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Il lavoro di un Premio: Rosa Pierno su Bona, Guantini, Isella

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Rosa Pierno prosegue il lavoro apparso nel numero precedente, proponendo ulteriori chiavi di lettura per alcuni poeti giunti in finale nella scorsa edizione del premio Lorenzo Montano.

Rosa Pierno su “La cospirazione” di Ermanno Guantini

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Rosa Pierno su “La cospirazione” di Ermanno Guantini

Ci si immerge, in quanto lettori, in un testo che è magma fratturato, in via di raffreddamento, ma da cui emanano ancora bollori. Volontarie sgrammaticature, aggettivi non accordati nella forma ai sostantivi, rendono più aspro il paesaggio vulcanico. Eruzione ha un respiro geologico. Cospirazione sarebbe, allora,  respirazione a cui l’uomo si adegua. Tale co-respirazione mima un dialogo. Dialogo tra natura e cultura. Lievi variazioni su ritmo, lentissimi scarti, effettuati da un essere umano, se non spaventato, guardingo, in attesa: monitoraggio di eventi lo si direbbe, eppure, solo all’interno della lingua.   Lingua: amata, irrinunciabile mostruosità.

Il dialogo s’intesse attraverso lo sguardo e l’udito e intercetta sfilacci di filosofia, lacerti di chimica e di fisica, osservazioni geometriche tranciate: “nel clamore arido della deduzione, in un avvertimento, sterile fasto, precisa composito, inesauribile abitudine al dicembre, inerzia” Non arriva a formarsi alcun pensiero in questo assemblaggio eppure sublime: è forma perfetta e forma non realizzabile insieme.

Aggettivi si accompagnano forzatamente a sostantivi altrettanto recalcitranti. Quasi un sistema leibniziano in cui non c’è contraddizione solo perché tutte le contraddizioni vengono viste come variazioni di grado della complessità e risolte a un superiore livello d’unità. Se “l’equilibrio non dipende dalla sanità, ma all’occasione, abbandono in diligenti diottrie o nuda ricreazione”, il lettore è tentato di pensare al testo come a un meccanismo formato da tessere di puzzle tutte uguali:  tutto si può ricomporre con tutto, oppure non collimare mai, che è la medesima cosa. A questa collezione, collazione di parole, di risonanze, di echi che si riconfigurano a ogni passo scandito da virgola: “la ribalta nell’anfora deserta, lo spicchio, la coscienza di equilibrio, il taglio d’oro nel pregevole cosmo”, Guantini affida  il suo persistente, indimenticabile respiro tutto umano. Respiro mediante linguaggio.

Rosa Pierno su “Corridoio polare” di Gilberto Isella

Versione stampabilePDF version“Corridoio polare” (Book editore, 2006) di Gilberto Isella,  è un libro che inizia tiepidamente, dando al lettore le coordinate di riferimento, ma poi finisce con lo scottare fra le mani. Coordinate: l’Io come congettura o ipotesi, ma soprattutto dato culturale. L’Io confuso tra tutti gli altri elementi che compongono l’universo e contemporaneamente creatore di universi. Non privo di paesaggio, di dati biografici, di dettagli fisici. L’Io in quanto eccezione nel cosmo ruba il posto al dio creatore.

Il libro inizia, dunque,  con una precisissima collocazione dell’Io fra le cose  e della sua assoluta  preminenza come percipiente.

L’analisi delle facoltà conoscitive conduce Isella a comprendere che ratio e follia non sono facilmente separabili e che tutto questo ha una conseguenza sulla conoscenza delle cose, sul modo di vederle: “questa notte in corsia l’ultimo/ lenzuolo si è gonfiato per la polvere che matte lune soffiavano oltreparete, ha coperto una schiera di omiciattoli uguali, soldatini di plasma,/ dove ho visto qualcuno che mi somiglia/ dove mi è apparso il primo gradino/ o, forse, un equivoco/ della scala”.

Col pensiero si può porre una meta ideale, ma non la si può raggiungere se non tradendo la propria lucidità. Follia funziona qui anche come sinonimo di ambiguità. Saggia ambiguità da preservare  contro ogni tentativo di assolutizzare o di rendere monotematico il significato. Descrivere la realtà con linguaggio matematico non è forse l’orma che lascia la follia  nella nostra mente?

E d’altronde come negare valore conoscitivo alla follia, al tentativo di risolvere l’assurdo, il paradossale in unità? Non è forse questo un atto matematico e poetico insieme?

E’ come un dazio pagato per l’ingresso nel regno del possibile. Poesia dispiega,  ora, un universo di fatto prima inesistente.

E tutto questo movimento di pensiero è reso da Isella con una splendida variazione di stile: ora abbecedario, ora dottissimo, ora misto: “mi pigiavo in creme algose che dai fondali risalivano, presenze e scorie ischeletrite aggallavano per sommergersi, sacche dal volto scimmiesco squaquerante..”.

Ci troviamo dinanzi a una poesia mirabile, che reca un vero piacere fisico: il suono, il senso, le immagini che fanno meraviglia. 

Ma Isella come una macchina che misuri le più piccole oscillazioni registra anche mancamenti, balbettii, baratri d’insensatezza che inevitabilmente affiancano ogni perlustrazione linguistica.  Se Isella indaga le due aree, quella scientifica e quella umanistica, è ben vero che lo fa è sempre situandosi nelle loro zone di confine, di dialogo, di promiscuità. Lì nasce e si forma compiutamente il senso.

Lo sviluppo del testo coinvolge il lettore in maniera  fisicamente partecipativa: è come se ci si trovasse su una caldaia che sta per esplodere, ma che intanto produce bollori rutilanti, tensioni, polifonici rumori: “Ora è salciccia muta su piatto di peltro,/ steso lì a causa di altre braccia gagliarde/ da folla trina e unigenita armate/che infuria su ruote solleva radici/ e ne fa clave e punte d’uragani..”. Isella ha dato la stura a un’immaginazione che non vuole freni e che nel suo lussureggiante darsi  offre caleidoscopiche forme. Pirotecnico linguaggio, poliforme e duttile. Come se alla fine del viaggio-libro, Isella avesse optato non per la follia messa a confronto con la ratio, ma per l’immaginazione, in quanto sintesi dei due inconciliabili termini. Sì, il libro bolle, ma, con calcolata mossa, proprio quando il lettore  giunge alla fine.

Rosa Pierno su “Signora dell’intimità” di Giorgio Bona

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Rosa Pierno su “Signora dell’intimità” di Giorgio Bona

Una scrittura che non si pone limiti nel prelievo da ambiti linguistici specialistici o da lingue estere e nemmeno nell’evitare l’uso di punteggiatura e di  pause e che si snoda, eppure ritmicamente, lunghissima catena. Il lettore sente scorrere sotto le dita i grani del rosario, il lunghissimo periodo, e con i polpastrelli può far scorrere le frasi o può frenare sulle parole di giuntura: poiché una parola costituisce il passaggio di volta, la chiave, per la frase successiva, per l’installazione in un altro contesto, di altro punto di vista, che vira il senso: “porta un messaggio l’aria mi spinge agli incavi del tartaro che plana luna ramata vai a questa profondità ma sì l’utopia sei tu che ami l’orizzonte”. Se la catena è composta da grani di incertezza, quasi un inventario di luoghi culturali, è anche vero che Bona è da una posizione ben salda che parla: si avverte la totale consapevolezza dei valori e dei desideri che lo animano e da cui registra  ciò che non gli si attaglia o ciò che lo rende felice.

Il linguaggio, che ricorda il movimento della scrittura beckettiana, appare come uno strumento d’investigazione sugli stessi strumenti linguistici utilizzati: “è il modo dei corpi di star compatti il mio ritmo lingua nuda furba sveglia sotto in fondo senso e giudizio non hanno storia ma più sotto anche i tuoi occhi puoi pensare nel clamore per iniziare dal principio come spingere i fatti da fuori”.

Ogni testo usa un lessico diverso che forma l’impalcatura dell’investigazione condotta sui propri dati sensoriali, emotivi e razionali. La scienza o i testi di Omero vengono trattiti allo stesso modo con prelievi che sono incastonati nel tessuto esistenziale dell’autore, le cui ossessioni sono reiterate, affiorano come scogli perigliosi e si rincorrono per tutto il libro: parole che sono indagate come non innocenti e che  costituiscono l’ossatura del libro: “vuoto”, “aria”, “movimento”, “delfini”, sotto il vestito”, “la tua bella voce”, “verità”, “nuvole”...

Resta tra la rete delle dita un pescato concretissimo, vero tesoro per il lettore.

  • Ranieri Teti
  • Marzo 2008, anno V, numero 9

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