell’Arca, ospitati dagli amici delle edizioni Joker, Gennaro Fusco e Monica Liberatore e Mauro Ferrari, sviluppano ulteriormente certe premesse che sono sempre state la base del lavoro della rivista.

     -Scegliere dei testi di qualità, nell’ambito della scrittura del novecento contemporaneo.

     -Utilizzare lo strumento della traduzione (dal francese, ma anche dal russo, dall’inglese, dal tedesco.)

     -Esercitare una particolare attenzione verso la poesia contemporanea.

     I libri dell’Arca individuano testi di autori che concepiscono la scrittura come pulsione estrema, in stretto rapporto con l’esperienza della follia e l’ossessione dell’arte. Intento della collana è sviluppare una rabdomantica curiosità per scritture minori, spesso sommerse o poco visibili, del Novecento europeo. L’attenzione si orienta verso questi testi, frammentari, marginali e non troppo noti nella biografia intellettuale dell’autore, che sembrano parlarci, oggi, con maggiore intensità e autenticità delle opere più note. Nostra convinzione, sulle tracce di Thomas Bernhardt, è che la scrittura contemporanea sia solo un «grande e gigantesco frammento».

Il progetto è indagare, con prove narrative o poetiche, in grande libertà, attorno a temi estremi e comuni come la follia, il sogno, la poesia, la scrittura del limite e dell’oltre. Il desiderio della collana è definire una cartografia di questi terreni, sempre marginali e sempre reali, dove l’artista vuole spingersi sempre un passo più in là, nella sua ricerca costante di un nuovo sempre attento alla tradizione.

     I libri dell’Arca si dividono in due sezioni: L’arte della follia, in cui è preminente l’attenzione a saggi di critici e di poeti che intrecciano arte e follia, e Isola delle voci, dove trovano spazio voci poetiche contemporanee, più in particolare, nell’area di lingua francese, e libri collettivi di artisti e poeti. 

*** 

“L’arte, o è deforme o non è”. “Chi fa morire il folle che ha dentro di sé muore senza voce”. Queste due affermazioni di Michaux orientano la nostra ricerca. La sproporzione rispetto alle regole e la capacità di preservare un nucleo autentico di follia stanno alla base del nostro lavoro. Il titolo di uno dei libri della collana - Noi lavoriamo nelle tenebre – richiama volontariamente l’affermazione di Henry James, citata da Blanchot, che definiva così il lavoro dello scrittore in generale. Nelle tenebre, è possibile incontrare punti di luce, prospettive nuove. Solo chi è nel buio vede e desidera la luce con maggiore intensità.  

*** 

Questi sono I libri dell’Arca pubblicati dal 2004 al 2007: 

Marco Ercolani        Il tempo di Perseo

Bernard Noël           Artaud e Paule  (a cura di Lucetta Frisa e Marco Dotti)  

Luigi Sasso              Fuori dal paradiso 

Flavio Ermini            Antiterra  

Maurice Blanchot   Noi lavoriamo nelle tenebre (a cura di Giuseppe Zuccarino)

Sylvie Durbec           Fughe  (a cura di Lucetta Frisa)

Giuseppe Zuccarino Grafemi

Bernard Noël            L’ombra del doppio (a cura di Lucetta Frisa) 

Di prossima uscita: 

Pasquale Di Palmo   I libri e le furie

Dieter Schlesak      Poesia: una malatta pericolosa 
 

Più in dettaglio:                   

In Artaud e Paule, Bernard Noel, uno dei massimi poeti contemporanei francesi, scrive un testo essenziale sul rapporto tra l’ultimo Artaud e la sua giovane amica Paule Thévenin. Inoltre la collana ospita uno dei volumi più significativi del poeta, L’ombra del doppio.

In Antiterra Flavio Ermini raccoglie in volume diversi editoriali della rivista  Anterem.

In Noi lavoriamo nelle tenebre sono tradotti, di Maurice Blanchot, alcuni brevi saggi su Michaux e des Forêts e certi illuminanti interventi degli ultimi anni di vita, apparsi anche su quotidiani francesi.

Luigi Sasso, in Fuori dal paradiso, orienta la sua ricerca saggistico-narrativa verso importanti ‘scrittori della follia’ dell’Ottocento e del Novecento europeo, tra cui Gerard de Nerval e Robert Walser.

Silvie Durbec, in Fughe, si pone sulle tracce di artisti che hanno scritto molti libri e percorso molte strade, da Lenz a Sébald e ancora a Walser, ripetendo materialmente i loro percorsi, sovrapponendo il suo personale sguardo al loro.

E ancora, Pasquale di Palmo e Dieter Schlesak, nei libri di cui è imminente la pubblicazione,  orientano la loro attenzione  ancora verso gli intrecci tra arte e follia.  

*** 

Il pittore Gastone Novelli scrive “Nascondersi vale la pena”. Ma, a nostro avviso, anche “apparire un po’” vale la pena. Tracciare una mappa delle opere nascoste, marginali ma intense e spesso dimenticate della letteratura del secolo scorso e di questo primo scorcio di millennio, è la nostra ambizione. I libri dell’Arca si trovano su quel difficile crinale che separa la ragione dalla follia e questo crinale, in tutta la sua complessità e in tutta la sua incertezza, è anche la nostra autentica scelta, la nostra personale airesis (eresia).

Gaetano Ciao: l'incorporeo

Versione stampabilePDF version(ITINERARIO TRA CORPOREITA’ E IMMATERIALITA’) 

Ciò che corporeo non è, non può esulare dal corpo: non può farne a  meno, non può trascenderlo. L’assenza dell’uno sarebbe l’assenza dell’altro: il nulla.

Prima che un corpo muoia, ciò che è incorporeo si estende ad altro corpo, o a più corpi. Tale estensione non conosce limiti, né di tempo, né di spazio; è possibile anche dopo l’esistenza del corpo, nel quale l’incorporeo si è generato.

Esso si espande, anche coniugandosi con l’incorporeo in altri corpi convivente.

Se ciò che incorporeo non è finisce, ciò che corporeo non è vive, e si estende e si moltiplica.

La parola ha in sé l’uno e l’altro: la corporeità che muore, e l’immateriale che vive; tale è l’incorporeo del corpo dell’uomo. L’uno non può sussistere senza l’altro. Così vive l’uomo.

Unità inscindibile, indissolubile, inconsolabile.

L’uomo, come la parola, è questa indivisibilità.

E’ l’indiviso, come la parola. 

L’estensione dell’incorporeo da un corpo all’altro, non è senza sofferenza.

L’incorporeo, nella nuova sede, deve trovare la sua giusta collocazione;  per sussistere, deve essere assimilato nell’indiviso dell’unità corpo-incorporeo.

All’inizio, esso è il nulla, l’estraneo, lo straniero, il dissimile, l’incompreso.

L’assimilazione determina la sofferenza, inattesa fino a che il suo permanere non diviene esso stesso elemento dell’unità, che non è mai pacificazione dell’indiviso 

Non è possibile la vita dell’incorporeo senza riconoscere le sue origini nel nulla che è nel sacrificio del corpo, nel pianto che è al confine dell’indiviso.

L’immateriale, immanente nel corporeo, emergente dalla materia, è l’altra parte dell’uno. 

Occorre scavare nella morte ciò che è, ciò che non muore: l’incorporeo.

Ciò che è, ciò che non muore, vive in ciò che muore.

L’immortale abita il mortale. Esso adorna l’incompiuto della sua dimora. Esso stesso è l’incompiuto, l’incorporeo nel corpo, l’indiviso per sempre.

La locazione può essere temporanea. Spesso esso occupa altri spazi, rimanendo inquilino di se stesso, come se fosse nella dimora originaria. Spesso l’abitazione diviene piccola, insufficiente, per ospitare la sua incorporeità. Ma esso non può sottrarre tutto lo spazio al corpo, suo coinquilino: cresce su se stesso, quanto più si espande; i suoi confini, ospitali, imprecisabili, vanno oltre la sua dimora: sono quelli imprevedibili dell’apertura all’altro, all’insperato, che non ha confine. Ciò si verifica anche in tutti gli altri corpi che, avendolo ospitato, ne sono divenuti compartecipi. Partecipi dell’incorporeità. 

Privato surrettiziamente della corporeità, privato dell’incorporeo, l’uomo perderebbe la sua unità: in tal modo non potrebbe mai giudicare se stesso, né altri potrebbe farlo per lui. In realtà il distacco, la separazione non è possibile. Non sarebbe equo il processo di valutazione in assenza del corpo. Corporeo e incorporeo non possono essere scissi. Occorre giudicare l’indiviso, sempre.

Il giudizio sull’indiviso non dovrà attendere la fine del mondo, la  fine dei secoli. 

                                                                 °°° 

L’umanità dell’uomo è l’indiviso di corporeità e incorporeo.

Il giudizio su ciascun uomo, dopo la sua morte, sarà determinato anche dall’incorporeo trasmigrato in altri viventi, ossia dal valore intrinseco da esso apportato al mutamento e alla crescita della loro umanità. 

Il confine dell’incorporeo è nel corpo stesso dell’uomo, così come quello del corpo è nell’incorporeo. Il corpo, come materia, cerca di superare la linea di confine, ma l’incorporeo resiste.

Il confine è comune a entrambi, ma non è fisso, né prestabilito. E’ mobile, ed è l’uomo stesso, ciascun uomo, a determinarlo per se stesso.

Più si addentra il confine nel corporeo, maggiore diviene lo spazio dell’incorporeo, e viceversa: maggiore diviene lo spazio del corpo, minore sarà quello dell’incorporeo. Mai però potrebbe scemare la corporeità, mentre è possibile il contrario, la mancanza, l’assenza dell’incorporeo in un corpo che in se stesso ha il proprio confine. Un confine che segna il nulla, il nulla del corpo, ma anche la possibilità da cui l’uomo può partire, o ripartire, per cercare l’incorporeo e farlo proprio. 

Incorporeo e corpo coabitano. La coabitazione non è semplice compresenza, ma condizione perché sul corpo possa innestarsi e crescere l’incorporeo. Per questa ragione la loro coesistenza si configura come indiviso, mentre l’identità dell’uno resta del tutto differente da quella dell’altro.

La loro separazione definitiva avviene solamente con la fine dell’esistenza del corpo. L’incorporeo, però, come si è detto già, sopravvive componendosi con l’identico, o col non dissimile, di uno o più corpi.

                                                       °°°

Dell’incorporeo dell’uomo è parte, come elemento costitutivo, la parola, intesa come arte e cultura. La sua coabitazione col corporeo della lingua, quella comune del parlare, è solo apparente. Parola e lingua non coabitano, il loro confine non è comune.

La parola, di fatto, ne spezza in più punti le catene che sono causa di soggezione e di asservimento dell’uomo, e ne circoscrive il potere di annebbiamento delle coscienze.

L’una e l’altra hanno spazio diverso: quello della lingua è chiuso; in realtà non muta molto, resta definito nelle sue stesse dimensioni, che sono identiche anche se sono mutabili i componenti linguistici. Il mutamento è determinato dalla loro usura e/o da ininfluenti incrementi lessicali o modifiche formali, esteriori. La lingua, per l’arbitrio dell’associazione significante-significato, non può esprimere la realtà, quella vera, l’incorporeo. Solo la poesia, solo l’arte, può indicare i sentieri difficili, impenetrabili, spesso impercorribili del vero, dell’essere che si fa, identificabile nella sua impossibile identificabilità.  

Lo spazio proprio della parola muta e si espande su se stesso. La parola, nel proprio autonomo e libero farsi, crea forme nuove e vie di comunicazione ignorate, che hanno transiti esclusivi e possibili solo nell’incorporeo, di cui moltiplicano e amplificano l’area della conoscenza, quella che non ha confini, come quella aperta all’altro. 

La parola è l’indiviso di linguaggio e reale: nell’indiviso si manifesta l’impenetrabilità dell’essere, ossia una realtà in cammino. In essa linguaggio e reale, incorporeo e corporeo, sono la stessa cosa, si identificano; inoltre, nella loro indivisibilità, sono mutevoli e vari. 

La lingua invece crede di potersi identificare col reale del mondo e delle cose che sono fuori di sé, e non s’avvede che tutto ciò che non è in sé, è del tutto privo di autenticità. E’ falso, proprio per il presupposto arbitrario di identificazione del segno verbale, o di altra natura, con la cosa. 

La lingua, chiusa nei suoi limiti, fissi, immobili, rimane tale. Non possiede porte che consentano l’apertura all’altro, all’imprevedibile, al non detto, all’in-nominato: il disertore, l’in-fra. Ciò comporta incomprensioni e chiusure invalicabili tra le genti, sparse per il mondo, che hanno smarrito il senso originario del rapporto incorporeo-corporeo.

Occorrerà trovare altri itinerari, altri tragitti, che permettano incontri possibili, accettabili, ravvicinati all’indiviso.

                            

03.03.2007   

Il lavoro di un Premio: Rosa Pierno su Bona, Guantini, Isella

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Rosa Pierno prosegue il lavoro apparso nel numero precedente, proponendo ulteriori chiavi di lettura per alcuni poeti giunti in finale nella scorsa edizione del premio Lorenzo Montano.

Rosa Pierno su “La cospirazione” di Ermanno Guantini

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Rosa Pierno su “La cospirazione” di Ermanno Guantini

Ci si immerge, in quanto lettori, in un testo che è magma fratturato, in via di raffreddamento, ma da cui emanano ancora bollori. Volontarie sgrammaticature, aggettivi non accordati nella forma ai sostantivi, rendono più aspro il paesaggio vulcanico. Eruzione ha un respiro geologico. Cospirazione sarebbe, allora,  respirazione a cui l’uomo si adegua. Tale co-respirazione mima un dialogo. Dialogo tra natura e cultura. Lievi variazioni su ritmo, lentissimi scarti, effettuati da un essere umano, se non spaventato, guardingo, in attesa: monitoraggio di eventi lo si direbbe, eppure, solo all’interno della lingua.   Lingua: amata, irrinunciabile mostruosità.

Il dialogo s’intesse attraverso lo sguardo e l’udito e intercetta sfilacci di filosofia, lacerti di chimica e di fisica, osservazioni geometriche tranciate: “nel clamore arido della deduzione, in un avvertimento, sterile fasto, precisa composito, inesauribile abitudine al dicembre, inerzia” Non arriva a formarsi alcun pensiero in questo assemblaggio eppure sublime: è forma perfetta e forma non realizzabile insieme.

Aggettivi si accompagnano forzatamente a sostantivi altrettanto recalcitranti. Quasi un sistema leibniziano in cui non c’è contraddizione solo perché tutte le contraddizioni vengono viste come variazioni di grado della complessità e risolte a un superiore livello d’unità. Se “l’equilibrio non dipende dalla sanità, ma all’occasione, abbandono in diligenti diottrie o nuda ricreazione”, il lettore è tentato di pensare al testo come a un meccanismo formato da tessere di puzzle tutte uguali:  tutto si può ricomporre con tutto, oppure non collimare mai, che è la medesima cosa. A questa collezione, collazione di parole, di risonanze, di echi che si riconfigurano a ogni passo scandito da virgola: “la ribalta nell’anfora deserta, lo spicchio, la coscienza di equilibrio, il taglio d’oro nel pregevole cosmo”, Guantini affida  il suo persistente, indimenticabile respiro tutto umano. Respiro mediante linguaggio.

Rosa Pierno su “Corridoio polare” di Gilberto Isella

Versione stampabilePDF version“Corridoio polare” (Book editore, 2006) di Gilberto Isella,  è un libro che inizia tiepidamente, dando al lettore le coordinate di riferimento, ma poi finisce con lo scottare fra le mani. Coordinate: l’Io come congettura o ipotesi, ma soprattutto dato culturale. L’Io confuso tra tutti gli altri elementi che compongono l’universo e contemporaneamente creatore di universi. Non privo di paesaggio, di dati biografici, di dettagli fisici. L’Io in quanto eccezione nel cosmo ruba il posto al dio creatore.

Il libro inizia, dunque,  con una precisissima collocazione dell’Io fra le cose  e della sua assoluta  preminenza come percipiente.

L’analisi delle facoltà conoscitive conduce Isella a comprendere che ratio e follia non sono facilmente separabili e che tutto questo ha una conseguenza sulla conoscenza delle cose, sul modo di vederle: “questa notte in corsia l’ultimo/ lenzuolo si è gonfiato per la polvere che matte lune soffiavano oltreparete, ha coperto una schiera di omiciattoli uguali, soldatini di plasma,/ dove ho visto qualcuno che mi somiglia/ dove mi è apparso il primo gradino/ o, forse, un equivoco/ della scala”.

Col pensiero si può porre una meta ideale, ma non la si può raggiungere se non tradendo la propria lucidità. Follia funziona qui anche come sinonimo di ambiguità. Saggia ambiguità da preservare  contro ogni tentativo di assolutizzare o di rendere monotematico il significato. Descrivere la realtà con linguaggio matematico non è forse l’orma che lascia la follia  nella nostra mente?

E d’altronde come negare valore conoscitivo alla follia, al tentativo di risolvere l’assurdo, il paradossale in unità? Non è forse questo un atto matematico e poetico insieme?

E’ come un dazio pagato per l’ingresso nel regno del possibile. Poesia dispiega,  ora, un universo di fatto prima inesistente.

E tutto questo movimento di pensiero è reso da Isella con una splendida variazione di stile: ora abbecedario, ora dottissimo, ora misto: “mi pigiavo in creme algose che dai fondali risalivano, presenze e scorie ischeletrite aggallavano per sommergersi, sacche dal volto scimmiesco squaquerante..”.

Ci troviamo dinanzi a una poesia mirabile, che reca un vero piacere fisico: il suono, il senso, le immagini che fanno meraviglia. 

Ma Isella come una macchina che misuri le più piccole oscillazioni registra anche mancamenti, balbettii, baratri d’insensatezza che inevitabilmente affiancano ogni perlustrazione linguistica.  Se Isella indaga le due aree, quella scientifica e quella umanistica, è ben vero che lo fa è sempre situandosi nelle loro zone di confine, di dialogo, di promiscuità. Lì nasce e si forma compiutamente il senso.

Lo sviluppo del testo coinvolge il lettore in maniera  fisicamente partecipativa: è come se ci si trovasse su una caldaia che sta per esplodere, ma che intanto produce bollori rutilanti, tensioni, polifonici rumori: “Ora è salciccia muta su piatto di peltro,/ steso lì a causa di altre braccia gagliarde/ da folla trina e unigenita armate/che infuria su ruote solleva radici/ e ne fa clave e punte d’uragani..”. Isella ha dato la stura a un’immaginazione che non vuole freni e che nel suo lussureggiante darsi  offre caleidoscopiche forme. Pirotecnico linguaggio, poliforme e duttile. Come se alla fine del viaggio-libro, Isella avesse optato non per la follia messa a confronto con la ratio, ma per l’immaginazione, in quanto sintesi dei due inconciliabili termini. Sì, il libro bolle, ma, con calcolata mossa, proprio quando il lettore  giunge alla fine.

Rosa Pierno su “Signora dell’intimità” di Giorgio Bona

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Rosa Pierno su “Signora dell’intimità” di Giorgio Bona

Una scrittura che non si pone limiti nel prelievo da ambiti linguistici specialistici o da lingue estere e nemmeno nell’evitare l’uso di punteggiatura e di  pause e che si snoda, eppure ritmicamente, lunghissima catena. Il lettore sente scorrere sotto le dita i grani del rosario, il lunghissimo periodo, e con i polpastrelli può far scorrere le frasi o può frenare sulle parole di giuntura: poiché una parola costituisce il passaggio di volta, la chiave, per la frase successiva, per l’installazione in un altro contesto, di altro punto di vista, che vira il senso: “porta un messaggio l’aria mi spinge agli incavi del tartaro che plana luna ramata vai a questa profondità ma sì l’utopia sei tu che ami l’orizzonte”. Se la catena è composta da grani di incertezza, quasi un inventario di luoghi culturali, è anche vero che Bona è da una posizione ben salda che parla: si avverte la totale consapevolezza dei valori e dei desideri che lo animano e da cui registra  ciò che non gli si attaglia o ciò che lo rende felice.

Il linguaggio, che ricorda il movimento della scrittura beckettiana, appare come uno strumento d’investigazione sugli stessi strumenti linguistici utilizzati: “è il modo dei corpi di star compatti il mio ritmo lingua nuda furba sveglia sotto in fondo senso e giudizio non hanno storia ma più sotto anche i tuoi occhi puoi pensare nel clamore per iniziare dal principio come spingere i fatti da fuori”.

Ogni testo usa un lessico diverso che forma l’impalcatura dell’investigazione condotta sui propri dati sensoriali, emotivi e razionali. La scienza o i testi di Omero vengono trattiti allo stesso modo con prelievi che sono incastonati nel tessuto esistenziale dell’autore, le cui ossessioni sono reiterate, affiorano come scogli perigliosi e si rincorrono per tutto il libro: parole che sono indagate come non innocenti e che  costituiscono l’ossatura del libro: “vuoto”, “aria”, “movimento”, “delfini”, sotto il vestito”, “la tua bella voce”, “verità”, “nuvole”...

Resta tra la rete delle dita un pescato concretissimo, vero tesoro per il lettore.

Le recensioni di Marco Furia

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Marco Furia su “Bisogni” di Davide Campi

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Poetici bisogni

Nel caso di “Bisogni”, di Davide Campi, testo pubblicato sul n° 73 di “Anterem”, si è in presenza di una complessa composizione (trentacinque versi suddivisi in sette parti) in cui il susseguirsi degli articolati, enigmatici, costrutti obbedisce ad esigenze interne allo specifico idioma proposto: un “perno” trovato “negli altri resti dal sapere”, “… un cerchio che spinge lontano/ più al sicuro nell’ altrove dove porta”, “un determinato specchio/ aperto ai generici suoni” risultano immagini, ricche di valenza allusiva, non riferite, certo, a comuni modelli, bensì evocanti la presenza di un ineffabile, vivido, quid.

Attento ad elementi, anche minimi,  connessi in maniera tale da costruire assiemi tanto coerenti quanto aperti su insondabili entità, il Nostro si rivela ben conscio del fatto di poter disporre, con vantaggio, di non aprioristiche opzioni idiomatiche, le quali, nel riconoscere i propri limiti, conducono a individuare, proprio in virtù del sollevamento di ottenebranti veli, la via, percorribile, di affidabili consapevolezze poetiche.

Non è dato oltrepassare certi confini, ma è possibile riconoscere la presenza degli stessi, è possibile, addirittura, riuscire a non considerarli, in senso stretto, siffatti, giacché strettamente connaturati, intrinseci, a un modo di essere: rigorose prese   d’atto sono in grado di superare ogni giudizio precedente, di condurre a diversi apprezzamenti e, perciò, a nuovi valori.

Con piglio sicuro, dotato di non comune perizia nel muoversi entro spazi linguistici considerati quali àmbiti in cui mettersi in gioco quale (tenace) costruttore di versi, opponendo, così, a qualsiasi altro possibile atteggiamento l’ offerta delle proprie parole e di sé, Campi mostra come le faglie, più delle superfici in apparenza intatte, costituiscano fecondo terreno di poetiche indagini.

Non mancò leggiadro dinamismo.

(Davide Campi, “Bisogni”, in “Anterem” n° 73, pagg. 72-73)

Marco Furia su “La bontà animale” di Alberto Cappi

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La notte nel taschino

“La bontà animale”, di Alberto Cappi, cui i raffinati disegni di Pietro Lenzini aggiungono il fascino di un leggiadro contrappunto, costituisce sequenza di brevi componimenti d’ intensità non comune, poetico frutto di coerenti ricerche svolte per via di un’ opzione linguistica intesa quale strumento evocativo anziché logico-esplicativo.

I lindi accostamenti di parole, collocate con determinazione tale da impedire di immaginarle disposte in diversa maniera, capaci di catturare energia, restituita, con sapiente lavoro, da un suggestivo svolgersi incline ad alludere alle sue magmatiche origini – l’ identica attenzione nei confronti di temi grandi e piccoli, nella consapevolezza dell’ assurdità di qualunque gerarchia istituita tra varie espressioni dell’ esistere – il richiamo, già presente nel titolo, ad una dimensione biologica considerata non limite, ma fecondo àmbito del divenire – un diffuso senso di enigmatica attesa vissuto con profonda accettazione, senza inibire, perciò, altrettanto intensi sentimenti di fiducia – un assiduo rimando, di vocabolo in vocabolo, ad alterità ritenute, piuttosto che separato altrove, parti costitutive dello stesso essere – una grazia accorta, partecipe d’ intendimenti rivolti a trattenere, a evitare anche minime, non consone, tracimazioni, secondo un’ idea di gesto poetico quale istanza dotata di spiccata, rigorosa, autonomia: questi, in sintesi, i componenti precipui di una verseggiatura in cui la mai apatica eleganza delle pronunce risulta sempre attenta, vigile, non certo ignara di come il più scrupoloso controllo sia indispensabile al fine di giungere non tanto a una spiegazione, bensì a una presa d’ atto degli ineffabili fondamenti della lingua.

Tutti, davvero, “abbiamo la nostra notte e/ la teniamo nel taschino”.

(Alberto Cappi, “La bontà animale”, i quaderni del circolo degli artisti, 2006)

Marco Furia su “Interni d’immolazione” di Domenico Cara

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Consci, instabili giorni

“Interni d’ immolazione”, di Domenico Cara, offre al lettore una fitta trama di elaborati versi nel cui àmbito l’ esistente viene considerato, nei dettagli esterni come nelle sensazioni e nei pensieri, secondo multiformi, asimmetrici aspetti.

A contatto con contesti cittadini in via di progressivo degrado, il Nostro, lungi dal reagire operando nella direzione di raccogliere eterogenei materiali al fine di presentarli e abbandonarli alle loro automatiche interazioni, nonché dal rifugiarsi in fallaci speranze opponendo una pur generosa offerta di sé quale dolente, sterile, testimonianza, il Nostro, dicevo, di fronte ai suddetti guasti metropolitani, propone originali scelte poetiche quali possibilità di salvifici percorsi a partire da chiare consapevolezze, frutto di acute riflessioni sull’ umano destino.

Non è tanto l’ implicazione sociale in senso stretto, sebbene avvertita come rilevante, a interessare il poeta, è, piuttosto, la precisa cognizione dell’ inadeguatezza dei quotidiani usi linguistici a costituire, per lui, stimolo: si parla sempre di più, dicendo sempre di meno e la perdita di spessore, d’ incisività, conduce a tediosi appiattimenti che immiseriscono, assieme all’ idioma, l’ esistenza medesima.

Non troppo incline all’ invettiva, Cara svolge la sua versificazione con misurata passionalità, affidando spesso agli aggettivi il compito di riferire su circostanze per nulla serene: ma, se l’ottimismo è bandito, non si assiste a capitolazione.

“E noi attraversiamo dentro fossati una linea / degli enigmi, dove l’ immanenza si fonde al disperso” paiono versi indicativi: non superiamo l’ enigma, non lo sciogliamo, piuttosto lo “attraversiamo dentro fossati”, ossia ne siamo parte, ci confondiamo con esso.

Siffatta consapevolezza può vincere lo sconforto e indurre a continuare: non fittizie illusioni potranno aiutarci, ma perspicue prese d’ atto in grado di favorire l’ emergere di opportuni atteggiamenti.

Con originali, ritmici tocchi consoni a un progetto di grande respiro, abile nel proporre immagini secondo cadenze suggerite da una dovizia di pensieri i cui sbocchi, sulla pagina, risultano sottoposti ad assiduo vaglio, insomma, con la mano ferma e l’ occhio vigile di chi sa come distillare precise indicazioni, Domenico Cara offre un peculiare esempio di zelo poetico, volto, in ultima analisi, a promuovere possibilità di condurre più degne esistenze.

Consci “giorni instabili”, davvero. 

(Domenico Cara, “Interni d’ immolazione”, Edizioni I MUTAMENTI DEL GIALLO, Roma-Milano, 2007)      

Marco Furia su “Lo spostamento degli oggetti” di Alessandro De Francesco

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Passionali oggetti

Con “Lo spostamento degli oggetti”, Alessandro De Francesco sorprende per una spiccata attenzione verso gli oggetti (e i fatti) quotidiani: non si tratta di mero intento denotativo, né di atteggiamento di gusto pop più o meno impegnato, né di surrealismo di maniera (mentre una genuina vena richiamante le idee bretoniane fa capolino qua e là), si tratta, davvero, di (poetica) riflessione sulla vita e sulla morte.

Richiamato Wittgenstein (“Gli oggetti contengono la possibilità di tutte le situazioni”), con citazione posta in corrispondenza della sezione intitolata come l’ intera raccolta, svolgendo, sicuro, suggestive sequenze di elementi diversi concatenati in una sorta di, talvolta spiazzante, eterogenea omogeneità, il Nostro intende mostrare (e vi riesce) che oggetti siamo anche noi, ossia che tra uomini e mondo esistono interscambi continui, incessanti, non rigidi confini:

“ ti cercherò nelle aperture della materia / nelle bolle che s’ incanalano tra gli attimi / mi costruirò la tua presenza”.

Ma, quanto costituisce (enigmatica) vita richiama inevitabilmente il suo termine:

“la fuoriuscita imprevista / dell’ idea di morte quella mattina davanti allo specchio”.

Nemmeno poi tanto “imprevista”, poiché:

“cos’ è la morte    ci sono sempre gli oggetti a ricordarcelo”.

Questa poesia constata, prende atto di uno stato di cose e il dato affettivo, pur manifesto, si presenta non nelle tipiche forme di argomento esterno, bensì quale entità tendente a confondersi con lo stesso discorso.

Ne scaturisce, così, un fecondo esempio di come una versificazione attenta e perfino succinta, priva di sbavature, possa giungere a esiti di alta concentrazione emotiva in virtù di propensioni d’ affetto riferite agli stessi oggetti in quanto osservati e vissuti da un io partecipe, a tratti sofferente.

Oltre le frontiere della vita stessa, certo, non ci si può avventurare e tale assoluta invalicabilità suscita sensazioni e parole intense, non tenui: ebbene, De Francesco riesce a rendere testimonianza del comune, estremo, limite per via di vigili, controllate, scansioni in cui nondimeno l’ apatia, per originali vie interne alla lingua, risulta senza riserve bandita.

Gli oggetti, davvero, dicono: il poeta sa ascoltarli.

(Alessandro De Francesco, “Lo spostamento degli oggetti”, Opera prima, Cierre   Grafica, Verona, 2008)

Marco Furia su “Mimi e sonnambuli” di Vincenzo Di Oronzo

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Obliquo oboe

Conscio dell’ ambiguità insita nella comunicazione linguistica, nonché dell’ umana attitudine allo scambio idiomatico, Vincenzo Di Oronzo, con “Mimi e sonnambuli”, offre una raccolta di versi in cui vividi impulsi verbali ispirano pronunce rigorose e calibrate, quasi a contenere (suggestive) fughe dal senso presenti, con evidenza,  nello stesso accostamento delle parole (“Abiti vuoti si accoppiano in ottagoni blu”).

Né mancano laconici richiami allo svolgersi di azioni in apparenza quotidiane (“Questo scorrere di cani bianchi al guinzaglio”), toni di stampo espressionista (per esempio il martellante ripetersi, nella poesia che inizia con il verso appena ricordato, dell’ aggettivo dimostrativo “Questo”), cortocircuiti linguistici tali da rivelare inclinazioni a definire, chiarire, un urgere intenso, non represso, destinato a rimanere entro enigmatici àmbiti (“I visitatori seduti/ Sulle panchine barocche”), tratti di liricità vivace, mai debordante, dagli esiti addirittura denotativi (“Bagliori di sandali/ Le ragazze oscillanti nella sera”), echi di fenomeni naturali riportati sulla pagina con evocativi, affascinanti, effetti (“Vuoti di vento”).

Il tutto a mezzo tocchi decisi, eleganti, capaci di suggerire la presenza di una ineffabile entità, ìndici di ostinate scelte espressive nel dipanarsi di esistenze in cui “Dentro” e “Fuori” risultano distinti quanto fusi e “Un oboe obliquo” è “la mente”.

Di allusiva leggiadrìa l’ immagine proposta in copertina da Bruno Conte.

(Vincenzo Di Oronzo, “Mimi e sonnambuli”, Edizioni Empirìa, Roma, 2007)

Marco Furia su “attraverso interni” di Daniela Cabrini

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Vitali soffi

Avvertibile, “vitale il soffio” spira assiduo sulle intense pagine della raccolta “attraverso interni” di Daniela Cabrini, le cui nitide scansioni, frutto di attenta, appassionata ricerca, inducono davvero a (pregnante) riflettere.

Se non si possono violare certe estreme frontiere idiomatiche, si può essere in grado, tuttavia, di offrire un linguaggio proprio, diverso, capace di meglio riferirsi a vividi impulsi non assoggettabili a esegèsi, ma, almeno, suscettibili di evocazione secondo specifiche modalità disposte ad accettare un senso differente, promuovendo quella peculiare specie di rapporto comunicativo tipico della poesia.

Consapevole di ciò, la nostra poetessa, lungi dal rinunciare al dire, confida senza riserve nell’espressione verbale, tanto da proporne una qualità del tutto inedita: non si rassegna, insomma, di fronte agli eventi massimi e minimi del quotidiano stare al mondo e, quasi ingaggiando con essi linguistiche battaglie, evita di affidarsi a ulteriori inelastici modelli, presentando, sicura, eleganti opzioni aperte, tali da mostrare come la lingua possa ben differire da viete concatenazioni.

C’è una risposta, una via percorribile.

Se “così io parlo e tu rispondi ma le parole / pedine di due distinte scacchiere a caso / si fondono in un gioco senza significato” e se “troppo presto rincorrere una voce / male udita è troppo facile”, non certo l’ indifferenza e il pessimismo dovranno prevalere, poiché una via di scampo esiste: è il gesto creativo capace di avvicinare poeti, artisti e scienziati agli altri individui, in quanto inaugura una condizione specifica non aliena dal legare, anche con persistenza, tutti coloro i quali si trovano a essere, a qualunque titolo, coinvolti.

Con accenti limpidi, tali da offrire, risoluta e precisa, sorprendenti combinazioni verbali senza mai deflettere dal rivolgersi a un quid avvertito come assiduo e ineffabile, fiduciosa in un gesto poetico teso a rendere testimonianza e, nel contempo, a mostrare una direzione lungo cui procedere, Daniela Cabrini, accostando, spontanea, immagini del tutto quotidiane (“caffè tra noi”) ad altre, per così dire astratte, ricche di suggestiva incisività poetica (“il tempo mescola cerchi concentrici”), Daniela, dicevo, induce a seguire affascinanti itinerari nel cui inconfondibile àmbito l'atto del conoscere risulta più prossimo al gesto, al modo di essere, che al discorso raziocinante.

Esiste miglior maniera, per “chi vive”, di sopravvivere “allo spavento”? 

(Daniela Cabrini, “attraverso interni”, Lieto Colle, 2007)

Marco Furia su “Il bene della vista” di Mauro Ferrari

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Pensarsi liquidi

Con “Il bene della vista”, Mauro Ferrari presenta una strutturata, ma fluida, raccolta nel cui àmbito l’itinerario realtà – poesia è percorso, nel contempo, in tutti e due i sensi, secondo un’idea di versificazione non disgiunta dalle comuni modalità dell’esistere, bensì alle medesime connessa in maniera indissolubile.

Un intento come il suo, mirante, per empatia, a rendere maggiormente partecipi e consapevoli, non può non muovere da origini di vera e propria passione civile: spetta alla lingua poetica denotare, soffermarsi e, con i suoi slanci, con le sue pregnanti immagini, porre meglio l’ accento su quanto avviene, su quanto ci circonda, ossia sulla nostra stessa vita.

Un vita che, intesa, senza riserve, quale unitaria oltre ogni schema, ogni paradigma o concetto, emerge sempre, anzi nemmeno emerge, è già.

Il mezzo espressivo adatto a questi scopi deve uscire dai modelli d’uso comune, spesso ridotti a meccaniche sequele prive di originalità e incapaci di suscitare interesse, deve, cioè, mettersi in condizione di rendere perspicuo quanto ci circonda, ciò in cui siamo immersi, aiutandoci a capire quello che siamo: non occorre (nessuno, nemmeno il poeta, lo potrebbe) sciogliere l’enigma, ma renderne chiara testimonianza, così da sapersi meglio muovere in e con esso, procedendo nella nostra umana condizione.

Occorre, come il Nostro, pensarsi, sentirsi, liquidi, fluidi, sciolti nell’esistenza per coglierne gli aspetti anche meno evidenti o, meglio, per illuminarli con i raggi repentini e persistenti di un divenire poetico in grado di farci scoprire, alla fine, che quelle sembianze non erano poi tanto celate, ma si trovavano lì, disponibili a essere oggetto di uno sguardo più penetrante.

Con versi ordinati e vivaci, attenti a quanto è minuto come a quanto costituisce avvenimento di notevole rilevanza storica, sapienti nel rendere conto di ambedue le dimensioni senza mai cadere in retoriche di tipo crepuscolare o meramente celebrativo, svolgendo, coerente, una poesia tale da offrirsi al lettore senza mai cedere nulla quanto a precipua originalità, insomma con il (risoluto) riguardo tipico di chi, sicuro, non sente la necessità di ricorrere ad alcun artificio, Mauro Ferrari convince per la propensione a rendere sulla pagina dimensioni individuali e collettive non dissociate, coese proprio a partire dagli infiniti elementi che le costituiscono.

Furono, davvero, umani versi. 

(Mauro Ferrari, “Il bene della vista”, Edizioni Joker, Novi Ligure, 2006)  

Marco Furia su “Quantum poem” di Shigeru Matsui

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Quantum Poem

“Quantum Poem”, di Shigeru Matsui, si presenta già a prima vista quale linguaggio: i segmenti, uniti o meno, formanti, talora, strane figure geometriche, disposti secondo un andamento simile a moti ondosi scomposti in schemi lineari, inducono a pensare a un idioma.

Un linguaggio, dunque: ma non veicolante significato nel senso comune del termine.

La lingua quotidiana, certo, nulla pare possedere di arcano: tutto sembra filare via liscio nell’àmbito di normali processi comunicativi condivisi da una comunità attenta al rispetto di regole.

Ma, a chiedersi come questo complesso reticolato si sia andato formando, come taluni impulsi ne provochino l’assiduo uso, quale sia la sua, non soltanto storica, origine, cioè quale energia induca ogni parlante a rompere, più o meno spesso, il silenzio – a porsi, dicevo, tali (e altri) quesiti, compaiono in risposta vivide entità del tutto enigmatiche.

Troviamo tali entità alle radici del gesto di Shigeru Matsui?

La risposta è positiva.

Non si tratta, nel caso in esame, di successioni originate da un autocompiacimento fine a sé medesimo o, peggio, della caduta in sterili intenti decorativi, bensì della messa in atto, della costruzione secondo fattezze non certo ordinarie, di espressioni articolate.

L’ esclusivo uso di tratti (segmenti rettilinei), dissimili soltanto nelle dimensioni, rende lecito pensare a elementi costitutivi non casuali, frutto di precise scelte tese a porre in essere griglie idiomatiche complesse e unitarie, capaci di attrarre proprio in virtù delle loro affascinanti strategie compositive.

La nostra comunità, senza dubbio, non parla quella lingua, ma questa è caratteristica che accomuna tutta la poesia: il poeta opera sempre uno scarto, la cui mancanza annullerebbe la versificazione stessa.

Quanto, poi, ai 347 testi, risulta impossibile resistere alla tentazione di osservarli concentrandosi su ciascuno o anche scorrendoli velocemente, di seguirli secondo l’ ordine numerico o per salti, come sollecitando i meccanismi di uno strumento poco conosciuto per verificare se sia affidabile.

Un’ affidabilità che, alla fine, scaturisce proprio dall’ avere così operato, ossia dall’ essere divenuti consapevoli di un’ originale consistenza espressiva, familiarizzando con essa.

Ancora una volta, insomma, un artista della parola e del tratto, un vero cultore della visual poetry, riesce a sorprendere e a indurre a riflettere: thank you, poet.

(Shigeru Matsui, “Quantum Poem”, Aloalo International, Tokyo, 2007)

Una poetessa dentro la cronaca nera: La vita e l'opera di Delmira Agustini (1886-1914) raccontate da Enrico Pietrangeli

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Una storia di cento anni fa, dall’altra parte del mondo. La vita, l’opera e le immagini della poetessa Delmira Agustini (Uruguay, 1886-1914) raccontate da Enrico Pietrangeli

La bibliografia

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DELMIRA AGUSTINI   [1886 – 1914]  BIBLIOGRAFIA 

Opere: 

El libro blanco (Frágil). Montevideo: O.M.Bertani -1907

Cantos de la mañana. Montevideo: O.M.Bertani - 1910

Los cálices vacíos. Montevideo: O.M.Bertani – 1913

Parra del Riego, Juan, Antolog?a de Poetisas Americanas

Claudio Garcia, editor. Montevideo. 1923. P?ginas 27-52.

Obras Completas - Tomo I - El rosario de Eros 
Maximino Garcia, Editor. Montevideo. – 1924

Obras Completas - Tomo II - Los Astros del Abismo 
Maximino Garcia, Editor. Montevideo. 1924.

Obras poéticas. Ed. Raúl Montero Bustamante. Montevideo: Edición Oficial, 1940.

Delmira Agustini, Editorial Ceibo. Montevideo, Uruguay. 1944.

Correspondencia íntima. Ed. Arturo Sergio Visca. Montevideo: Biblioteca Nacional, 1969.

Poesías Completas. Ed. Magdalena García Pinto. Madrid: Cátedra, 1993.

Poesías Completas. Ed. Alejandro Cáceres. Montevideo: Ediciones de la Plaza, 1999.  

Crítica: 

Burt, John R. "The Personalization of Classical Myth in Delmira Agustini." Crítica Hispánica 9.1-2 (1987): 115-124.

Escaja, Tina. Salomé Decapitada: Mujer y representación finisecular en la poesía de Delmira Agustini. Amsterdam: Rodopi, 2001.

Horno Delgado, Asunción. "Ojos que me reflejan: poesía autobiográfica de Delmira Agustini." Letras Femeninas. 16.1-2 (1990): 101-11.

Kirkpatrick, Gwen. "The Limits of Modernismo, Delmira Agustini y Julio Herrera y Reissig." Romance Quarterly 36.3 (1989): 307-14.

Machado de Benvenuto, Ofelia. Delmira Agustini. Montevideo: Ceibo, 1944.

Molloy, Sylvia. "Dos lecturas del cisne: Rubén Darío y Delmira Agustini." La sartén por el mango. República Dominicana: Huracán, 1985. 57-69.

Prego, Omar. Delmira. Buenos Aires: Alfaguara, 1998.

Renfrew, Nydia Ileana. La imaginación en la obra de Delmira Agustini. Montevideo: Letras Femeninas, 1987.

Rodríguez Monegal, Emir. Sexo y poesía en el 900 uruguayo. Los extraños destinos de Roberto y Delmira. Montevideo: Alfa, 1969.

Silva, Clara. Genio y figura de Delmira Agustini. Buenos Aires: Editorial Universitaria, 1968.

Stephens, Doris T. Delmira Agustini and the Quest for Transcendence. Montevideo: Géminis, 1975.

Varas, Patricia. "Modernism or Modernismo? Delmira Agustini and the Gendering of Turn-of-the-Century Spanish-American Poetry." Modernism, Gender and Culture. A Cultural Studies Approach. Ed. Lisa Rado. New York and London: Garland, 1997. 149-60.

VVAA. Delmira Agustini. Nuevas penetraciones críticas. Uruguay Cortazzo coo. Montevideo: Vintén Ed., 1996.

Delmira Agustini y el modernismo: Nuevas propuestas de género. Ed. Tina Escaja. Buenos Aires: Beatriz Viterbo, 2000.

La copertina di “Los càlices vacìos”

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La copertina di “Los càlices vacìos”
La copertina di “Los càlices vacìos”

Una poetessa dentro la cronaca nera

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DELMIRA AGUSTINI   [1886 – 1914]  di Enrico Pietrangeli - 2006

L’Uruguay: l’altra parte del globo, eco risorgimentale di tempi eroici per “due mondi” campioni, ma solo con la Rimet, rispettivamente nel ’30 e nel ’34. Primo novecento: il presidente Ordoñez è in carica e, nell’ultimo lustro (1911-’15), anche il “batllismo” ha contribuito a rendere questa terra in qualche modo illustre. Numerose leggi sociali sono state già promulgate e, a tutti gli effetti, l’Uruguay diviene il paese più progressista d’America. Otto ore lavorative conseguite nel 1915 e previdenza sociale, incluso per indigenti, approvata nel ’19. Governa un partito “Colorado” non privo di riferimenti al socialismo, ma anche liberale, di tendenza laica ed anticlericale, prossimo agli interessi della borghesia urbana. I “Blancos”, nel locale bipartitismo, sono l’opposizione storicamente legata al latifondo e principi conservatori. Partiti minori, come quello Socialista e l’Unione Civica, pur costituendosi da inizio secolo, qui non avranno mai un consistente seguito. Una legislazione della famiglia all’avanguardia, con l’introduzione dello strumento del divorzio fin dal 1907, è una realtà già tangibile in questo paese. Il 5 giugno del 1914 Delmira Agustini ottiene un pronunciamento di sentenza e, da quel momento, Enrique Job Reyes diventerà il suo ex marito. Lo stesso mese, il 29, avviene l’attentato di Serajevo e la conseguente prima guerra mondiale. Una settimana dopo, il 6 luglio, a Montevideo è una sera come le altre che vede Delmira dileguarsi, col favore della penombra, sulla Calle San Josè, dove era tornata a risiedere con i genitori. Un passo sostenuto, a tratti affrettato; va, a testa bassa, decisa, con un’espressione malinconica ed incompresa stampata sul volto, in un rituale che sembrerebbe essere stato già consumato molte altre volte. Traversa tre isolati, poi volta sulla Calle des Andes e s’intrufola in uno stabile, luogo di un probabile appuntamento. Di lì, non ne uscirà più viva. Poco più tardi, una sequenza di spari richiamerà l’altrui attenzione: scatta l’allarme. Giungono sul posto autorità e stampa. E’ nuda, prossima al letto, con le calze ancora scese; capace ancora, per i tempi, di suscitare meraviglia e scandalo. Enrique, trovato in fin di vita insieme a lei, non c’è più, è stato portato d’urgenza all’ospedale, dove morirà un paio d’ore più tardi. Resta Delmira, sul pavimento, freddata con due colpi in testa all’istante: la sua foto subito immortalata dai giornali. “Dramma orribile e strano” è il commento nello sgomento dell’epoca per il fatto e disorientati si resta anche oggigiorno per talune conclusioni improntate dai cronisti: “I due si amavano, erano la coppia ideale”, suona, a dir poco, retorico ai nostri tempi. Inoltre, scartabellando scartoffie, si scopre che il divorzio è stato da lei richiesto poco dopo il matrimonio e con procedura d’urgenza per “agravios graves”. Delmira conosce Enrique a ventidue anni, una relazione che dopo un quinquennio culmina con un matrimonio, separazione e divorzio, pronunciato dopo appena sei mesi. Sua madre, per la cronaca, è contraria alle nozze. La coppia, in ogni caso, continua a vedersi clandestinamente durante tutto il periodo del processo. Stesso grado sociale, ambedue provenienti da famiglie borghesi ed agiate ma, mentre Delmira va sempre più affermandosi come poetessa di gran talento tra gli intellettuali dell’epoca, Enrique è tacciato di essere poco incline al mondo artistico e lei stessa, separandosi, lo definirà un “vulgar”. Ipotizzabile, come del resto hanno concluso in molti, che il movente sia la gelosia. Di certo vivevano grandi difficoltà nel loro rapporto amoroso e, forse, il “vulgar” aveva tanta sensibilità che non riusciva a trovare comprensione nei suoi confronti. In una lettera di Delmira, emergono i ricordi di come lui si oppose a possederla, quando fu lei a proporglielo. Uomo, in ogni caso, di un altro secolo, un sanguigno appassionato in una Montevideo che, nel non lontano 1995, Sandro Veronesi percepiva ancora in una “concezione orgogliosamente antimoderna della dinamica sociale, fatalista, quasi risorgimentale”. Nessuno ha potuto confermare appuntamenti di Delmira con altri uomini oltre a quelli con Enrique, il tutto limitato alla deduzione che, se fosse successo, la stampa lo avrebbe diffuso. Ma avrebbe mai permesso una famiglia importante, come quella di Delmira, una cosa del genere? Lei, non aveva di certo mancanza di pretendenti, aveva una grazia tale da abbagliare gli uomini, oltre indiscusse doti di comunicazione. Di fatto, Manuel Ugarte, scrittore argentino, viaggiatore e a sua volta seduttore, nel 1913 soggiorna a Montevideo e si vede con lei. In agosto partecipa, insieme ad altri intellettuali, alla cerimonia nuziale e come testimone della sposa. Di lui, con il quale mantiene fitta corrispondenza, Delmira confiderà più tardi a Dario, padre del modernismo ed amico di entrambi, che è stato il tormento della sua prima notte di nozze. Molte delle lettere inviate da Delmira ad Ugarte sono andate perse privandoci per sempre d’importanti documenti. Taluni affermano distrutte dalla moglie di Manuel. Alberto Zum Felde non ha dubbi e la dichiara casta per tutta la vita precisando che “mai nessun altro uomo, oltre suo marito, ha avuto tratti carnali con lei”. Carlos Vaz Ferriera si limita a commentare: “com’è arrivata a sapere come a sentire quanto ha messo in certe pagine è qualcosa di completamente inesplicabile”. Resta l’ipotesi di una probabile relazione frustrata e tracce di reticenza da parte di Ugarte, uno spirito avventuriero che sembrerebbe non volersi troppo compromettere. A proposito di gelosia, tarli, fantasmi o presunti tali, nel 1882, in uno dei suoi più bei racconti intitolato “Le fou”, Maupassant scriveva: “Ero geloso, ora, del cavallo muscoloso e veloce, geloso del vento che le accarezzava il viso quando andava di corsa pazza; geloso delle foglie che baciavano, passando, i suoi orecchi; delle gocce di sole che le cadevano sulla fronte attraverso i rami; geloso della sella che la portava e che stringeva con le cosce”. Ma torniamo ancora più indietro, Delmira lascia un altro uomo, Amancio Sollers, per iniziare il suo fidanzamento con Enrique che, da quanto si evince dalle sue lettere a Dario, sembrerebbe non coinvolgerla troppo. Poi, durante il divorzio, nella corrispondenza come nelle poesie, trapela un forte trasporto, si notano timori e coinvolgimenti, tutti incentrati sulla sua vita privata. L’amore, attraverso una passione ardente e controversa per Enrique, sembrerebbe venir fuori alla fine, trasformando suo marito in un amante attraverso incontri clandestini. Maupassant, il suo risvolto novellistico, lo descrive così: “gli avvicinai la canna della pistola all’orecchio… e lo uccisi… come un uomo. Ma caddi io stesso, con il viso sferzato da due colpi di scudiscio; e poiché ella si avventava di nuovo contro di me, la colpii nel ventre con l’altra pallottola che restava. Ditemi, sono pazzo?”. E’ la morte che giunge restando sospesa tra la crudezza degli eventi ed un mondo visionario, sensuale e lirico. Una morte a lungo sedimentata nella ragione, come nella brama, di una coraggiosa ricerca dell’amore, quello più completo, tanto viscerale quanto etereo, comunque perfetto.   
 
 
 

DELMIRA AGUSTINI   [1886 – 1914]  di Enrico Pietrangeli - 2006

Un’esistenza dissociata nella poesia   [2° parte] 

L’Uruguay, molto prima del resto del mondo, accetta il divorzio, il rispetto per la dignità della donna (nel ’38, mentre noi vinciamo il secondo “mondiale”, qui le donne vanno a votare) ed una più ampia tolleranza verso il prossimo ma resta, tuttora, un paese relativamente piccolo e con qualcosa di conservatore. La famiglia di Delmira, al di là del fatto di essere altolocata e di principi moderati nella Montevideo dell’epoca, adora “la nena”, appellativo preservato da Delmira anche crescendo, e non c’è cosa che le impedisca di fare. Ma “la nena” si direbbe anche ubbidiente: è la bambina di casa in una famiglia funzionale e stabile. Il padre si occupa, prevalentemente, di mantenere una posizione benestante, mentre la madre s’inorgoglisce in un’idolatria verso la figlia, in un rapporto che, inevitabilmente, crea dipendenza tra le due. Personalità protettrice e dominante è la figura materna mentre, puritanesimo e rettitudine, caratterizzano il padre. Rinchiusa nella comoda vita famigliare, rispettata nei suoi isolamenti di poeta, l’educazione avviene all’interno del nucleo famigliare. È la madre che provvede all’educazione basica della figlia. Il padre la istruisce in musica e pittura. Vive così lontano da una vita di relazioni sociali, senza andare a scuola e giocare con altri bambini. Inizia a prendere lezioni esterne soltanto con l’adolescenza, specializzandosi in francese, musica e pittura. Affettuosa ed incline alla malinconia, è una bambina bella, bionda e con due occhi chiari, intensi ed espressivi che, stando alle testimonianze di taluni, assumono colorazioni dal celeste al verde secondo la luce. Scriveva fin da allora, sotto la rigida vigilanza della madre che, oltre ad essere autoritaria, aveva risvolti morbosi di gelosia nei confronti della figlia. Sembra che sia il padre a ricopiare, con pazienza, i disordinati quaderni de “la nena”. Nel tempo si ritroverà a trascrivere i versi sempre più erotici che Delmira man mano compone. Ma “la nena” cresce e, oltre ad essere intelligente e colta, assume anche un aspetto sempre più attraente, marcatamente sensuale. Ha un corpo appariscente e, soprattutto, uno sguardo carico di erotismo, tanto da risultare imbarazzante e mettere in soggezione persino i genitori che non potevano, di certo, ignorarlo. Alejandro Caceres insinua un progetto famigliare corredato di particolari consegne per prendersi cura della figlia prodigio e che includeva, tra le altre, pratiche anticoncezionali. Silvia Molloy commenta l’infantilismo deliberato che l’autrice utilizza come maschera di convenienza e protezione. Martin Lopez, il suo insegnante di musica, ci conferma che era sottomessa a sua madre da sembrarne incatenata. Alberto Zum Felde afferma che, in presenza della madre, si mostrava ricattata ed esemplare cambiando completamente attitudini quando se ne andava. Non si può dire, quindi, che viva in un’urna di cristallo, ci risulta che ha rapporti con sue coetanee, mantiene un’amicizia personale con la scrittrice Maria Eugenia Vaz Ferriera e corrispondenza con diversi altri letterati contemporanei tra cui Ruben Dario, che poi conoscerà personalmente. “La nena”, che non verrà mai meno, risponde agli schemi della società del momento ed è una forma che Delmira preserva nella vita privata, mentre, dall’altra, la scrittrice si cimenta piuttosto esplicitamente in tematiche sessuali. Si comporta molto diversamente da quanto espone nei suoi versi, perlomeno così lascia intendere. La critica del tempo, non a caso, ha in qualche modo velato questa sessualità che si pretende inesistente per le donne dell’epoca. Nel tempo, molti studiosi asseriscono che Delmira aveva una doppia personalità, alcuni addirittura multiple. Ofelia Machado, in uno studio pubblicato nel 1944, realizza ricerche e raccoglie testimonianze tra le persone che hanno avuto contati con lei. Tutto sembrerebbe coincidere in un modello esemplare dalla condotta impeccabile: amabile, rispettosa, attenta e cordiale, simpatica e brillante ma senza essere provocatoria. Stando a quanto fin ora riportato, viene naturale, al giorno d’oggi, interpretare il suo erotismo come un desiderio frustrato, frutto di passioni amorose inappagate. Raramente, nelle sue poesie, possiamo identificare un uomo, un volto, un’identità definita; qualcuno ha cercato di spiegarlo in un amante ideale ed astratto. E’ la poesia, in ogni caso, a dominarla: una forma mistica del desiderio esposta con destrezza allegorica, qualcosa che una donna doveva, per forza di cose, imparare in quei tempi. Convive in lei un erotismo poetico che non corrisponde all’immagine della bambina cresciuta, quella inibita dalla forte pressione famigliare, soprattutto da quella che la vede assoggettata alla figura materna. “La nena” si direbbe anche donna ed impiega immagini audaci e davvero poco convenzionali per lasciarcelo intendere, immagini che manifestano i suoi impulsi amorosi, in forma attiva, identificandosi perciò all’uomo. Ma “La nena” non interagisce soltanto con i genitori, poiché è in questa veste che è solita relazionarsi anche con Enrique, suo marito. Lui vive la Delmira che gli scrive lettere utilizzando espressioni puerili, ma ignorando, probabilmente, l’altro aspetto della sua personalità, quello che sopravvive, tormentato ed intellettuale. E’ quello della donna che scrive poesie e si confronta con diversi artisti e critici dell’epoca (Ruben Dario è il prediletto, in quanto da lei considerato suo maestro); dove la forma con cui si esprime scorre in uno stile più attento e profondo rispetto l’altro, vezzoso ed infantile. “La nena”, sottomessa ed affabile, e la donna, ardimentosa e libera. La sua è una vita scissa, una dicotomia tra una condotta irreprensibile e l’altro aspetto, quello innovativo ed inquietante, fatto di celebrazione erotica nella poesia; un dualismo che si riscontra nell’intimo, in pulsioni condivise e osteggiate tra corpo ed anima e nelle quali si ritrova impigliata senza trovare un equilibrio. La sua è un’esistenza dissociata nella poesia, una poesia pregna d’immagini che riflettono contraddizioni: domina una costante lotta interiore, si vive in una ragione opposta al sentimento, in un piacere tanto estatico quanto carnale ma mai disgiunto dal dolore. “Riposa del suo fuoco, si purifica della sua fiamma” sono le parole con cui la salutò Alfonsina Storni, allora ventiduenne, in occasione della sua morte. “Preferirei quasi che non scrivesse” è un significativo commento, o strano presagio che si voglia, attribuito alla madre.  
 
 

DELMIRA AGUSTINI   [1886 – 1914]  di Enrico Pietrangeli - 2006

Un caso nella poesia ispanoamericana  [3° parte]   

L’Uruguay, attraverso la figura di Delmira Agustini, apporta nuova linfa al contesto letterario ispanoamericano, è il paese dove si ravvisano i primi palesi tratti erotici nella poesia femminile. E’ qui che si rende possibile quel substrato culturale, contraddittorio ma permeabile, affinché un personaggio come lei prenda consistenza. Icona di progresso, emancipazione ed indipendenza, nondimeno femminile, fragile e sensibile; è considerata una delle più straordinarie voci tra le donne e non solo della modernità latinoamericana. Per la cronaca, da noi le donne nel ’46 andranno a votare, mentre per i “mondiali” gli uruguaiani dovranno attendere quelli del ’50 (strano intreccio compartito tra “due mondi” quello delle prime quattro edizioni della coppa Rimet). E’ Ruben Dario in persona a dare solennità al caso Agustini e, nel ’12, durante il suo soggiorno a Montevideo, commenta a tal proposito: “Tra quante donne oggi scrivono in versi, nessuna mi ha impressionato nello spirito come Delmira Agustini, per la sua anima senza veli ed il suo cuore in fiore. E’ la prima volta che compare in lingua spagnola un’anima femminile nell’orgoglio della verità della sua innocenza e del suo amore, per non essere Santa Teresa, nella sua esaltazione divina”. Con “Los calices vacios”, ultimo libro pubblicato in vita da Delmira, lo stesso Dario curerà l’introduzione ribadendo l’aspetto mistico del suo erotismo e sottolineandone lo spessore quale raro esempio d’intuizione e genialità. Sono versi “ sinceri e poco meditati” è la definizione che ne dà la stessa Delmira in una nota alla prima edizione del ’13. Arturo Sergio Visca, a proposito della sua scrittura, ci dice: “la sua non era una poesia mistica, bensì di sesso puro". Alberto Zum Felze, che realizza uno studio critico per l’edizione completa delle sue poesie, nega sensualità alla poetica dell’autrice definendola intollerabile i tempi. Sostiene che, chi vede in Delmira soltanto una poesia erotica, è preda di un grosso errore; nei suoi versi c’è un profondo erotismo, ma che trascende la carne come pure la comprende. Al di là delle interpretazioni, c’è una mistica del sesso che riporta alla memoria Anaïs Nin: tutta la volontà di affrontare e determinare il proprio destino di donna e artista dando coraggiosamente forma all’irrazionale, liberandosi da falsità e convenzioni. Ma qui siamo già nel pieno del ventesimo secolo e, attraverso il femminismo, cadono, palesemente, veli ed allegorie. L’autrice, pur essendo saldamente ancorata a valori e riferimenti del modernismo, risente di certi modelli europei formativi, soprattutto francesi, e di un linguaggio “intossicato” dal romanticismo, dove l’erotismo libera spirito e corpo superando i limiti della ricerca vincolata al solo divino, al puro ideale. Il fenomeno modernista, perseguendo un desiderio di conoscenza della realtà attraverso la rivelazione delle forme ed interpretandone allo stesso tempo il mistero, è un percorso che agevola e sviluppa fortemente la trascendenza nel dialogo tra carnalità e spiritualità intrapresa dall’Agustini. El libro blanco (Frágil) e Cantos de la mañana, rispettivamente del 1907 e del ’10, sono gli altri due precedenti libri pubblicati da lei in vita. Molte delle poesie contenute in queste raccolte sono già uscite su riviste ed alcune sono state già tradotte anche in francese. Ma è nel 1902 che Delmira inizia la sua attività artistica attraverso la rivista “La alborada”, dove tiene una rubrica scrivendo sotto pseudonimo di Joujou. Ha solo sedici anni, ma inizia toccando subito temi sociali, come quella del distacco delle donne dal mondo culturale (altro argomento tanto caro ad Anaïs Nin in tempi più recenti). La sua è, indubbiamente, una famiglia borghese colta, in grado di darle supporto e strumenti fin dalla più tenera età, e che, come per gran parte della popolazione dell’area, è di origini miste con ascendenze italiane. Nello specifico, ci sono tracce di un nonno francese, l’altro tedesco, mentre le due nonne sono già considerate come uruguaiane e la madre ha sangue argentino. Era solita comporre di notte, al lume di una candela o nel parco, dove si recava a passeggio oppure mentre suonava il piano, testimonianza, quest’ultima, resa a Machado dal fratello, unico e di cinque anni più grande di lei. Dieci anni dopo la sua morte, nel 1924, Maximino Garcia, amico di famiglia, pubblica due volumi inediti: “El rosario de Eros” e “Los Astros del Abismo”.Nell’edizione de “El rosario de Eros” l’editore include un racconto sulla vita di Delmira intitolato “Rumbo”, dove si limita certa propensione all’esagerazione sentimentale e che, apparentemente, si direbbe redatto dalla famiglia. Sia come donna che come poeta, tutto converge in un'unica ricerca, affrontata oltre ogni limite e ragionevole rischio, tanto da trovare una tragica morte ad attenderla nel suo cammino, e questo “tutto”, per lei, altro non era che l’amore. Aveva nella sua anima un’ansia della conquista dell’inconquistabile, il desiderio di un amore perfetto, abbagliante. “Tu che puoi tutto di me / In me devi essere Dio!” sono versi di una donna che potrebbe rivolgersi a Dio come se fosse un uomo e ad un uomo come se fosse Dio. Sono tematiche che non la vedono per niente così lontana, se non geograficamente, dalla mistica di Rumi, il quale osa rappresentare Dio come “Sposa” mettendoci però anche in guardia dalla misteriosa, totale ed assoluta forza che l’amore è capace di sprigionare. Delmira celebra il mistero dell’erotismo, traversa le paludi di un antico binomio: amore e morte. Vive con dolore il desiderio amoroso, una frustrazione che l’accomuna con l’antico modello di Saffo. Lambisce, più che conseguire, un livello mistico per un’innocente predisposizione del suo cuore ma, tuttavia, n’è a sua volta vittima in una follia intima ed implosiva, in tutto il masochismo che asseconda nel tentativo assoluto di conseguire amore. Eros, non a caso, viene da lei definito “padre cieco” e finisce col manifestarsi come una drammatica rivelazione. In “Otra estirpe” ci sono immagini forti, che scorrono attraverso la fisicità ed i relativi simboli, con piene allusioni ad un corpo ardente di passione, trasgressione e voluttuosità espressa nel linguaggio degli uomini, una linea che vedrà poi scrittrici come Juana de Ibarbourou (oltremodo Delmira è considerata anticipatrice delle tematiche del postmodernismo) ma anche Sylvia Plath e la stessa Sexton… Passione che, nondimeno, è espressa con un ideale d’innocenza, come nel caso di “En silencio”, aspersa tra i sogni, per infonderci della sacra ebbrezza (“La miel”) ma che è anche regale e oscura, progenie di una specie che si nutre di pianto (“El vampiro”). Valutare i confini tra la sua esperienza carnale e l’erotismo fantasticato, è argomento lontano dal nostro attuale mondo e modo di pensare, quindi da percepire in quel contesto, nell’alone di leggenda che quei tempi hanno reso comunque possibile. Resta, dopotutto, quel che doveva restare: i suoi versi, mai logori al di là del tempo, sempre sublimi e disarmanti, qualcosa di misterioso e che non si potrà mai fino in fondo spiegare. Resta una spontanea grazia devoluta in tutta la sua ossessione erotica, la memoria di una donna molto audace, un’anima tempestosa e spettacolare, capace di portare alla luce il più remoto intimo rendendone partecipe il lettore.

Le poesie, con testo originale

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Le poesie di Delmira Agistini


¡Ven dolor! 
¡Golpéame, dolor! Tu ala de cuervo  
bate sobre mi frente y la azucena  
de mi alma estremece, que más buena  
me sentiré bajo tu golpe acerbo. 
 
Derrámate en mi ser, ponte en mi verbo,  
dilúyete en el cauce de mi vena  
y arrástrame impasible a la condena  
de atarme a tu cadalso como un siervo. 
 
No tengas compasión. ¡Clava tu dardo!  
De la sangre que brote yo haré un bardo 
que cantará a tu dardo una elegía. 
 
Mi alma será el cantor y tu aletazo  
será el germen caído en el regazo  
de la tierra en que brota mi poesía. 
 

Vieni dolore! 

Colpiscimi, dolore! La tua ala di corvo

percuote la mia fronte e il giglio

della mia anima rabbrividisce, meglio

mi sentirò colta dal tuo aspro pugno. 


Versati nel mio essere, entra nel mio verbo,

disciogliti nell’alveo della mia vena

e trascinami impassibile alla condanna

di legarmi al tuo patibolo come un servo. 


Non avere pietà. Conficca il tuo dardo!

Del sangue che sgorga farò un bardo

che canterà un’elegia alla tua freccia. 


Sarà la mia anima il poeta e la tua ala,

vibrando, sarà il germe caduto nel grembo

della terra, laddove germoglia la mia poesia.


La copa del amor

¡Bebamos juntos en la copa egregia!

Raro licor se ofrenda a nuestras almas,

¡Abran mis rosas su frescura regia

a la sombra indeleble de tus palmas! 


Tú despertaste mi alma adormecida

en la tumba silente de las horas;

a ti la primer sangre de mi vida

¡En los vasos de luz de mis auroras! 


¡Ah! tu voz vino a recamar de oro

mis lóbregos silencios; tú rompiste

el gran hilo de perlas de mi lloro,

y al sol naciente mi horizonte abriste. 


Por ti, en mi oriente nocturnal, la aurora

tendió el temblor rosado de su tul;

así en las sombras de la vida ahora,

yo te abro el alma como un cielo azul. 


¡Ah, yo me siento abrir como una rosa!

Ven a beber mis mieles soberanas:

¡yo soy la copa del amor pomposa

que engarzará en tus manos sobrehumanas! 


La copa erige su esplendor de llama...

¡Con qué hechizo en tus manos brillaría!

Su misteriosa exquisitez reclama

dedos de ensueño y labios de armonía. 

Tómala y bebe, que la gloria dora

el idilio de luz de nuestras almas;

¡marchítense las rosas de mi aurora

a la sombra indeleble de tus palmas!


Il calice dell’amore

Inebriamoci, uniti nell’insigne calice!

Raro liquore in offerta alle nostre anime,

rivelino le mie rose la règia frescura

all’ombra indelebile dei tuoi palmi! 


Fosti tu, nella silente tomba delle ore,

a destare la mia anima assopita;

a te il primo sangue della mia vita

nelle coppe di luce delle mie aurore! 


Ah! La tua voce, vino a ornare d’oro

i miei tenebrosi silenzi; tu rompesti

il gran filo di perle del mio pianto,

all’alba dischiudesti il mio orizzonte. 
 

Per te, nel mio levante oscuro, l’aurora

distese il rosato fremito del suo tùlle;

tanto che ora, nelle ombre della vita,

spalanco l’anima come un cielo azzurro. 


Ah, mi sento aprire come una rosa!

Vieni a suggere i miei regali mieli:

sono, dell’amor, la coppa sfarzosa

che si poserà tra le tue mani divine.  


Il calice innalza il suo splendor di fiamma…

Che sortilegio nelle tue mani sarebbe!

La sua misteriosa delicatezza reclama

dita di fantasia e labbra di armonia. 


Prendilo, che nella gloria s'indori

l’idillio di luce delle nostre anime;

le rose della mia aurora si velano

all’ombra indelebile dei tuoi palmi!


El Vampiro

En el regazo de la tarde triste

Yo invoqué tu dolor... Sentirlo era

Sentirte el corazón! Palideciste

Hasta la voz, tus párpados de cera, 
 

Bajaron y callaste y pareciste

Oír pasar la Muerte... Yo que abriera

Tu herida mordí en ella ¿me sentiste?

Como en el oro de un panal mordiera! 
 

Y exprimí más, traidora, dulcemente

Tu corazón herido mortalmente,

Por la cruel daga rara y exquisita


De un mal sin nombre, hasta sangrarlo en llanto!

Y las mil bocas de mi sed maldita

Tendí á esa fuente abierta en tu quebranto. 


………………………………………………… 

¿Por qué fui tu vampiro de amargura?

¿Soy flor ó estirpe de una especie obscura

Que come llagas y que bebe el llanto? 



Il vampiro

Nel grembo della triste sera

invocai il tuo dolore…Sentirlo era

coglierti il cuore! Impallidisti

del battito delle tue palpebre di cera. 


Scesero e tacesti, sembrasti

sentir passar la morte…Che aprissi

la tua ferita addentandola, mi sentisti?

Come mordessi nell’oro di un favo! 


E, dolcemente, strinsi forte, traditrice,

Il tuo cuore già mortalmente ferito

dalla crudele spada, rara e squisita,


di un male senza nome per sanguinarlo in pianto!

E le mille bocche della mia sete maledetta

si protesero alla fonte nel tuo strazio aperta.  


………………………………………………… 

Perché fui il tuo vampiro d’amarezza?

Sono fiore o stirpe di una specie oscura

che divora piaghe e si nutre di pianto?


La miel

Busca en la miel de lo sueños 
Sagrada Embriaguez. Sin ceños 
Se abre a ti la mar dorada. 
Boga, Simbad de lo sueños!

Peregrino de una hada 
Cruza climas halagüeños 
Lleva tu boca enmelada 
Al beso de miel del hada.

¡La suma miel! Mas tú toca 
Un punto la maga boca 
Y alza un dique de diamante 

Entre ella y tu golosina. 
-Goza la flor un instante 
Y... cuidando de la espina.


Il miele

Cerca nel miele dei sogni

la sacra ebbrezza. Senza più crucci

ti si apre un mare indorato.

Voga, Simbad dei sogni!


Peregrino di un’incantatrice

che attraversa lusinghieri stati

porta la tua bocca addolcita

al mieloso bacio della fata.


Eccelso miele! Accarezzi

un punto della bocca fatata.

Si erige una diga di diamante


tra lei e la tua prelibatezza.

-   Gioisce il fiore per un istante

….facendo attenzione alla spina.


Otra estirpe

Eros, yo quiero guiarte, Padre ciego...  
pido a tus manos todopoderosas 
¡su cuerpo excelso derramado en fuego 
sobre mi cuerpo desmayado en rosas! 
 
La eléctrica corola que hoy despliego 
brinda el nectario de un jardín de Esposas; 
para sus buitres en mi carne entrego 
todo un enjambre de palomas rosas. 
 
Da a las dos sierpes de su abrazo, crueles, 
mi gran tallo febril... Absintio, mieles, 
viérteme de sus venas, de su boca... 
 
¡Así tendida, soy un surco ardiente 
donde puede nutrirse la simiente 
de otra estirpe sublimemente loca!


Un’altra stirpe

Eros, voglio guidarti, Padre cieco…

chiedo alle tue onnipotenti mani

Il suo eccelso corpo cosparso in fuoco

sopra il mio, consumatosi in rose! 


L’elettrica corolla che oggi dispiego

brinda al nettare di un giardino di Sposi;

per i suoi avvoltoi la mia carne consegno

in tutto uno sciame di colombe rosa. 


Alle due serpi del suo abbraccio, crudeli,

dà il mio febbricitante stelo…Assenzio, miele,

versami nelle sue vene, nella sua bocca… 
 

Così protesa, sono un cocente solco

dove nutrirsi potrà la semente

di un’altra folle, sublime stirpe!


El silencio...  

Por tus manos indolentes 
Mi cabello se desfloca; 
Sufro vértigos ardientes 
Por las dos tazas de moka


De tus pupilas calientes;
Me vuelvo peor que loca 
Por la crema de tus dientes 
En las fresas de tu boca;


En llamas me despedazo 
Por engarzarme en tu abrazo, 
Y me calcina el delirio 

Cuando me yergo en tu vida, 
Toda de blanco vestida, 
Toda sahumada de lirio!


Il silenzio…

Per le tue indolenti mani

Il mio capello svigorisce;

soffro ardenti vertigini

per le due tazze di moka


delle tue pupille calde;

più che mai pazza divento

per la crema dei tuoi denti

nelle fragole della tua bocca;


tra le fiamme mi logoro

per legarmi al tuo abbraccio,

e mi calcina il delirio


quando mi ergo nella tua vita,

tutta di bianco vestita,

aromatizzata al giglio! 
 
 

Traduzioni di 

Enrico Pietrangeli – Diritti riservati – 2005

Le foto

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Delmira Agustini: 1894  (8 anni)  “La nena”
Delmira Agustini: 1894  (8 anni)  “La nena”

Delmira Agustini: 1904  (18 anni)
Delmira Agustini: 1904  (18 anni)

Delmira Agustini: 1908  (22 anni)
Delmira Agustini: 1908  (22 anni)

Delmira Agustini: 1911  (25 anni)
Delmira Agustini: 1911  (25 anni)

Delmira Agustini: 1913  (27 anni) ritratta durante il matrimonio con Enrique Job Reyes
Delmira Agustini: 1913  (27 anni) ritratta durante il matrimonio con Enrique Job Reyes

Delmira Agustini: 1914  (28 anni)  ripresa dai giornalisti accorsi sul posto dopo la sua tragica fine
Delmira Agustini: 1914  (28 anni)  ripresa dai giornalisti accorsi sul posto dopo la sua tragica fine

Poesia e internet / 4: Nabanassar e Viadellebelledonne

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Estromessa dalla carta stampata quotidiana e periodica, la poesia è entrata significativamente nel mondo di internet, con un fiorire di iniziative che fanno capo a siti, blog, riviste on-line, aggregatori. Tutto questo, se da un lato testimonia la sua vitalità, al passo con le nuove tecnologie e con i tempi, dall’altro pone esigenze di comprensione e studio del fenomeno.

Per capirne potenzialità e limiti, per offrire nello stesso tempo una chiave di lettura e una mappa, un’istantanea della situazione, dal numero 6 “Carte nel Vento” opera una sorta di ricognizione in rete, attraverso i principali operatori della poesia nel web. 

Nei numeri precedenti:

Vincenzo Della Mea, Un colpo d’occhio sulla rete della poesia

Christian Sinicco, Qual è il centro? Internet, tra passato e futuro

Claudio Di Scalzo, In sintesi

Luigi Nacci, La grande proletaria dei poetinternauti s’è mossa, o no?

Marco Giovenale, I vicini (quasi non) ci guardano

Massimo Orgiazzi, Poesia e web: esperienza diretta, riflessione e punti chiave per un’evoluzione futura 

Nabanassar: Della Rete o del Dilettante

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Cosa giustifica l'ascolto? La speranza di assistere ad un capolavoro, quel brevissimo periodo nel quale "senti le farfalle", come dice Ronnie O'Sullivan a proposito del suo ultimo 147: http://www.youtube.com/watch?v=NtIoJ9Vpubk . E' il boost , la sintesi sempre cercata; lo scopo dell'ascolto è cibarsi di questi boost come di miele, una dieta di puro miele, in qualunque campo dell'umano lo si trovi. Doping di puro piacere al fine di riprodurlo per sé e vivere perennemente sulla cima d'onda. Per questo è importante avere molta esperienza, per individuare e selezionare gli sforzi di successo: più ne riconosci, più ricca è la tua razione di miele. Non c'è ferita, la ferita è uno stadio non risolto: noi non abbiamo ferite o le abbiamo guarite e come i monatti siamo ora indifferenti al dolore. 

In “Werther” il passaggio da Omero ad Ossian, dall’idillio alla catastrofe. Dove la nostra catastrofe? L’iperrazionalismo oscuro de “La nuova Justine” (ancora di più in “Juliette”), tutta la fiducia ribaltata in terrore; solo la consapevolezza di un’impossibile risoluzione modifica i linguaggi e il panico diventa l’occhio lucido della disillusione. L’assenza (in questo caso d’illusione) porta alla constatazione che per riempire il vuoto occorre accettare la sua evidenza come unica realtà consistente. l’unico punto fermo è la nostra instabilità che in termini etici è un’effettiva necessità. È tempo velocemente consumato, questo, di aerei caduti e scatole nere disintegrate; nelle case non vi sono salvadanai. Insomma, si è finiti, a fischi e peti. Accade perché si sogna di fare lo scrittore. E credo sia proprio questa pellicola vischiosa che imporpora gli occhi a rincitrullire. Non si comprende il diafano e abissale sversamento di “tragico”. È il mestiere – ci soccorre il Sogno dello Scrittore. Il sensazionalismo “calibrato”, volta per volta, dà loti piccini, e allappanti. Ed infatti, ci si interessa a tutti, si aprono le gabbie, ci si crea il pubblico, lo si fidelizza con la buona parola. Minima pubblicità. 

Riscoprire il ruolo dell’educatore, maschera di una professione. Far bene, fare il proprio dovere (riallacciandoci alla perdita di responsabilità dei lavoratori descritta negli esempi di Magrelli su Nuovi Argomenti n.40, ottobre-dicembre 2007). Gli scrittori sensibili sono civili, sono scrittori civili; non hanno paura del dardeggiamento, quindi. Noi, invece, siccome crediamo che la civiltà segua vie dirette, men che meno “esortazioni” tirtaiche (A. Seri qui http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2008/02/03/lettera-ai-poeti-che-erano-bimbinellestate-dell80/#comment-39883) o risposte ad appelli (qui

http://www.nazioneindiana.com/2008/02/06/nel-nome-della-letteratura/) – dato che risiede in un alveo di per sé germinativo, una sacca – noi, dicevamo, abbiamo volontà di chiedere a tutti i soldati della buona novella, dove caspitina credono di andare a parare, continuando a vellicarsi con parole passate, ingolfate, ruminate, delicate, e, continuando ad inseguire bontà, riconoscimento e militanteria, facendo, infine, del corpo lecca-lecca. 

Pasciuto è un aggettivo un po’ lontano da una certa afflittiva retorica poetica, ma non occorre molto per potercisi identificare: una cultura da scuola superiore o universitaria, un pc da un paio di centinaia di euro e una buona connessione internet sono molto più di quanto tre quarti del mondo può sognare. Il “terzo millennio occidentale” è quindi un ottimo recinto nel quale operiamo volentieri (www.nabanassar.com), consapevoli di essere appunto pasciuti e disposti a restituire almeno parte dei vantaggi, sotto forma di condivisione dei testi. Per anni abbiamo avuto dentro di noi il pensiero che ci fosse bisogno di una "classe poetica", di gente competente, ma soprattutto seria. Se la "classe critica" dovesse essere quella che vien fuori dalle facoltà di Lettere e svolge questo mestiere con cognizione di causa, va benissimo. Il Dilettante è il blogger, la casalinga, l'amatore, ma anche il narratore che sfonda la sua misura e firma appelli credendoli arte o dovere: mentre non lo sono perché stanno fuori il discorso, non lo seguono, non stanno nel solco degli strumenti ad essi stessi minimi e necessari; sono un calco smorto di ciò che è già stato esorbitato e nemmeno vogliono sentirselo dire; stanno incollati ad un indistinto letto plastico e non biodegradabile che urla presenza, presenza, presenza.

Contributi di Angelo Rendo, Gianluca D’Andrea, Giuseppe Cornacchia, Eleonora Matarrese tratti da “Il Cannone – prima puntata” e “il Cannone -  seconda puntata”, gen-feb 2008, www.nabanassar.com 

Antonella Pizzo (Viadellebelledonne): Fino a qualche anno fa

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Fino a qualche anno fa della poesia non mi importava niente, conoscevo gli autori che avevo studiato alle superiori, ho studiato ragioneria e poi mi sono iscritta in Economia e Commercio. Il programma scolastico si concludeva con una veloce scorsa ai contemporanei, e per  contemporanei allora si intendeva fino a Montale e Pasolini. Dopo non ho più saputo niente di nessun poeta fino a quando vidi in televisione la Merini, mi colpii molto la profondità della sua voce, delle sue parole. Ho provato ammirazione per lei, per questa donna che aveva sofferto e che aveva sublimato la sua sofferenza nella poesia. Non ricordavo di poetesse donne, i poeti che avevo studiato a scuola erano tutti maschi. Manzoni, Foscolo, Pascoli, Dante, Cavalcanti, Petrarca. Avevo sentito parlare di Saffo, ma la sua figura  era spesso associata all’amore lesbico,  quindi in un certo senso, qualcosa di assimilabile all’universo maschile. I poeti li pensavo tutti morti, estinti, invece esistevano ancora, li pensavo tutti uomini e invece erano anche donne.

Incidentalmente incontrai la poesia, un giorno scrissi con urgenza ciò che volevo dire nell’unica forma in cui mi fu possibile farlo, in forma poetica. Così cominciai a cercare la poesia su internet, scoprii i gruppi di discussione, nello specifico it.arti.poesia e it.arti.scrivere. I gruppi erano e sono una sorta di forum-bacheche dove si pubblicano i propri pezzi e poi si sta lì ad aspettare che qualcuno ti legga e ti mandi un commento positivo o negativo, una sorta di laboratorio dove si discute su un verso, su una parola, su una quartina, su un accento, spesso si litiga e altrettanto spesso nessuno ti commenta. E’ stato lì che ho incontrato virtualmente molti poeti: Massimo Orgiazzi, Simone Lago, Roberto Ceccarini, Enrico Besso ed altri. In seguito alcuni di loro hanno aperto dei blog molto conosciuti in rete, ad esempio Massimo Orgiazzi ha aperto Liberinversi, Enrico Besso ha fondato Poetilandia, Ceccarini ha aperto Oboe Sommerso. La mia esperienza di poeta è prevalentemente internettiana, infatti, se si escludono le serate di premiazione a certi concorsi di poesia, non ho mai partecipato a letture pubbliche, slam poetry, convegni, incontri. Credo sia questa l’aspetto positivo  di internet, nel bene e nel male, favorisce la scambio.

Se vado in una libreria della mia città faccio fatica a trovare lo scaffale dedicato alla poesia, e quando lo trovo i titoli sono quelli dei pochi poeti affermati o poeti morti da anni, non c’è poesia nuova e se vuoi un titolo di un autore contemporaneo lo devi richiedere (in verità chiedo con molta vergogna, come se richiedessi dei libri porno e scandalosi, così ora acquisto solo su internet) per richiedere un libro prima lo devi conoscere, ne devi aver sentito parlare. E dove, se non su internet?

Internet però è un marasma, ti devi saper muovere, devi saper scegliere, ci sono tantissimi luoghi dove si pubblica poesia ma pochi dove se ne parla. Al contempo è una torre di Babele dove ognuno parla la propria lingua. Alcuni blog, invece, sono come delle roccaforti, inaccessibili, esistono le conventicole e i gruppetti, le bande di quartiere, i cecchini pronti a spararti se non fai parte del gruppo o se dissenti, ma è così anche nella  vita reale e quindi la cosa non sorprende più di tanto. Per potermi orientare  senza perdermi nel marasma mi sono di aiuto gli aggregatori poetici, vedi Poecast di Vincenzo Della Mea e l’aggregatore di Absolute Poetry.  Ultimamente se voglio trovare buona poesia so che posso trovarla, oltre che nei siti che ho sopra menzionato, nel blog di Francesco Marotta “La dimora del tempo sospeso” e su “Blanc de ta nuque” di Stefano Guglielmin; spesso quest’ultimi, oltre a pubblicare la migliore poesia, inseriscono anche dei cappelli critici ai testi e ciò aiuta a comprenderli meglio. Sono luoghi accoglienti e sereni, gestiti da persone generose che mettono a disposizione il loro tempo e il loro sapere per amore della poesia e ne fanno dono agli altri. Accanto a questi voglio ricordare: La costruzione del verso, Farapoesia, Anterem, quest’ultimi sono siti di editori.

Internet è uno strumento eccezionale per la divulgazione della poesia ma per la sua natura non può essere null’altro che questo, è un mezzo veloce che raggiunge tutti ma la velocità, se da un lato è un pregio, dall’altro è un difetto, perchè i testi pubblicati si bruciano subito, per il solo fatto che si leggono sullo schermo perdono potenza, i post scorrono uno dopo l’altro, i blog con la stessa facilità con cui si aprono, chiudono, muoiono. Tutto diventa poco importante, tutto si perde nel prossimo post. La rete, inoltre, non consente l’approfondimento. Se intendi conoscere meglio l’autore che ti ha colpito, che ti interessa, è necessario passare alla carta, comprare il libro, mettersi tranquilli e leggere, studiare, meditare, assorbire, elaborare, digerire. Ci sono, però, dei siti dove si possono trovare delle raccolte poetiche in formato pdf che puoi scaricare liberamente e poi stampare, che puoi conservare e usare come fossero dei libri veri e propri, se ne trovano molti e quasi tutti di ottima poesia ad esempio nel blog di Biagio Cepollaro “Poesia da fare”, in quello di Giovanni Monasteri “Feaci Poesia”, su “Kult Virtual Press” e, ultimamente, anche su “Paginazero”. Pare che i blog  che si occupano di poesia vengano letti solo dagli blogger, pare che tutti scrivano e che nessuno legga, probabilmente non si riesce a orientarsi e a leggere tutti perché troppi scrivono; quando nel mercato l’offerta supera la domanda i prezzi crollano, si ha il crack. Si rischia dunque l’estinzione della poesia per iper produttività? Esistono moltissime piccole case editrici che pubblicano centinaia di titoli l’anno, libri che vengono comprati dagli stessi autori e poi vengono utilizzati come gadget ad altri poeti o inviati a critici con la speranza di una qualche recensione. Le grandi case editrici pubblicano pochi poeti e tutti nomi conosciuti, che generalmente vendono quel tanto che a loro basta per soddisfare quella minima richiesta del mercato.  Io penso al poeta come una persona sola; nella vita reale, quella che facciamo tutti i giorni, nei luoghi di lavoro, nelle cene fra amici, di poesia non ne vuole sentir parlare nessuno. Il poeta parla e nessuno lo ascolta, allora si rivolge ai poeti ma spesso i poeti sono impegnati a parlare a loro volta e non hanno voglia e tempo di ascoltarli.  Insomma le poesie e i poeti non mancano, mancano le letture, critiche e non. Personalmente trovo che il livello della poesia circolante nei luoghi che ho citato, escludendo i casi di cuore sole amore, sia tutta della buona poesia, ma forse è livellata, è tutta buona poesia  ma manca la voce che si erge sopra tutte le altre, che ti fa gridare al miracolo, che ti fa dire questo non l’avevo mai letto, il genio che stravolge e ti travolge insomma, ma forse il genio e l’eccelso ci sono e nell’eccessiva nebbia della quantità offerta non si riesce a distinguerne i contorni. Ma aldilà del genio che tutti aspettiamo come il messia della parola poetica, la poesia, benché sia un fare, non è un prodotto, è una manifestazione dell’uomo che ha una sua vita autonoma, come fosse un’entità indipendente, vivrà sempre dentro l’uomo e non morirà mai, fino a quando esisterà l’uomo con ciò che aspetta di dire dentro, ci saranno poeti, e viceversa. Attualmente frequento viadellebelledonne, nato a giugno del 2007 da una mia idea, il blog si ripropone di raccogliere e riunire le voci femminili poetiche disperse qui e là, è un blog letterario collettivo gestito totalmente da donne ma aperto anche a collaboratori esterni, dove, assieme a pezzi di prosa, attualità, arte figurativa e altro, vengono pubblicate poesie di autori e autrici di diversa nazionalità, ma anche pezzi nostri, un blog libero da condizionamenti,  dove l’unica cosa che conta è il dire e il fare della poesia, un luogo di scambio e di crescita, di ascolto. Nel blog abbiamo organizzato un concorso di poesia “Un fiore di Parola” dal quale è scaturita un’antologia, abbiamo pubblicato dei quaderni in pdf monotematici. Osip Mandel’Stam componeva nel campo di prigionia e mandava le poesie a memoria perché non poteva scriverle, la Merini al manicomio scriveva col dito sulla polvere, Ungaretti scriveva dentro una trincea, in mezzo ai topi e ai compagni morti, scrivevano e non pensavano al mercato editoriale,  alle vendite, alle letture critiche, al successo, al guadagno, ai blog, alle visite, a chi mi legge. C’erano loro e la loro poesia. I pdf, gli e-book, si propongono di evitare la dispersione, ne faremo altri e scriveremo nei blog fin quando ci saranno, poi scriveremo dentro le trincee, nei campi di prigionia, col dito sulla polvere, perché alla poesia poco importa la visibilità, il mercato, l’internet, la poesia esisterà sempre.

Antonella  Pizzo

  • Ranieri Teti
  • Marzo 2008, anno V, numero 9

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