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Poesia: dalla Biennale e dal "Montano", testi e note di poetica

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I poeti che presentiamo sono stati scelti tra i partecipanti alle ultime edizioni del Premio Lorenzo Montano e delle ultime Biennali Anterem di Poesia. Ci offrono l’occasione di rivisitare opere che hanno tessuto la storia recente del “Montano”, ci indicano le loro nuove ricerche e soprattutto ci guidano nelle ragioni della loro poesia, attraverso puntualissime riflessioni teoriche.

Giovanni Turra Zan

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Giovanni Turra Zan è nato nel 1964 a Vicenza, e risiede a Dueville (VI). Laureato in Psicologia dell’Educazione e diplomato al Conservatorio Musicale di Vicenza, lavora da diversi anni nei servizi sociali e come counselor professionale, facilitando anche gruppi di mutuo aiuto al lutto.

Vincitore nel 2005 del concorso “Poeti per Posta”, promosso dalla trasmissione radiofonica di Rai Radio 2 “Caterpillar” e da Poste Italiane, è stato menzionato al premio “L. Montano 2006” e segnalato nell’edizione 2007 dello stesso premio. Nel 2005 ha pubblicato la sua opera prima “Senza” (Agorà Factory), con prefazione di Stefano Guglielmin. Con la silloge “Il lavoro del luogo”, ha vinto la VI edizione del concorso “Pubblica con Noi 2007”, indetto da FARA Editore che l’ha successivamente pubblicata. Una sua lirica è stata selezionata per l’antologia “Il corpo segreto”, di prossima pubblicazione con le edizioni Lieto Colle. La sua nuova raccolta, “Stanze del viaggiatore virale” sarà pubblicata nel prossimo maggio dalle edizioni L’Arcolaio di Forlì.

Giovanni Turra Zan: Nota teorica e poesie edite e inedite

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In “Finders Keepers” (“Chi lo trova se lo tiene”, mia traduzione) Seamus Heaney ci offre un cocente resoconto di un attacco d’ansia di cui egli fece esperienza quando, per la prima volta, incontrò la poesia di T.S. Eliot. Ciò avvenne negli anni ’50, in un tempo in cui Eliot era considerato, dai poeti anglo-americani, la Luce  e la Via: un nome sinonimo della stessa poesia moderna. Ad Heaney fu consegnata a scuola una raccolta di poesie di Eliot “come fosse un pacco di cibo”, e tuttavia, invece di procurargli  un piacere tanto atteso, gli causò qualcosa di più simile ad un attacco di panico.  I versi di Eliot viaggiavano ad una lunghezza d’onda così inaudita per Heaney, da sembrargli lo stridio di un pipistrello. I sintomi fisici che Heaney provò (un crescente nodo alla gola, l’irrigidirsi del diaframma, ecc.) non si attenuarono in seguito alle letture successive del testo eliotiano. Al contrario, e per anni, “Eliot mi faceva paura, mi imbarazzava e mi faceva sentire minuscolo; mi faceva venire voglia di invocare la Madre dei Lettori, affinché venisse presto e avesse pietà di me, e mi offrisse la pacificazione di un significato parafrasabile e di una struttura ferma e riconoscibile”. Stava esagerando? Non credo. Nello stesso momento in cui egli ci invita ad identificarci con la triste condizione dello scolaro, Heaney ci dice anche che l’acuta ansia che sta descrivendo non è la semplice reazione di un giovane studente di letteratura. O non solamente questo. Noi tutti apprendiamo da Eliot, così come da altri autori, che una poesia non può mai portarci completamente oltre la sua lingua, in un luogo limpido e precisamente a fuoco, come se la sua “oscurità” fosse acqua torbida che una razionale ed intelligente lettura ed interpretazione potesse rendere trasparente e chiara. “Una poesia deve resistere con successo alla razionalità” è l’affermazione schietta, e abbastanza facile da accettare, di Wallace Stevens. Ma ciò che per me è così attraente in Heaney è la franchezza con cui ammette l’ansia causata dal non comprendere. Quando W. Stevens scrive: “Un uomo e una donna/ sono uno”, lo possiamo capire senza difficoltà. Ma quando scrive: “Un uomo e una donna e un merlo/ sono uno”,  questo può sconcertare il lettore. Ci incamminiamo qui in un sentiero fragile, nell’ansiosa speranza di arrivare presto o tardi ad un principale, inequivocabile significato della poesia che includa il merlo. Ma forse, perdere l’orientamento è una parte fondamentale del processo. Il campo da gioco in cui si pone il titolo della raccolta di prose di Heaney, “Finders Keepers”, ha come controparte lo smarrimento, la perdita di qualcosa.

Una dichiarazione, che Heaney fa in un capitolo successivo, riesamina la mia immagine del percorso: “La poesia è più una soglia che un sentiero, qualcosa da cui costantemente ci si allontana e a cui continuamente ci si avvicina, e presso la quale lo scrittore ed il lettore si sottopongono, in modi differenti, all’esperienza di essere allo stesso tempo rilasciati e convocati”. Forse è stata l’immagine dello spazio della soglia, così come il tema dell’ansia e della perdita, che mi ha fatto venire voglia di ridare un’occhiata alla storia, raccontata da S. Freud in “Al di là del principio del piacere”, del bambino e del gioco del rocchetto. Il bimbo, nel tentativo di far fronte alla sofferenza causata dall’allarmante abilità della madre di scomparire spesso per ore dalla sua vista, inscenava un gioco ripetitivo: tenendo in mano lo spago, scagliava con consumata precisione il rocchetto dietro la spalliera a tendina del suo letto, di modo che l’aggeggio sparisse. Contemporaneamente emetteva un suo caratteristico suono, che Freud aveva intuito avere il significato di “via!”. Quindi ritirava il rocchetto dal nascondiglio e salutava la sua riapparizione con un festoso “eccolo!”. Questo gioco così ossessivo rappresentava la presenza e l’assenza della madre. Così almeno ci racconta Freud. Parte dell’attrazione che ha per me questo racconto, viene dall’identificazione che mi piace fare di tale bimbo con la figura del poeta. E’ quindi l’idea che il desiderio della presenza e l’effetto dell’assenza sono interdipendenti, si coinvolgono, si implicano e stimolano vicendevolmente ed in modo continuo. Il gioco del “via!” e del “eccolo!” è un gioco giocato dal poeta nel piccolo teatro che è ogni suo verso. Con la Madre dei Lettori a tenere la mano del poeta, le parole giocano i loro ruoli familiari con una logica rassicurante e consolatoria: lì c’è uno statico sostantivo, là il verbo attivo, più in là ancora gli spazi e le prospettive aperte dalle preposizioni, ecc.. E soprattutto, da questa parte, c’è la rigida dualità e la separazione dei soggetti e degli oggetti. Nei fatti poi, la necessaria grammatica della frase predispone il mondo ad un ordinamento da cui dipende quotidianamente la nostra salute mentale. Questo, direbbe Yeats, è “il linguaggio della sala da tè”. Improvvisamente però, nel flusso rassicurante delle frasi, si creano degli elementi di disturbo. Le parole vengono organizzate in linee, le linee in versi, la sintassi viene aggirata, con inversioni e iperbati, epifrasi a formare pattern di materia fonico-musicale. E questo menzionando solo alcune delle articolazioni possibili, delle “spaccature” che la forma poetica introduce nel linguaggio. La metafora si porta via il senso letterale e la Madre è caduta nella botola, fuori dalla vista. Ci ritroviamo così in una zona paurosa, ma vivida, che Yeats descrisse bene come Phantasmagoria, dove la nostra consapevolezza della soggettività degli oggetti e dell’oggettività dell’emozione soggettiva diviene eccezionalmente possibile. Ed è proprio qui che iniziamo a discernere il senso, ogni volta rifoggiato e ricreato, della poesia. 
 
 
 

Da Il Lavoro del luogo, Fara Editore 2007
 
 

si preferiscono certo lumi di luce gialla

al ritorno, alla fatica di concorrere

nei tempi: quelli dicevi allora persi. 

alzati di buonora il mattino che il mattino è dove

le cose restano fresche nella testa e il cervello ha

la temperatura del caseificio e l’uguale scambio

di materie liquide in idee. non si fa tardi non serve 

insistevi che la notte è della morte o dei tralasciati.

 

un grido, la lingua dei fastidi è saliva

stantia, sputi, stacchi o baci raffermi:

come si fa d’inverno a non vaccinarsi? 

con l’umido fai un’immunità e allontani

il sequestro del freddo sotto un piumone;

il convertitore ribalta i chilometri in pianti

tra restare con la casa che si sfa e andarsene 

scegli ora, entrambi.

 

l’origine riflette ogni stasi, l’opera sfuma

e si lascia dietro odore di macero e carta

unta. anche la camera riconta i vuoti. 

stai a rivelarci quel giusto mezzo se come sei

procuri maremoti. ricordarti è pena

o si preferisce quella foto in cui stai

in cima ai concimai di fine marzo.

 

si danno gli ordini, intanto che al macello

ci sono uomini. non so infatti checcazzo 

si faccia ora dicevi. ridondano al fine le convinzioni

e non ci sta con la testa, ed è come un vento, oggi.

e c’è la disco-music dietro le carcasse di vacca

e si balla, gesù. si balla come dei matti.

 

perdona se nel conclave degli orti stavamo

come gentili ad innaffiarci e crescere

mettere radici nei luoghi arresi al pensiero 

che non più uno spostamento fosse possibile

una fuga imbranata dal vizio di riaprirsi

comunque considerare che sia spaesarsi

del canto che qui non germoglia. basta il fatto

generato vedi a farci confluire, a catturare

metro su metro la collana dove infilare

le liti. almeno ovunque ne riparleremo

smotteranno cumuli di fango e, cielo, avremo

          gli anni dalla nostra.

 

occorre morire prestino

pensavi, e lasciarti erede del bene

di noi nella storia, tra gli argini dove 

libero è il nostro fiume, raccolte le pianure.

prestino, così da permetterti ogni codardia

così che non lasci debiti sul contatore

sullo scatto dei numeri, sul computo

dei registri del pianto e non i figli come

appoggio, ma i nasturzi sul terrazzo,

ed il vecchio galantuomo che sa

di latino e di greco, rimasto a tenerti

     le mani.

 

i contorni formano l’arco dei legni,

il quadrato su cui appoggiare l’ansia

ha la sua rada classificazione

la sistematica 

elencazione dei contenuti in un numero

un codice per il prestito della memoria

il cui interno dà sul prato, e se vedi

lampade proiettare l’ombra ti fai serpe

e faina per cancellare il nome dall’elenco

degli esistenti, per lasciare poche tracce

scarseggiando un’asse di risposte sulle leggi

           della quiete.

 

Da “Stanze del viaggiatore virale”

(di prossima pubblicazione con le Edizioni L’Arcolaio di Forlì)

 

purché sia ragione il volo, siamo noi

ad inquinarne il lampo: o torni o vai,

o lasci l’impero nella rabbia, sfai

le vesciche, gli stomaci e con questi

reggi cornamuse. dove borbotti ora sei

bordone al servizio d’una giga. il calvario:

sul ciglio sosti a raccattare semi e gramigna,

ne fai un erbario che è croce di natura, pannello

di secchezze e mostra aperta ad un incerto orario

 

la casa frena e sta su lastre di ghiaccio.

all’interno fatiche si posano, appendono

le attese e il sonno sulla stufa a legna

dove la cura del giorno s’incaglia

nei ruggiti dei transistor del dubbio.

cambiano le attitudini, le anime

attive e pare un cantico la vista

del bollito che si affastella sul vassoio

con le bisce a contorno, la scarpa

nella pentola del minestrone, l’ago

da cucito servito sulla trota salmonata,

tuffatosi dal grembiule della sarta. 

ci si sta addosso a natale, come

un’ossessione della generazione

che non si estende, che non ha code.

 

si celebrano qui le indecisioni

le acustiche sibille, gli echi amorfi

nelle miniere. eloquenti saranno

i termini del virus, e il disprezzo.

certo, il virus rimane a riposare

per anni e gramo si rifugia sotto

la parola, nella zona dorsale

di questa: sa il suo anticorpo il libero

radicale. come se la parola

lo accogliesse serpe-in-segno, come se

si dispiegasse nell’antro, sferrasse

l’attacco che diviene tradimento

e cancella le visioni. s’inforna

per posarsi a caldo come vescica

sulla pianura della lingua. il senso

della capitolazione al silenzio.

Allì Caracciolo

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Allì Caracciolo, poeta e regista, è docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l'Università di Macerata. Sue opere, edite e inedite, sono risultate finaliste ai più importanti premi di poesia. Dirige un Teatro di Ricerca a livello professionale. Tra i suoi libri di poesia figurano: Malincòre (una fonologia del vuoto), Amadeus 1996; English cemetery, Edizioni del Leone 2000; La insomiglianza (quattro poemetti), Ripostes 2007.

Allì Caracciolo: Le ragioni del silenzio. Il testo poetico

Versione stampabilePDF version0. DEDICA IN FORMA DI ESERGO
“Quando tutto è stato detto, resta da dire il disastro” 

1. QUASI UNA PÁRODOS
Esprimere una riflessione sull’atto poetico, o della scrittura, è formalizzare un assillo nell’interrogare la Poesia non solo sulle ragioni della sua sopravvivenza nella contemporaneità e sul suo darsi/negarsi, ma in particolare, sul complesso percorso della Parola, sulla sua coincidenza con l’Essere. Interrogarla istituisce una Poetica.
(“Sotto lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione […]. In tale paesaggio di esibizionismo isterico, quale può essere più il posto della più discreta delle arti, la poesia?”. Così Montale già nel lontano 1975).

2. DIDASKALIKÓN 

Troppo spesso non si sa che cosa è Poesia; piuttosto: ‘si sa’. In maniera assertiva ed esaustiva.
Accade che molti sanno che cosa è la poesia: è soddisfazione, tormento, approdo, privilegio, conforto disperante, vanto maledizione esclusione esclusività, appagamento compiacimento realizzazione di sé, suggestione e distinzione, un porto sicuro, una tormentante piacevolezza, una lusinghiera attitudine. E poi è bellezza. Bellezza e bello così come giungono dalle icone sclerotizzate e inamovibili.
Della poesia si può dire con certezza ciò che non è.
Non è un fatto privato. Non uno spazio riservato, lottizzabile mercificabile, non è merce né mercificazione, non è garanzia non è prestigio. Non è consolatorio compenso, evasione dalla cruda realtà, esaltante trasfigurazione delle miserie, produzione di sogni, la casa dei buoni sentimenti.
Conformemente il poeta non è il portatore della verità, l’eletto, il detentore dei segreti, il depositario del verbo.
“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato // […] non domandarci la formula che mondi possa aprirti”. Montale avvisava. Non solo demolendo i perniciosi miti della parola-pantocrator, “sì qualche storta sillaba e secca”, ma evidenziando la forza fatica del negativo: “codesto solo oggi possiamo dirti // ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”

3. TEMA
Occorre muovere dalla identità negante per ricavare la positività e la conoscenza di un grado della qualità poetica. Non nella capacità definitoria, ma in tale facoltà di esistere in negativo, di creare in absentia, risiedono la natura intrinseca dell’atto poetico e il suo fondamento etico.

Se poesia è canto (e canto è urlo nel doppio di sé), lo è nella misura in cui ne scrive Maurice Blanchot: “solo col canto Orfeo ha potere su Euridice, ma anche nel canto Euridice è già perduta e Orfeo stesso è l’Orfeo disperso, l’«infinitamente morto», reso tale fin d’ora dalla forza del canto” .
L’infinitamente morto è accesso alla infinitezza, la costituzione in infinito che la forza del canto determina. Canto che non rende immortale Orfeo: non nel senso della tradizione del canto al tempo umano e alla storia, ma in quello più arduo del negato riscatto dall’esistere. È l’essere infinitamente morto di Orfeo/del poeta, che consente al canto l’identità con l’esistenza. E la sua immortalità.
Scriveva Gadamer che “il canto poetico è l’esser-ci” . Poesia “si dà nel concepire e per un concepire” . Essa è la testimonianza dell’esser-ci, in quanto “attesta la nostra esistenza, essendo esistenza essa stessa” .
Esistenza che in sé è coincidenza di deessere, infinita simultanea destituzione  dall’esistere.
Parallelamente, una poesia che infinitamente si destituisce da se stessa. In ciò consiste la sua cifra, l’essere esistenza. In quanto coincidenza di deessere e costituzione di sé.
“Se tale destituzione trova fondamento nella tesa coscienza esistenziale, o nella demistificazione di ogni accreditato sapere e gratificante certezza, compresa quella del bello, o nella aspra cognizione della violenza umana e storica, tuttavia, proprio dall’atto stesso, precario ed infinito del destituirsi, la poesia deriva la propria necessità e l’unica possibile funzione”  :
( passo da un testo che postula l’idea di poesia come fonologia del vuoto, che cioè trae il suo fondamento dall’atto percettivo di frammenti di suoni che muovono nel vuoto  –attestati di energie in un continuum che è condizione del loro muovere e combinarsi–  e dal loro costituirsi in parola poetica.
In tale prospettiva, poeta è vehiculum, un condotto in cui le energie si incontrano e conflagrano generando vita della parola.
E non tanto, nella direzione di poesia come atto autogenerantesi, di cui il poeta si fa scriba, ma in una dimensione assimilabile a quella che Foucault indica per la follia: che è “senza soggetto parlante”  ).
È il senso di quell’essere infinitamente morto, la sua cifra fonetica.

Si può sostenere, traslato da altro contesto , che Poesia è un linguaggio che torna su se stesso, che ricomincia “senza fine l’atto della propria distruzione” .
Ciò ne qualifica lo statuto ontologico: il silenzio. Che non comporta il paradosso della pagina bianca e simili. Silenzio è la proprietà significante e la qualità della comunicazione della Poesia. La quale non si esprime attraverso il silenzio: si dà quale silenzio. Forse anche nel senso gadameriano di “scrittura che precede il linguaggio […] in modo irraggiungibile” . Ma certo, anche, silenzio in senso cosmico, fratturale, dove si rintraccia l’indifferenziata consistenza dell’esistere nella spaccatura originaria, nel baratro, nella crepa primigenia, nell’evento catastrofico e smisurato della distruzione generante.
L’unico silenzio che non può appartenere alla poesia è quello di ignorare barbarie ferocia le stragi. Tacere davanti ad esse. Omettere di ricordare.
( Poesia è il luogo nel quale non si danno frontiere, il luogo per eccellenza della alterità, ed anche quando i più inviolabili diritti umani, quali il diritto a dignità libertà vita, non costituiscano argomento espresso di essa, in essa sussistono quale sua implicita sostanza e fondante ragione di essere nella storia e nelle civiltà.
Se non è in questi dunque che va ricercato lo statuto ontologico della poesia, certo in essi risiedono la sua dimensione storica e la presenza alla storia, che è legittimazione della scrittura a fronte del prevalere di violenza e misfatto, del suo persistere mentre si consumano crimini contro l’umanità ).
Ne segue il Silenzio come costituzione etica, da cui non può derivare la dispersione della Parola poetica, la sua omologazione, la svendita. La Parola della Poesia è inalienabile.
 “Ciò che si scrive risuoni nel silenzio, facendolo risuonare a lungo, prima di ritornare alla pace immobile dove veglia ancora l’enigma” . Così Blanchot, che ne La scrittura del disastro, annota: “Scrivere non solo per distruggere, non solo per conservare, per non trasmettere, scrivere nel fascino dell’impossibile reale, questo lato del disastro in cui sprofonda, salva e intatta, ogni realtà” . Forza cognitiva nella sorta di ossimoro: sprofondare nel disastro salva e intatta.
È in questa identità, che non è semplice compresenza, che si realizza l’essere della Poesia.

4. QUASI UN EPILOGO
Non si dà atto poetico senza la consapevolezza apocalittica della catastrofe, della destituzione da sé di quell’atto. In questo, l’identità di silenzio e scrittura. Ancora Blanchot: “Mantenere il silenzio, ecco ciò che a nostra insaputa tutti noi vogliamo, scrivendo” .

NOTA O IPERBOLE
La creazione poetica spesso la si sente denominare ‘il parto’, anche dagli stessi autori: ‘È avvenuto il parto’, espressione metaforica per dire ‘Ho terminato l’opera’.
Tralasciando la perplessità per l’immagine troppo viscerale, il cui sangue è mestruo e non ferita palpitante (“il discorso poetico prende avvio da una ferita” ), e la nascita meraviglia usata, l’espressione appare impropria, in quanto rovescia la costituzione profonda dell’atto poetico, il quale non consiste nel parto, o venuta alla luce, di un essere generato attraverso due elementi di segno contrario che si uniscono insieme.
Poesia nasce dall’uno che si separa in due contrari, dei quali uno nell’essere negazione dell’altro lo fa essere, e da tale compresenza/opposizione, negazione che afferma, si genera l’atto poetico.
In tale scissione da sé in doppio di sé, nel prodursi nella propria negazione, nel frantumarsi nell’altro, consiste il fondamento da cui prende avvio un significato di distruzione, catastrofe, alterità. Morte che instaura la parola.
Per questo la poesia può essere individuata come il luogo dove l’uno dalla propria frammentazione genera i contrari, ma dove i contrari tendono infinitamente a l’unificante conoscenza, a la indeterminata somiglianza.
Dove altresì conflagrano, generando vita.
Il luogo del vuoto. O dell’assenza.




[1] Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, Milano, SE, 1990, p. 47.
[2] Dichiarazione di Montale all’Accademia di Svezia in occasione del Premio Nobel.
[3] Eugenio Montale, Ossi di seppia, Milano, Mondadori, 196713.
[4] Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1975, p. 148.
[5] Hans Georg Gadamer, L’attualità del bello. Studi di estetica ermeneutica, a cura di R. Dottori, Genova, Marietti, 1986, pp. 83-84.
[6] Ivi, p. 200.
[7] Ivi, p. 169.
[8] Allì Caracciolo, Malincóre (una fonologia del vuoto), Cittadella (PD), Amadeus, 1996.
[9] Cfr. per il contesto e significato di tale concezione, Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, BUR, 19887.
[10] Vedi l’indagine condotta da Derrida sul pensiero di Foucault in Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1971, specificamente Cogito e storia della follia, pp. 39-79.
[11] Ivi, p. 46.
[12] Hans Georg Gadamer, Persuasività della letteratura, Ancona-Bologna, Transeuropa, 1988, p. 60.

Poesie edite e inedite

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Da: Allì Caracciolo, Monologhi ripetitivi con la Poesia (pubblicazione in corso). 

[1]

Il luogo

Mentre discende come fosse l’ultima

s’aggetta la sera in plumbee nubi

squarciate ove riflette un peltro lucido

lì

si specchiano le cose una nell’altra

alla ricerca della somiglianza 
 

[2]

L’anima canta stanca

mentre tu taci ricordando il canto 


e il ricordo è miseria  nella pallida sera

ove talora s’accasciano uccelli a riposare 


Se soltanto tornare

la tua voce potesse a le occasioni

le perdute ginestre

le feroci pulsioni, riconoscere in esse

la lenta melodia del sangue che in te scorre 


anima mia, dir loro, anzi che questo sguardo

di mancate agnizioni

l’aggirarsi casuale dove il vuoto risuona

il tuo passo d’automa trasognato e disforme 


il filo delle labbra una catena  che apri chiudi apri senza suono 


Forse un segnale,

ripeti versi tra le foglie 
 

[3]

Mentre pentita al bordo del villaggio

attacchi il piede indietro a quello avanti

la linea inseguendo o disegnando

che isola il villaggio dallo spazio

ti vidi batterti il petto anche le spalle

-per lo stolto tuo peccato di essere- 


-e per esso-

saltellare festante attorno attorno

ridda invasata sulla linea a calce

che in cerchio isola il villaggio 
 

[4]

Forse la sera, quando le cose vanno al loro posto

per convenzione (non ontologicamente, s’intende)

forse la sera per convenzione (per un sentire indotto, cioè, ma motivato)

la sera forse

le parole che si sono scritte (e nel giorno movevano i pensieri)

le parole sono figure che attraversano la sera 
 

[5]

Franz Liszt

«Non chiedermi quello che io stesso ignoro. Il mistero che vuoi penetrare non mi è stato rivelato. Io vengo da un paese lontano, di cui non mi rimane alcun ricordo». 

I movimento

Scrivevi che nulla rimane, nella torpida visione. Come un eunuco, come un fanciullo, il misterioso viandante -un ermafrodito o l’Ermes?- rivela la mancata rivelazione.

C’è un sapere nell’assenza.

Era questo il segreto: che nell’ignoranza, nella scienza dell’ignorare, si cela un’antica sapienza, il segreto, quasi, del cosmo.

«La forza che mi spinge è muta e non m’indica la strada» ti dissuade l’enigma che insegui, l’uomo dalle spalle di tempesta, non seguirmi, inutile speranza.

Era muta, diceva e ti descrisse le meraviglie del sogno, l’incomprensibile colore della sera, l’armonia segreta dei venti, la musica la musica 

II movimento

Terra lasciata alle spalle estesa nell’animo in lande traversate dal solenne ricordo di un fiume

tutto tutto attende alla musica nella caverna stanca del viaggio

Volgere alla propria terra le spalle per ritornarvi

il cammino segnato dal filo liso della nostalgia

Visitare città con la metafora della provenienza scandita in note battiti difformi

il suono del suo nome amplificato dalla cassa armonica del desiderio

il pellegrinaggio un ritorno reiterante 

III movimento

Se quella forza è nemica, perché questi sogni divini?

ti chiedeva il viandante chiedendo a se stesso, Se benevola perché questa pena che mai trova requie?

«Addio» disse e s’allontanava facendoti riaffiorare in te stesso

come il silenzio, inespressivo, come lo sguardo, vuoto, come la pallida fronte della miseria o della conoscenza, la languente armonia l’ineffabile arte 

[Vedi la Lettera di F. Liszt al Signor Lambert Massart, Gazette musicale, 2 settembre 1838] 
 

[6]

vicino allo smalto scrostato  del bacile ad un coccio spezzato nomepoesia ti taccio le crepe ai muri i pezzi di calcina il letto stridulo ti taccio un rubinetto perde a ritmo l’attimo d’acqua il tuo nome mi spacca vorrei annientare il tempo che ti ha dato  crearti quando voglio come la goccia un attimo disperderti spezzare lo stampo in gesso rubare  la voce con cui dici io  averti infilata in questa crepa come un filo di paglia fra le labbra una cosa qualunque che per anni è lì poi un giorno uno viene getta via nomepoesia e nessuno s’accorge

così di te vorrei 
 

[7]

Lana di ferro il tuo corpetto

all’abbracciarti urti sul petto  l’irriti

e il tuo, trafitto, si imprime di incisioni,

piccola asceta da insensato medioevo

che i fianchi ti cinge scandisce le tue ore scava i cibi

mentre affebbrata ogni sonno ignori

gli occhi perenni dalle fosse muovi  tuttintorno

e in avanti  forando anche la notte con lo sguardo

o con il mite orrore  della tua lunga cerca a piedinudi 


A volte la poesia è più grassa, la invitano a cena anche i poeti, gli amanti, cultori, ricchi, gli annoiati, chi se ne intende, i fautori, poi gironzola i bar siede ai caffè, sa stare al mondo al mondo accetta, e nutre il bello 

Ma tu, pure se taci sei fastidio, lo sguardo smarrito, riempito da guance cave il silenzio,   come su schermo di cinema ti scorre addosso la teoria affollata delle facce che in questo istante muore per fame silenzio lo stupro irrisione, sgozza il cannone o che altro, cadi tra gli astanti come la mosca nello champagne, c’è da gettare via tutto quando arrivi

anche le cose

deliziose 
 

Da: Allì Caracciolo, Malincóre (una fonologia del vuoto), Cittadella (PD), Amadeus, 1996. 

[8]

tras-figurazioni sublimi per leggere la vita | divinità del dolore-uomo |

plasticità del vizio | amore perduta nobiltà feroce |

tale

vorrei di te – poesia –     ( come a promessa ) e renderti divina      ma vieni da

( vivi in ) una mí

seria nuda

e ti stendi sul greto stancamente a vendere quel po’ di amore che ti ricava dalle tue cóscescárne

un piatto di minestra 
 

[9]

l’impercettibile vuoto

dove tutte avvenivano

tutte si perdono

le mutazioni 
 

[10]

Prolusione affidata all’oralità 


Non parlerò della mia attività di poeta

per coerenza con una biografia intellettuale scandita dal silenzio: quello

imposto /dalla poesia

        \da me

e quello imposto da altri

con la differenza sostanziale della violenza

(l’esortazione cioè quotidiana a vivere senza annunciare la qualità definitoria della parola simultaneamente alla sua precarietà

l’imposizione di un cursus in cui essa –la parola- sancisce qualificando gli adepti escludendo gli esclusi)

La sua irrinunciabile diversità –della parola- è il memento del poeta: la parola come il tempo rovina via, precaria ed irripetibile è teatro che vanisce

Non potrà la poesia mai acquisire la sostanza dell’auctoritas poiché questa istituisce il déjà-dit

L’inespresso, tuttavia, non può sostituire/costituire poesia.

L’unico silenzio è una poesia che si destituisce da se stessa.

Cogliere questo istante è il mio (vocazione imperativo identità) mestiere. 
 

Dal Poemetto Abbozzo per Campana. La Insomiglianza, in La Insomiglianza quattro poemetti, Salerno, Ripostes, 2007. [Finale della II parte, III parte] 

[11]

II

     […]

     stabilire metafore

            tutte

            ogni possibile metafora

per rintracciarne una sola

essa

quella che ti fa vivere

oppure si cela nella identità di somiglianze

lontane fino allo sradicamento totale

alla inversa sostanza

alla

ínsomiglianza 


scrivevi versi sulle foglie 


Sibilla stanca

talora attenui il tuo corso

il gemito dell’antro tutto risonante

tempesta di vento o di sospiri

l’urlo

trascina le foglie non la musa assopita

            – sognava danze

            o

         altro –

l’urlo che imbianca le colline

col rovescio argentato delle foglie

sonagli

le serra

la libertà un filo spinato da scavalcare

le distende argentine

garrule sulla cresta dell’onda

la libertà una ruggine

sonagli

le serra risonanti come la catena

le serra il catenaccio

la libertà

una setticemia dell’anima 
 

III

poesia

evanescenza che non torna

Andare andare

e poi

la muta orgia sbranamento furioso

Venga la morte pallida e mi dica

verrà

l’oscura baccante a divorare 


l’ingordigia e il silenzio

tutto

fu taciuto

Andare andare

e tu bagliore

Nel dolor d’infinite morti amare

vanenteuridice ferma all’attimo

in cui tendi le braccia ti dilegui

tu

poesia

……… 
 


Da Allì Caracciolo, Stampe da manoscritti apocrifi (pubblicazione in corso).

[12]

Teoria del romanzo o altro 

. Il rapporto tra i personaggi. la loro qualità : assenti indecifrabili. definiti una sola volta da un segnale di frase.poi perduti per sempre

                   ↓ 

che non mira a definire alcun personaggio alcuna qualità.solo a sottintendere una parziale memoria·una presunta allucinazione da cui

     il senso -l’unico : parziale·presunto-

     dell’esistenza. 


. L’assenza di pagine : poiché il numero  -o il Numero-  c’è  -quando c’è- 

ma è altro. tuttavia

     ↓ 

una numerazione scandita attraverso parole che percepiscono il fieri momentaneo è attestata -talvolta- nella precaria situazione di un capolettera o di un precipizio sulle/delle parole:

      piuttosto sulla assenza. 


. La capacità  -qualcosa di occulto-  di contenere uomini animali cose si sottrae : l’atto unico consentito al movimento dal quale dipende tutta la successione-simultanea dell’essere nelle sue metamorfosi. la scansione____una lunga linea interminata stabilita dalla necessità di ricondurre la parola ad una qualche permeabilità con lo spazio

poi:

la condizione asituazionale   -schermo·paradosso della asensorietà delle cose. della improbabilità del reale- 


. Il tempo____una assunzione del predicato necessitato a coniugare se stesso nei framm enti dello specchio : illusorio passato·frammento·falsofuturo____negazione-riproduzione

una negazione riprodotta ad infinitum nel nulla·assenza e -pure-

riflessione-rifrazione di un oggetto inidentificabile nello spazio che lo produce come necessità ultima della propria credibilità (metafora : bubbone stanco sostituitosi alla materia) tuttavia:

(gli squarci della lirica ne individuano  -a tratti-  i bordi frastagliati l’umore di ferita l’abisso senza fondo della sua profondità cancrena). 


. La sapienza  -la ignara sostituta della conoscenza-  frantumata nelle piccole pieghe di un particolare ostinato a non trasmettersi e a qualificare il reale : o non piuttosto l’esistenza? 


. La legittimità -infine. requisito assente dell’origine : la sua assenza

delegittima l’esistenza. o non piuttosto l’essere?

                  ↓

la autodefinizione attraverso la parola

o attraverso

il silenzio

      anche il silenzio  -invalso idolo- 

      un esposto sulle scale del tempio.

Italo Testa

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Italo Testa (1972), vive a Milano. Ha pubblicato per la poesia il concept album «canti ostili» (Lietocolle, Como, 2007), la raccolta «Biometrie» (Manni, Lecce, 2005, premio San Giuliano Terme/Poesia Incivile) e il poemetto «Gli aspri inganni» (Lietocolle, Como, 2004). Ha ottenuto per la raccolta inedita i premi Dario Bellezza e Eugenio Montale. Suoi testi sono apparsi in antologie, tra cui «Chaos and Communication» (Link Diversity, Sarajevo, 2001), «Così non ti chiamo per nome» (Empiria, Roma, 2001), «Nodo Sottile 3» (Crocetti, Milano, 2003), «Parco Poesia» (Guaraldi, Rimini, 2003 e 2004), «Il presente della poesia italiana» (Lietocolle, Como, 2006), «Poesia e natura» (Le lettere, Firenze, 2007), «La joven poesía italiana» (Cuadernos del matemático, Madrid, 2007) e su diverse riviste, tra cui «Portals. A Journal in Comparative Literature», «Gradiva», «El coloquio de los perros», «Atelier», «Almanacco del Ramo d’Oro», «Pelagos», «Nazione Indiana», «Il primo Amore», «Poesia da fare». Ha pubblicato saggi in volume e su riviste, tra cui «aut aut», «L’ospite ingrato», «Il ponte», «Reset», «La Società degli Individui». E’ co-direttore della rivista di poesia «L’Ulisse» e, presso Diabasis, della collana di saggistica «La Ginestra».

Italo Testa: Nota teorica e poesie edite e inedite

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Dell’etologia poetica 


1.  

L'impulso all'espressione, dapprima tensione mimetica ad assimilarsi alle cose, si arresta nella cesura formale, con un colpo all'indietro che lo riporta su se stesso. Solo di qui è possibile un ritorno alle cose, ora prossime perché estranee. Così l'adattamento non è puro conformismo, bensì tensione che trasforma, metamorfosi. In questa direzione la poesia supera la forma tradizionale delle architetture verbali, basata sull'opposizione figura/sfondo, e si riallaccia alla concezione topografica figura/figura: diventa elemento sporgente ma fuso nel terreno dell'esperienza. La figura, mentre si integra nella topografia del luogo, insieme ne deforma il profilo, escrescenza linguistica che genera nuove forme di vita, inedite morfologie linguistiche. Come un un'arte del paesaggio essa s'innesta nel terrain vague, tra i margini inselvatichiti di parole e cose, rinvigorendone gli arbusti e rendendo riconoscibile la silva dove prima si scorgeva solo un panorama di rovi e detriti.  


2.  

Così, con cura biometrica, l'ars poetica continua la sua tessitura, anche quando le strutture consolidate, le tradizioni si sfaldano. Il grado zero della cultura, che in certi momenti sembra prossimo come non mai, è forse anche un'occasione per la poesia che, come pratica istitutiva, non necessita, nel suo fare paziente, di una legittimazione esterna. In questa prevalenza dell'agire, del fare, la scrittura poetica torna alla sua qualifica di ape operaia, di silenzioso e operoso artigianato che tesse una tela mai pienamente aggiudicabile ideologicamente. Certo, vi e' anche la resistenza dai margini e la salvezza dell'esclusione: ma qui la poesia resiste proprio perche' viene meno il lungo errore dell'appartenenza piena. Quando il tutto che la teneva coesa come pratica culturale si dissolve, la poesia continua a sporgere da quel terreno guasto, facendo segno ad altro. Non piu' sorretto o puntellato da un sistema riconosciuto di valori, questo gesto, acme dell'individuazione, torna a poggiare sull'etologia poetica della specie, ma proprio in questa nudità si osserva dal futuro. 
 


Da Come non torni. Quartetti per la fine del giorno, inedito, 1990-1995


INVITO     
 

Silenzioso il cielo sussurra inviti

ad abbandonare l’arsura, lievi

le vostre voci un cristallo raccolga.

Grumo immemore attende nel tepore

di una calda palude: non ala, battito

che franga lo specchio d’acque oscure

anteriori al giorno.



*


Come non torni, che sgocciola

e fa buio, quasi si leva

dai fossi uno spicco d'urlo,

non sai che in povertà

si consumano bosco e cielo,

un ramo che nella nudità t'incarni,

come non parli, del crollo della vigna,

dove nascosto ancora pregavi,

è vuoto il cesto degli aculei

e tu non torni, la stanza è vuota

di un nulla, un’attesa vigile

che un qualche fuoco arda,

perché non mormori la condanna,

il casolare ormai deserto,

solo ombre quelli che ti cercavano,

quell'ultimo rintocco.



CONGEDO 


Come la vita che scorre intatta

e attraversa la notte: la perdita

è paglia e il silenzio è dono. 
 


Da Gli aspri inganni, Lietocolle, Como, 2004


I. 


Devi fare attenzione, orientare lo sguardo

in direzione del flusso: è bianco il velo

che lambisce i contorni, che accieca: 

tu al bianco devi cedere, muto

aderire all’indifferenza delle cose.

 


II. 

Misura il respiro, lascia aderire

alle forme dell’inganno le membra;

le ossa tenere sfiorano il suolo

a cui il peso dei giorni trattiene 

come brocche dai cieli bagnate;

raccogli, lascia variare i silenzi

di cui nel vetro dell’aria t’investi;

tu lascia vibrare ancora i colori: 

se al docile buio un’ombra t’inscrive

inarca le spalle, al vuoto confida

il resoconto terrestre, gli aspri 

inganni delle forme: tu socchiudi

il passaggio, lenta lascia pulsare

distante la peripezia del tempo.

 


III. 


Se cadi e l’ala non sorregge i passi

che nell’azzurro il corpo in volo traccia,

lascia scorrere l’inganno splendente

ogni cosa fa segno all’estraneo; 

se nel velo la pupilla si annoda,

coda di volpe l’incanto assopisce

dal manto del giorno schiuma apparenza;

chi perde il sentiero presto fiorisce, 

cadendo nel vuoto il taglio richiude

da cui insanguinato un giorno ti levi;

se al suolo un’ombra serena aderisce, 

lascia vibrare ancora i contorni:

la misura si compie, il segno traccia

una nuova voluta nell’aria. 




Da Biometrie, Manni, 2005



RETINE 


  Di ora in ora, appena scatta un allarme

da qualche parte una luce si accende

tra le tende il tuo corpo si nasconde

dalla donna che nella stanza dorme.

  Poi dal frigo un sibilo si propaga:

imbevuto di una tinta acida

il quadro luminoso della strada

sovresposto sulla pupilla dilaga.

  Se un elicottero verde veleno

sovrasta le insegne della notte

battendo ai vetri, dal decimo piano

  manda il tuo segno al profilo alieno

fondi la retina al cerchio radiante

del dio in acciaio metropolitano.

 


SEPOLTO, ASSOLTO 


nel limbo di specchi io mi addoloro

su questa pietra tatuata nel gelo

nell’abbraccio freddo della marea mi verso

se dalla schiuma del vetro riemergo: 


                                                          vedi dell’oscuro le tracce, i lembi

                                                                sfrangi, ammutolito, nel buio:

                                                  discanti il gelo, nel taglio di un mondo

                                                                  la semina dei giorni disperdi: 


nel sonno, io, sepolto assolto

dall’evento tendo il profilo

la cornea sull’incavo del giorno: 


                                                          preso nel laccio non vedi figure

                                                      nel fondo del sogno  scendi, ricadi

                                                                          frammenti di specchi:

 



KARL-MARX ALLEE


1. 


niente avrebbe detto, quell’intercalare

fatto di brevi sospiri, soffi

nel ricevitore,

alterne attese, ma non c’era

malignità in quelle parole,

anche se avevano

la durezza di un vetro,

quasi gli uscivano senza volere, niente

a che fare con le minacce,

i ricatti che erano

il tessuto di quei colloqui,

niente era

il suo intercalare, e lì, in quel tic,

potevi leggere la conferma di quello

che pensava, lamentoso

o sprezzante: niente    


2. 


camminavi con gli occhi chiusi,

o con le palpebre arrossate,

come di chi avesse pianto. 

Ma non avevi pianto.

Niente hai detto, non è stato niente

un’increspatura sull’acqua, una spirale

sulla sabbia:

ad occhi chiusi filtrava

la forma vuota delle nostre vite

in attesa

la geometria lineare della Karl–Marx

Allee

nel breve declino d’Agosto

due ombre nella fuga di vetrate

tra la polvere dei cantieri: dal niente

la selva di specchi profilava i tuoi occhi

una notte qualunque a Potsdamer Platz 
 

3. 


Inizio dell’estate sotto la nuvolaglia

della Ruhr.

Ti dibatti ancora nell’ora

del falso sentire: in proroga concedi i tuoi

giorni, come se il carico

fosse inesauribile

è ai doveri verso te stesso cui sfuggi

perché di te stesso disperi. 
 

Ti allontani, vorresti uscire dal sentiero

per incamminarti nel folto:

detriti di stelle

osano ricoprirti, come artigli

si configgono




Da Canti ostili, Lietocolle, Como, 2007



DISARMATI


ostili, sì, alla vita

sbandiamo sulla traccia

illuminata  a giorno 

intorno si dirada

il folto della macchia

sull'altopiano arioso 

ad altro è inteso il chiodo

puntato sulla tempia

nell'ora che si sfalda 

e rapinoso un volto

rimanda svelto un cenno

che al mondo ci disarma

 


IMPLACATO  
 
 

il sangue che non hai versato

alla battuta d’armi

sui calanchi franosi:                          sbanda nella luce, gira e cade

                                                                    ma la neve, dice, la neve… 
 
 

l’amore che non ha dato

frutto alla terra

in gesti netti e operosi:                      manca un giorno, un’ora, una foglia

                                                                 è il 24 aprile, ma cade, cade…



la paura che non vi ha stretto

addossati ai muri

sotto i colpi esplosi:                          così al campo, che ha arato

                                                                     offre le labbra e confida 
 


II 


qui, nei vostri poderi,

ricalcando i passi

dove la storia ha fissato

una tranquilla dimora,

prendiamo possesso, noi

di un tempo che frana,

per una traccia andiamo

che a voi ci riconduca: 

e fiutiamo, se il vento gira,

con le narici umide di brina

un sangue, implacato, nella neve:                ma canta il dolore che accomuna

                                                                        e una lepre, in fuga, sotto i gelsi 

(Monte Falcone)



SARAJEVO TAPES


VI [16 luglio, spalato: h. 9] 


un bagno d’ocra, di rocce, di scaglie t’accoglie

muri a secco e alle fermate d’autobus

murales stinti con bottiglie di pepsi 

per vie d’acqua, confluendo la macchia verde

   si penetra all’interno

il perimetro del mare ritaglia in occhi verdi

laghi cinesi, una cartolina dal mondo: 

lasciati invadere dall’inganno dei colori

lascia scorrere i profili 

gli occhi degli uomini furono fatti

per guardare: e lasciateli guardare


***


VII [per mostar: h. 16] 


mi dicono che i tuoi occhi sono vuoti

mi dicono che i tuoi occhi sono stupefatti 

segui lo sventolio dei drappi

il rosso, il bianco, il blu

distesi tra le rocce, sulle case

in costruzione a fianco della strada 

mi dicono che i tuoi occhi non vedono prati

mi dicono che i tuoi occhi s’incantano 

conta, ad uno ad uno,

i parallelepipedi bianchi

le bianche distese, da ogni lato

l’abbraccio del paesaggio

fitto di cippi, giallo di luce 

mi dicono che i tuoi occhi si dissipano

mi dicono che i tuoi occhi, i tuoi occhi 

a seguire le cave di sabbia sul fiume

dopo mostar, i mucchi di sabbia e di terra

scavati, nella luce, senza ombra,

per ogni gruppo di case una distesa

di pietre bianche, erette, immobili 

Nicola Ponzio

Versione stampabilePDF versionNicola Ponzio è nato a Napoli nel 1961. Vive e lavora a Torino.

Poeta e artista, ha esordito pubblicando suoi testi poetici in varie riviste letterarie italiane, tra cui Nuovi Argomenti, Galleria e Atelier.

Suoi versi sono presenti in diverse antologie, ultima, Il presente della poesia italiana, a cura di Carlo Dentali e Stefano Salvi. (Lietocollelibri, Como 2006).

Ha pubblicato le seguenti raccolte poetiche: Gli ospiti e i luoghi (Nuova Editrice Magenta, Varese 2005), L’equilibrio nell’ombra (Lietocollelibri, Como 2007), l’e-book Esercizi del rischio (Biagio Cepollaro E-dizioni, 2007)

Nicola Ponzio: Nota teorica e poesie edite

Versione stampabilePDF version    Appunti e contrappunti di poetica

    1
    Guardi un albero e dici: bisogna radicarsi nella terra, per volgere lo sguardo verso il cielo. Ed ecco che l’esigenza di una poesia ctonia, terrestre e interrogante, si rivela in tutta la sua energia mortale, entropica. Mai separata dall’idea di doversi confrontare con la nuda brevità dell’esistenza.

    2
    La poesia, ovvero, il ritmo come forma del respiro. Scrivere per me significa cercare un ritmo che coincida col respiro, un continuo tra mente e corpo, materia e pensiero, visibile e invisibile, che superi il sistema binario delle rappresentazioni. Da qui il difficile equilibrio di una scrittura che pare sempre sfuggire di fronte al proprio referente. L’alterità che cerco così di rappresentare (mai di descrivere) è colta dall'interno della sua eterna e presente contraddizione. Specchio di ogni agire umano.

    3
    L’esperienza del vuoto, di fronte alla pagina bianca, determina il conflitto con la  necessità. Nasce così l’urgenza di stabilire delle priorità rispetto alla propria  ricerca. Rigore, consapevolezza, ascolto. Ancora, una scrittura poetica che non si confronti anche con il corpo di una comunità in divenire, oltre che con la caducità inerente alla propria biologia ed esperienza mortale, rischia di apparire infeconda, arida. Conseguentemente è probabile che non produca frutti autentici, ma solo surrogati di maniera.   

    4
    Etica ed esperienza devono necessariamente coincidere, per rompere il silenzio. Soltanto in seguito si appresta la parola. La lingua poetica diventa così territorio privilegiato d’indagine, meditazione e pensiero. Analogamente alla natura che le fa da specchio, nella sua molteplicità ed erranza. Lingua e natura, quindi, connaturate all’uomo e  identificabili alla stregua di un’interrogazione enigmatica intorno al senso dell’essere e al divenire, al destino e all’alterità.   

    5
    Ma la poesia è anche silenzio. Pausa. Inspirazione, espirazione. Assenza e separazione. Veglia. Attesa. Rotta. Oblio.

    6
    Nell’aperto l’universo metamorfico della poesia si manifesta in tutta la sua crudeltà e bellezza. L’aperto, ovvero la natura ignota e liberatrice, ci espone al rischio dell’erranza totale, al nomadismo definitivo e inafferrabile. La coincidenza degli opposti si fa esplicita, nel fuoco dei possibili alfabeti.    

    7
    Abitare le parole necessarie, ricavandone un’icona del dolore.
    Sottrarre e sottrarre, sempre, e senza tentennare. Vigilando sul respiro e sul silenzio. Ubbidendo a un comando. Aggiungere il giusto sostanziale perché l’osso non ferisca ma affratelli. Come un talismano appeso al collo.

    8
    Pensare obliquamente rispetto alle categorie logiche del sapere scientifico. Curare le relazioni tra gli enti interrogando le parole con umiltà e coraggio, confrontandosi con la tradizione e ponendosi in ascolto con l’alterità.

    La poesia si espone all’apertura spazio-temporale dell’ossimoro e della contraddizione, offrendo la possibilità di esplorare gli abissi della coscienza umana e della percezione del mondo. Senza pretendere salvezza né conforto.   

    9
    Dove finisce la mia poesia comincia quella di un altro.
    Dove comincia la mia poesia?
    Dove finisce la tua poesia?
    Tornare per partire per tornare.

    10
    La coscienza della dissipazione dovrebbe essere compresa in ogni autentica poesia.  Non desidero specchiarmi sulla carta, piuttosto sprofondarvi per riemergere diverso, dopo una lunga apnea. Dall’uomo all’uomo, da un respiro a un respiro firmando una rotta, nella consapevolezza di non pretendere nessun compenso, nessun onore che già non sia connaturato al dono di poter scrivere qualcosa di umanamente autentico, in una forma che passerà.

    11
    Diciamo addio a ogni poesia che ci consoli. Basta! Occorre affrancarsi definitivamente da questi limiti. La caducità dell’esistenza, il momento presente e continuo del distacco, andrebbero accettati senza rivalse sul reale. Il vuoto a venire è già presente nelle orme di un bambino che cammina sulla sabbia. O dentro gli occhi di una gazza, dove si specchia il mondo. Questo accettare. Questo cantare. Senza pretendere salvezza o compromessi.

    12
    Si scrive sempre da un esilio, da una separatezza, affinando le parole in un abbraccio che sia partecipe di ogni cosa del mondo: i riflessi dell’alba su un filo d’erba, le ombre tremolanti sulla neve, il fuoco lungo i margini di un bosco.
    Rinunciare all’attaccamento a se stessi come se questa fosse la più umana delle priorità. Nessun intimismo, quindi, tanto meno patetici soggettivismi lirici dettati dal narcisismo più bieco.
    La poesia oggi non può essere altro che dissidenza. Dissidere, ovvero sedere separatamente, ascoltando con umiltà ma senza cedimenti. Rispondendo con l’apparente fragilità della parola poetica alle iniquità che ci assediano.

    13
    Si dice piede d’accento, non mano, non cuore, non occhio d’accento, ma piede. Forse per voler sottolineare l’attaccamento dell’unità ritmica alla terra, e quindi al respiro.
    Piede = cammino =  respiro = ritmo = nomadismo = erranza = poesia.
                      

Da GLI OSPITI E I LUOGHI
 

Dalla sezione Il falegname Zimmer
 

        Cedere in silenzio fino a eccedere,

        nel silenzio dell’alba. Convertirsi

        alla luce e della luce convertire

        con coraggio, con pietà le sue radici.

        Le sue monete d’oro e d’ombra.

        Custodirne l’alimento

        nel visibile dominio che protegge

        l’ostinata carità di questa carta.

        ***

        Ti metterò alla prova separando

        la viltà dalla tua vita.

        Dove sbocciano le api alla speranza

        di parlare con gli umani,

        in questa casa.


Dalla sezione Gusci


        Comunitario è chi con cura riconosce

        nella propria alterità

        quell’apertura necessaria a condividere

        con gli altri la sua fame.

        ***

        Pensare per frasi rotte

        con la bocca

        del sole che purifica i raccolti.

        ***

        Vivere di espedienti,

        per estinguere quel debito contratto con la luce,

        nella stessa planetaria economia

        di fame e usura.

        ***

        Parlato l’albero nessuno

        parla più.

        Sconveniente è il dialogo.

        ***

        Scrivere forse è sottrarre dal buio

        l’identità dell’alba.

        Premessa che pacifica negli occhi

        una sintassi più terrena, responsabile.

        Promessa che fa fronte alle menzogne

        con la forza di un impegno.


Da L’EQUILIBRIO NELL’OMBRA

dalla sezione Oscillazioni


        Gelsi e il prato un miracolo,
        nel gesto di riempire con il cielo
        la distanza della carne. L’esile

        materia più gelosa.

        Scegliere nel nome

        di ogni cosa la più giusta decisione.

        Credere è questo.

        Allontanarsi da sé per ritrovare

        la scrittura della vita

        in una gioia da disperdere.

        ***

        Coraggio delle scelte mattiniere,

        non attardarsi a discutere

        che cosa sia più giusto

        designare.

        Il tempo è nell’anticipo

        del falco.

        Nel suo respiro

        di meteora.

        Si danno nomi al mutevole

        del cielo senza ipotesi

        plausibili per l’erba che rinfranca.

        Come se tutto qui dovesse vivere

        per noi la stessa gioia,

        l’insostenibile esperienza

        di un convito

        di parole dentro l’erica.


dalla sezione Gli invisibili


        Voglio parole forti.

        Concrete.

        Simili ad un seme che s’infila

        nella crepa

        di una ripida parete di granito.

        ***

        Una chiarezza così estrema

        non permette

        di comprendere la luce

        che si maschera di pagine

        e di cenere,

        per essere vicina ed invisibile.

        ***

        Parlare delle nuvole per dire del dolore

        dei mortali.

        Mutevolezza

        dell’inchiostro che dissimula così

        la sua efficacia.

        La sua perseverante adolescenza.


dalla sezione La pagina, il fuoco


        Ergersi più audaci dentro il fuoco

        di parole che vivificano il cuore

        delle scelte.

        Impegno che determina

        chiarezza.

        Nell’estrema libertà di contraddirsi.

        ***

        Una poesia che non ci sappia provocare

        si smentisce nell’alone

        derisorio

        di un pensiero inappetente.

        ***

        Meglio gli scacchi che esaltarsi

        per le mezze verità dei merlettai.

        Riannodano nel canto per se stessi

        le parole dette piano agli impiccati.


Da ESERCIZI DEL RISCHIO


        Esiti, - dove si ostinano parole

        e resistenza.

        Rotoli in preda al silicio,

        tra segni elettronici persi

        nel vuoto del web.

        Ora insisti

        sui versi, - ti avviti

        sugli input, desisti…

        Se nel monitor vibrano impulsi vitali

        o già morti, - dati al ritmo di bit


Dalla sezione Ambienti


        Improvviso il rasoio

        di un lampo separa gli aironi

        serali dall’ampia risaia.

        Cromosfera di un’ombra

        remota che duplica i pioppi

        inclinati irradiando la vista.

        Le acque lungo l’asse provvisorio.

        ***

        Incoerente è la fede, improvvisa

        la virata di una tortora, - dice

        di un luogo il sigillo diurno.

        Poi, se sfiorendo si assolve

        da sé il paradigma intravisto, - il legame

        di luce che svela gli abbrivi, le foglie, -

        pure il testo si evolve,

        contrasta.

        Segue a domanda

        domanda, una cura agli indizi

        sabbiosi, alle trame di un mandala.


Dalla sezione Esercizi del rischio


        Più debole è la forza che si ostenta.

        Ma forte della stessa debolezza

        è la forza che arretra con arte

        ulteriore, - esponendosi al rischio.

        ***

        Ora maschera – innesta – poi sostanzia

        e dispera di sé mentre vira

        molteplice un verso di vita.

        Il lavoro degli anni, - l’umile

        vista o la brina al fermento di credere

        vero il volersi felice.

        Controversia e primizia.

        Disciplina che dura un istante

        ulteriore, - distante

        da sé e da quel che segue.

        ***

        Mente che mente

        e poi s’inluoga – deriva

        dalla stessa ambiguità

        delle parole questa crescita

        di senso.

        Come una prima nascita, la rima

        intermittente delle acacie.

        Avanguardia

        di luce che duplica il dubbio

        radente una lingua inventata.

Mauro Germani

Versione stampabilePDF versionMauro Germani è nato a Milano nel 1954. E’ stato fondatore e direttore responsabile della rivista di scrittura, pensiero e poesia “Margo”, che ha diretto fino al 1992.
Ha pubblicato i volumi di narrativa Racconti segreti (Forum, 1985)  e Il prescelto (Alberto Perdisa Editore, 2001), e i volumi di poesia L’attesa dell’ombra (Schema, 1988), L’ultimo sguardo (La Corte, 1995) e Luce del volto (Campanotto, 2002).
Suoi testi sono apparsi su varie riviste, tra cui “La Corte”, “Anterem”, “Atelier”, “La clessidra”, “Capoverso”, “Poesia”.

Mauro Germani: Nota teorica e poesie inedite

Versione stampabilePDF versionAll’appello che viene dall’ombra risponde la scrittura, l’ineluttabile rovina della luce e della storia. Si tratta di una parola senza protezioni, senza difesa. Chi l’accoglie sa del suo silenzio e del suo mistero. Si accinge a scrivere dall’esilio del suo ascolto, come sospeso tra due abissi: un fondo oscuro e segreto che si spalanca alle proprie spalle e qualcosa che da sempre attende come un destino. Ciò che resta è la traccia di una scomparsa, il segno di una voce perduta e di un desiderio, la risposta ad una chiamata antica.
La poesia è gettata nel mondo, è delicata e potente al tempo stesso. Nasce ai bordi dell’inesprimibile, tra salvezza e perdizione, tra memoria ed oblio.
Il poeta è colui che vive in sé la frontiera, il margine, l’inquietudine di un’alterità inafferrabile che sente nell’ombra. Sperimenta l’assenza dell’Altro e nel contempo ne ricerca la voce, una voce che da sempre tace nel suo dire, che si sottrae nel suo essere qui, nella carne e nel dolore dell’esistenza.
Che cosa può costruire allora il poeta?
Nel testo c’è sempre un altro testo perduto, tutta l’incompiutezza della scrittura. La costruzione avviene sulla sabbia delle parole, sul deserto di una lingua che frana. Come ha affermato Edmond Jabès, “per lo scrittore ogni parola scritta nasconde un’altra parola del tutto inafferrabile ma incessantemente differita e infinitamente più essenziale. Verso questa parola egli tende”.
E proprio questa tensione mai placata definisce  a poco a poco lo spazio della scrittura, una zona che è per noi lontananza ed intimità, spaesamento e familiarità, costruzione e maceria.


*
Scrittura
d’ombra
e d’esilio,
capovolta
aurora
di pagine
perse.

Dov’è
il vento
che chiama
le labbra,
il raggio
bianco
che scuote
la terra?

Dov’è
la voce
perduta
del sasso,
l’eco
ammutolita
del cielo?

Tutto
si cancella
dove tutto
perdura.


*
Spegnere
un nome
eppure
vederlo
amarlo
senza
ritegno.

Finire
adesso
il mai
cominciato.

E sapere
le notti
che non sanno
e invocare
il cielo
prima
del cielo.

Aspettare
il silenzio.

Scrivere.

Scrivere
sempre
il già
cancellato


*
Persa
raccolta,
persa
memoria.

Catastrofe
dove
il tempo
barcolla
e tace
la notte
tace
il volto
che guarda
l’abisso.

E tutto è
un salto
d’addio
un gesto
solo

aperto
nel vuoto.

Maria Paola Svampa

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Maria Paola Svampa è una laureanda in Letteratura e Filologia Moderna e Contemporanea dell’Università di Macerata. Si interessa di poesia di lingua inglese ed italiana del 19° e 20° secolo, scrittura delle donne, e di studi comparatistici. È in programmazione l’uscita di un articolo sul Sublime kantiano nella poesia di Letitia Landon, presso Literature Compass (Blackwell Publishing). Attualmente si sta occupando dei rapporti ideologici ed editoriali del Rinascimento Americano con la poesia Vittoriana.

Maria Paola Svampa: Nota teorica e poesie inedite

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Solvitur Ambulando. La poesia come incontro. 


     Io non ho un programma, squadrato in bianco e nero, piegato netto in tasca, da squadernare a piacimento. Al massimo – passeggio – leggo, e prendo appunti. E tra i miei appunti – tre punti mi stanno a cuore – il corpo, la performatività, e l’incontro. 

     Doppia chiave 

     Che la scrittura delle donne sia una scrittura del corpo non vengo certo a dirvelo io. La “questione” sta semmai in come questa chiave (di lettura, e legatura) venga usata, ed abusata. Come tutte le chiavi, la si infila per aprire, ma anche per chiudere.

     La porta della mia stanza è una di quelle vecchie porte a doppia chiusura, con chiave e chiavistello non comunicanti. Un chiave esterna serra e disserra a capriccio la stanza – e all’interno tiene un chiavistello, che stringe la stanza da dentro, e si schiude solo per scelta. È questa incomunicabilità, di chiusure ed aperture, che genera la relazione. Con una sola chiave, con una sola serratura, non si dà tensione, ma rapporto di potere – dentro, fuori – non si dà comunicazione.

     La parola del corpo ha avuto il merito di schiudere l’ingresso al laboratorio dell’esperienza poetica. L’errore sta nell’usare poi questa parola del corpo come serratura singola ed inerme, da aprire – e soprattutto da chiudere – a chiave, da fuori, senza considerare la controparte interna. Far riferimento sempre, comunque, ed acriticamente al linguaggio del corpo quando si parla di scrittura delle donne è una seduzione macchiata di cattiva coscienza. Non fa che perpetrare l’antica equazione “donna uguale corpo”. L’insidia sta nel fatto che essa seduce la stessa parola delle donne, spegnendone il carattere. L’adulazione programmatica e normativa della “specificità” della nostra parola ci incasella – la chiave ci chiude in cella, ancora ed ancora ed ancora: fine dei giochi. Se la parola delle donne è automaticamente una parola del corpo, allora c’è poco d’altro che essa possa dire. Come se la “mente” esistesse fuori dalla carne, e come se anche gli uomini non pensassero da “dentro”.

     L’errore sta nel pensare che la scrittura delle donne parli semplicemente del corpo – e come tutti sappiamo, ogni brava donna se ne sta prima di tutto dentro al suo corpo, a fare l’amante, la mamma, la vergine. Questo rende la parola delle donne irrimediabilmente e costitutivamente isterica, e ne stronca la portata trans-gender.

     Le donne non parlano del corpo – parlano dal corpo. Parliamo da un luogo ineludibile ed incancellabile, con la consapevolezza che quando si parla – o si legge – non si è mai originariamente illibati, intoccati dall’esperienza, e che quest’esperienza avviene solo nel corpo. Il corpo non è solo il corpo femminile – ma è la modalità dell’esistenza e della riflessione umana. Il corpo non è una chiave di lettura, ma la carne ineludibile e calda dell’esistenza, ed anche dell’esistenza del testo. Il corpo non è uno strumento critico, ma dato fattuale e pulsante. “My body is not your battle-ground”, dice Mohja Kahf nelle sue E-mails from Scheherazad. E non va trattato come tale. Nè sulla pagina, né sulla piazza.

     La parola delle donne ha il merito di aver aperto e reso centrale l’essere materialmente “locato” del soggetto parlante. A chi legge non spetta una preoccupazione definitoria e circoscrivente, non l’uso arbitrario e rassicurante di una chiave. Chi legge è tenuto, è chiamato ad oltrepassare la porta, a scoprire il proprio pensiero come irredimibilmente locato nel proprio corpo. La novità della poesia delle donne, semmai, sta nel “pro-vocare” il lettore a ri-conoscersi come soggetto incarnato. 

Prendere la parola 

     Una parola che nasca consapevolmente ed intenzionalmente dal corpo impone per coerenza una riflessione sulla stessa sul fenomeno della produzione linguistica. La parola poetica, e forse non solo essa, non nasce come parola astratta, come puro pensiero tradotto su supporto materiale. La parola poetica è di natura fisica già nell’istante del concepimento. Il verso nasce come pensiero in ritmo, e cioè come spostamento sonoro, e quindi fisico, sensoriale, attraverso il cronotopo.

     Ma un verso, per realizzarsi come tale, deve ovviamente essere fruito, e riconosciuto come tale. La lista di personaggi da scomodare in materia è infinita, e passa per Sartre e Marziale. Un verso allora, se nasce come unità ritmica, come nodo indistricabile di carne pensiero ed azione, e se si compie solo attraverso la fruizione, può essere valorizzato dalla performatività.

     Ma con performatività non si intende solamente “l’offrire pubblica lettura di un testo poetico”, attività peraltro utilissima ai fini di riattivare il rapporto con il pubblico. La performatività è una struttura profonda del testo poetico. La parola, ed in particolare la parola poetica, nominandole, chiama le cose all’essere. Questa è la natura prima e costitutiva della performatività del linguaggio poetico (e non solo). La parola poetica nasce come stringa ritmica il cui movimento sonoro attraverso lo spazio ed il tempo costituisce elemento fondante della significazione.

     È a questo punto piuttosto difficile immaginare un testo poetico che “non funzioni” nella performance, o un autore che “non sappia” leggere se stesso. Quando questo accade, siamo di fronte ad una mancanza. Una mancanza che può essere intenzionale, e che quindi diventa strategia (anti)comunicativa, rientrando così nell’ambito della performatività; ma che spesso, purtroppo, è solamente una mancanza inconsapevole.

     Pensare alla lettura, e perché no, anche alla lettura a voce alta, e alla lettura reiterata come avvicinamento al testo non significa solamente prendere atto della natura del testo poetico come pensiero materico. Significa anche aprirsi al fruitore sin dall’inizio, sin dall’atto creativo, ammettere alla coscienza che la creazione è un atto sociale, liberandosi così dalle mitologie solipsistiche. 

La poesia in cammino 

     La parola è un’arte impura – e sporca è la poesia. La parola sarà anche ombra di un’idea – ma porta addosso l’odore del mondo e di ogni luogo in cui è stata. La poesia s’impasta fango d’albero e sputo di seppia, asciugato dalla polvere della via, perché tutto – è – materia. Soprattutto in poesia, fatta di ragioni, misure, metri, piedi...

     La “ragione” di un testo poetico è nel suo libro conti, elenco bruto, economico, ponderato, valutato, misurato. Nel libro di conti s’incontrano calcolo e materia; la sua misura sana la frattura (tutta immaginaria) tra l’astratto ed il concreto, tra un passato di cui dar conto ed un futuro da programmare – proprio come avviene nel testo poetico. Il libro conti possiede tutta l’oggettività d’uso che gli viene concessa da chi lo usa, da chi lo interpreta. Il libro conti non sta a sé ma, legato alla “realtà”, lega chi lo redige e chi lo legge.

     La poesia è fatta di misura. È fatta di movimento – scorre, s’impunta, ristagna, procede a salti, si sustanzia solamente nello spazio e nel tempo. La misura è un palmo di strada, uno dopo l’altro, scopo, ragione e mezzo costituente del viaggio. È la misura fa il viaggio – e la poesia, che si fa viaggio. La misura è una curva percorsa, la misura è carne numerica, la misura ci fa, e ne disfa il senso.

     La scrittura dunque innesca un incontro tra pari, in cui chi legge conta tanto quanto chi scrive, chi dispone del testo conta tanto quanto chi lo propone; essa genera una democrazia della differenza, della donazione di senso, dell’ascolto, della costruzione. Il testo è una strada, ed è su questa strada, in questo viaggio, che avviene l’incontro, o meglio molti incontri. Incontri combinati, a volte; a volte appuntamenti al buio.

     Se mettersi attorno al testo – leggerlo, scriverlo, parlarne, anche solo osservarlo – significa mettersi in strada, allora tutto ciò che possiamo sapere del testo non è che conoscenza di viaggio, o meglio, conoscenza in viaggio. Non possiamo parlare di viaggio (fisico o meno che sia) dal centro di una fissità, senza aver accumulato miglia e miglia nei piedi e nella mente, senza accettarne il carattere precipuo di incontro in movimento. E se la poesia è un viaggio, non possiamo accostarci ad essa muniti di concetti “incellophanati”: per andarle incontro dobbiamo essere disposti ad intraprendere ogni volta un viaggio, con tutti i rischi e le rivoluzioni che esso comporta. Perché un viaggio interroga le origini, e talvolta le modifica. E così se la teoria legge la poesia, oggi la poesia usa la teoria, la piega, la celebra e la sbeffeggia – le getta il guanto di sfida. Oggi, sta a noi lettori raccoglierlo.

     Non si tratta di abbandonarsi all’impressione fuggevole di una “esperienza” passeggera, ma di mettersi, ogni volta, in umile ascolto del testo. “Rimanere presso il lavoro” diceva Cézanne. Io sto dalla parte del lettore. Avvicinandoci al testo non siamo mai vergini. Né possiamo “uscire” da noi stessi, spogliandoci della carne del nostro vissuto e delle nostre conoscenze. Ma non possiamo limitarci a leggere il testo come uno specchio entro il quale troviamo conferma delle nostre teorie e delle nostre conoscenze acquisite. Un testo è una chiamata ad un incontro – sta a noi metterci in cammino, e intraprendere il dialogo. Un testo si scioglie solo percorrendolo. 

     I testi che seguono sono delle missive, degli appunti di viaggio, ponti caracollanti, dialoghi forse impossibili tra i soggetti, ma tentati – tra il testo e il lettore. Le miglia marine e terrestri sono il segno di una distanza incolmabile eppure cercata,  ribadita come autoaffermazione, esuberante o ripiegata. Tipi e generi di una tradizione (auto)ironicamente usurpata e miscelata in fondante ambiguità non hanno il valore di un compiaciuto capriccio combinatorio. Questo è un tentativo, seppur barbarico, di rimettere in moto nel testo le tradizioni, i generi, i pensieri, le parole, la carne, così come essi sono simultaneamente all’opera nel reale.  



Testi poetici


la selvaggia sul ponte 


Distesa coll’odore appena amaro • che amo incassato in faccia • io - sono - Berthe • Berthe dai begli occhi - Berthe la fraintesa - Berthe la disprezzata - Berthe bambina cattiva • che non ha mai scritto a te • Berthe rotonda e nera - tranne che al sole • bestia di questa terra • di sera - di nodi di lana verde • spighe e rivoli di fuoco - orlati di spighe ancora - spighe e fuoco • dentro e intorno agli occhi • Berthe che abita il mare • quel mare che per te era vacanza per me era l’unica via • e mentre tu giocavi con le vele - io mi aggiustavo gli alamari spianavo la mia giacca blu e consunta• come tintinnano dorati • i miei crini d’Achille - le mie ciglia bionde • Berthe piccina e nera - rotonda e nera • m’avvio lungo il molo • per saluto una risata • perché solo legata • al grande albero di pino bianco • Dio com’è bianco - d’alabastro diritto polito e mio • mia ancora - mio arpione - mio rostro in ogni senso • soprattutto in quello che non sai – capire – carpire • perché Berthe da piccola era Greta • e sosteneva che fosse già morta • ma era solo una scusa per non comportarmi bene • per tagliare quadrati di mare • e dare la colpa al gatto - si sa che ogni nave ne ha bisogno prima o poi  • Berthe o forse Bertha • che porta il fuoco nei sogni • considerate le parole che inseguo - presto più presto • trafiggile con una freccia – la mia freccia d’ebano e calda • prima che s’acquattino nel buio – sotto la luna • le mie perle le mie - collane di perle • che da sola tendo tutt’intorno - alle impurità del mondo - a non ferirmi la carne • e non sono le vostre collane • angelo ninfa e musa no grazie • a me • lasciate  • il desiderio • ad essere una pagina bianca – e nera • non mi sono ancora • arresa • Berthe la malappresa - Berthe rotonda e nera • nena • Berthe l’ispanica – dai capelli rossi • Berthe che ha come sempre • troppo sole spalmato addosso • e ne brucia l’aria d’intorno • finché non s’affievolisce il fiato • e allora ride – mistero superiore • di sé – di te – e di tutto il resto 



la strada per roma

vent’anni dopo · la strada per roma è ancora lì · bianca intatta immaginaria immaginata impercorsa · solo che stavolta · si allunga ancora più in là · segue il corso degli imperi · quest’impero del sonno · questa lana verde e dorata · che i tuoi occhi azzurri che la tua pelle rossa · amavan tanto · non si è mai destata · il grande sonno · nella luce di sorbetto della sicilia · non c’è mai stato · ma puoi trovarlo qui · nelle pieghe grasse e antiche · imberbi · nell’ombra di pioppi sulle nostre guance · ed ora · nel bianco scheggiato · di questi campi scoscesi scosciati indecenti · east of nowhere · da qui · siamo sempre dovuti fuggire · fuggire dalla terra ma l’argilla · ci rimane sulla pelle · puoi annusarla · nello sguardo sbarrato e spento nell’accento greve su ogni pezzo di carta dell’impero · ai confini dell’impero · noi ci siamo per statuto · dimenticati nella norma · con la nostra malinconia la nostra fatica cupa e muta · chiusi come le nostre valli · il limite ce lo portiamo in bocca · in questa lingua che non conosco · ma il cui retrogusto · persiste · è il vinello dei poveri · la nostra rassegnazione · è istituzione · la portiamo scritta · nel nome · nella dimenticanza · questa terra che non sappiamo lavare · ibridi inutili marginali · nessuno · ci ha mai · accolti · e qui · non abbiamo spazio

Alessandro Assiri

Versione stampabilePDF versionAlessandro Assiri, nato a Bologna  il 24/07/1962, da molti anni residente in Trentino. Presente in diverse antologie poetiche, ha pubblicato per Aletti Editore "Morgana e le nuvole" e "Il giardino dei pensieri recisi", con la prefazione di Paolo Ruffilli. Per Lieto Colle "Modulazione dell'empietà", con prefazione Alberto Mori. In uscita sempre per Lieto Colle "quaderni dell'impostura"
con la prefazione di Chiara de Luca.
Collabora con riviste sia cartacee che telematiche.

Alessandro Assiri: Nota teorica, Poesie edite e inedite

Versione stampabilePDF versionCredo che ogni parola oggi sia principalmente parola contaminata e che compito del dire poetico sia il ricondurre al tentativo di accasarsi in un senso . La cultura dell'accelerazione ci fa credere sia necessario evacuare emozioni, espellere da sé, quasi fosse una cultura del rigetto, l'imperativo di far spazio non per produrre significati, ma per introdurre speculazioni inservibili In questo scenario, la parola poetica diventa oggetto da smaltire, perdendo per strada la primaria funzione di essere destinata all'ascolto.

Fondamentale è prendere atto che in questa riconsiderazione del reale il pensiero è come costretto a pensare l'irrimediabile, frantumando l'intimità in schegge di malessere che diventa necessario catarticamente rigettare per sopravvivere, ma dire per non soccombere esaspera la parola facendola scadere in un grido che non dice che non chiede altro che aiuto.

Sembra che oggi sia diventato comprensibile solo diffondere o preservare, senza prestare attenzione a quale sia l'oggetto da difendere, a quale sia la merce che a ogni costo deve essere commercializzata. Ritengo che il poeta sia chiamato a cercare, oggi più che mai, di ritrovare autenticità, senza dimenticare che autenticità è darsi la possibilità di rintracciare il
percorso delle proprie idee.

Riportare la poesia all'ascolto, riportarla dove non arriva semplicemente perché non parte, perché perde di vista quel prerequisito che è quello di essere udibile. Ritrovarsi come bambini stupiti e non come orfani impauriti davanti a un testo è attribuire un senso chiamato: meraviglia. Ricondurre la
poesia allo stupore della rivelazione improvvisa è darsi in questo tempo una possibilità di riscatto.


Poesie inedite



1

Soltanto parla
ma è già senza vita
poco prima di essere abbattuto
un pensiero finalmente

2

 ...e a te che ti ricordi non riesco
mica a dire: sopravvivi

ma solo a tenere quel tono
scortese
adesso che l'attesa
rimarrà in eterno

sono solo sei scrupoli senza
senso

3

incontri improvvisi
per l'appunto
come amori tra l'asfalto
in imbarazzo
attieniti all'amore
luogo geometrico
di rapporti sciolti


Da “Modulazioni dell’empietà”, Lietocolle

2.

Accarezzai l'idea
molto prima del tuo viso
Misi da parte la velocità
di una vita invadente.
Scrissi la trama di un addio
con parole di niente.

15.

Le discese troppo corte
per sciogliere l’affanno,
assorbendo gli odori
di ruggine e polvere.
C’è sempre una parola
che respira in tutte le altre
come il bacio di una madre
prima di dormire
una carezza leggera che sazia la notte.

C’è sempre un segno verso la fine
una ruga profonda che ieri non c’era
una rondine che si appresta a partire
nell’accorciarsi di luce
della stagione finita.

18.

Io sono un incerto addio
Tutte le turbe dell'espulso
I malori del rigetto

Qualche acuto tenta di levarsi
Forse qualcuno vuole primeggiare
li riporto a un brusio
a un sommesso chiacchierare

se vivessi di spalle camminerei all'indietro
verso l'anonimato
un paio di spalle larghe
sovraccariche di vita
che si incurvano sotto un peso
una fatica.

Luigi Trucillo

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Luigi Trucillo è nato a Napoli nel 1955. Ha pubblicato Navicelle, Cronopio, 1995, Carta mediterranea, Donzelli, 1997, Polveri, Cronopio, 1998, Le amorose, Quodlibet, 2004, Lezione di tenebra, Cronopio, 2007. Una scelta delle sue poesie è apparsa in Germania, sulla rivista Akzente.

Luigi Trucillo: Nota teorica e poesie inedite

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     Sono sempre stato attratto dalla sintesi, il repentino processo attraverso cui il mondo ci si dà. Così mi è sembrato naturale tentare di creare con i miei versi una più complessa sintesi derivata dalla contrapposizione dell'elemento percettivo con quello analogico e astratto.

     All'inizio della mia ricerca poetica, quando cercavo uno spessore allusivo della singola parola che attraverso la precisione arricchisse di significati l'essenzialità del verso, mi sono imbattuto in una definizione di Ezra Pound dell'Imagismo che per me è stata fondamentale. "Un'immagine - diceva - è ciò che rappresenta un complesso intellettuale ed emotivo in un istante di tempo." La fulmineità del potere evocativo della parola poetica adombrata in questa frase, e l'istantanea liberazione dalle barriere spazio-temporali ad essa inerente mi sono subito balzate agli occhi, convogliando i miei sforzi sull'elaborazione di un'immagine non astratta, immediata e frutto dell'intuizione. E quindi, per deduzione, su un'immagine attraversata dall'irradiamento preciso della brevità. 

     Con coerenza intellettuale, inseguendo una forma visiva e immediata in cui un oggetto esteriore riuscisse a saettare in un movimento soggettivo, Pound si era avvicinato alla "poesia di una sola immagine" dell'haiku orientale, e cioè a quella cristallizzazione di sintesi sensibili che tanto mi affascinava anche da un punto di vista epistemologico. Ciò mi ha inevitabilmente condotto a uno studio dell'ideogramma cinese. Val la pena di ricordare che i primi ideogrammi nacquero come imitazione dei segni che comparivano sui gusci di tartaruga. L'ideogramma veniva quindi immaginato come il prodotto dell'autoscrittura di un cosmo che si rivelava in figure. Nasce così l'dea della scrittura come calligrafia: il poeta deve immedesimarsi nel soffio nascosto delle cose, essere in consonanza con la vibrazione invisibile che le sostiene, per manifestare poi questo contatto in una calligrafia che non rappresenti il soffio stesso, ma direttamente lo divenga. Ciò crea una parola-figura che coglie l'istante in cui significante, significato e referente sono tutt'uno. Il senso ultimo di questa parola-figura non va individuato nel contenuto, ma coincide con la materia significante (il col,ore dell'inchiostro, per esempio, o lo specifico tratto calligrafico: istanti in cui il cosmo si rivela segno di se stesso).

     Qui si può solo accennare come la nascita del nostro alfabeto occidentale, quello greco che sviluppava il sillabario fenicio, isolò le vocali per trascrivere meglio la poesia epica (fondata proprio sulla scansione delle vocali) che veniva vista come voce della verità. In Occidente la scrittura appare subito, quindi, come trascrizione di una verità che si manifesta al di fuori della scrittura stessa. Da ciò deriva che la scrittura si manifesta come un sistema di differenze tra la verità e il discorso dove non è mai possibile una coincidenza tra il soggetto pensante e l'oggetto pensato. In poche parole, come un'interpretazione deviata.  

     Queste le coordinate. Poetare la sensazione e non il termine astratto: ecco il suggerimento di un ideogramma che anche in Occidente può essere riformulato attraverso delle nuove sintesi sensibili. È facile comprendere quanto la strada orientale aperta da Pound nella sua fase imagista contenesse già in sé la poetica germinale dell'stante creativo poi sviluppata, ad esempio, da René Char. L'ipotesi di un'immagine non stazionaria che smuovesse la centralità dell'io lirico ha convogliato la mia ricerca poetica facendola sfociare nei paradigmi della tradizione orientale: l'irradiazione, la condensazione, la ricerca dell'implicito, il contrappunto con il vuoto, la risonanza sensibile, l'immanenza sorgiva. E soprattutto la brevità. 

     Una poetica in cui "lo spirito aderisca all'atto nel momento del suo presentarsi" (Char) è necessariamente fondata sulla brevità. Che potrei definire come una formulazione direttamente pensata dalla lingua. Ma è anche basata sulla sensibilità, intesa come spazio della risonanza tra significato e significante, tastiera invisibile che attraverso lo stimolo delle allusioni decifra ed evoca l'inarticolato. Nella stesura dei miei versi è sempre presente il fantasma di un ascolto, proprio perché considero la sensibilità uno stato di percezione linguistica rivolta ad afferrare nel ritardo (penso al ritmo di Barthes) un'esperienza vissuta dei segni.  

     Attraverso la propria potenza di spostamento la brevità focalizza: restringe cioè il campo d'azione del linguaggio in un dettaglio istantaneo carico di aura che condensa l'eccedenza dei significati rispetto al singolo significante. Il tentativo di alludere a questa zona "bianca", all'irradiazione delle potenzialità non ancora formulate del linguaggio, si esprime con evidenza nei miei primi tre libri. La ricerca tuttavia di una versificazione più ampia a partire da Le amorose non coincide con l'abbandono di una tematica della brevità, convinto, come ho scritto, che "breve è ciò che, staccato, rivela una lunghezza." E cioè che la forza abbreviativa possiede una propria intrinseca autonomia. Attraverso l'essenzialità ho voluto rivelare come anche nel formularsi della rappresentazione si annidino cellule e schegge linguistiche capaci di isolarsi in un processo di autocondensazione. Anche nel fitto di un tessuto più disteso la singola parola può alludere a uno spostamento che apre un passaggio verso una presenza cognitiva primaria, l'apparizione di una risonanza sensibile che dilata il proprio effetto.  


     

Poesie 




Sestante 


Come un nume esiliato

Qui

nasce dall'angolo

stellato. 
 
 
 

Avanzamento 


Nuvole,

come un esempio di passi

ventosi. 
 
 
 

Lo straniero 


Un favo trasparente

carico di api

e miele. 
 
 
 

Jaipur, monaco su un torrione 


Cercava con lo sguardo

il giaciglio dei venti,

là dove si deposita

l'intuito. 
 
 
 

Napoli, molo di Mergellina 


Celeste la dieta

di chi impara

a cibarsi di mare

come un alga. 
 
 
 

Palermo, bambino che sbeffeggia 


L'asprezza

di una mora

su un fiocco

di bambagia. 

 
 
 

Donna dall'ortolano 


Nel folto dell'aria

la sua espressione incerta

e il rosmarino

profumano

come un unico

mestiere. 
 
 
 

I sandali 


Aperti

come i freschi sconcerti

infantili. 
 
 
 

La bitta 


Sui vecchi moli

con che puntiglio trattiene

zitta zitta

l'orizzonte sbiadito,

il celeste che slitta. 
 
 



Vienna, giardini dello Steinhof 


Preziosa è l'immagine

di un cane

quando dei denti

azzannano. 
 
 
 

Heimat 


Soffio

d'embrione,

la mia Atlantide

in punta di piedi.

Sebastiano Aglieco

Versione stampabilePDF versionSebastiano Aglieco è nato a Sortino (Siracusa) il 29 gennaio 1961. Vive a Monza dove insegna nella scuola elementare. Ha fondato “Teatro Naturale”, un’associazione per l’espressività dell’infanzia e dell’adolescenza.
È autore di diverse raccolte poetiche, tra cui citiamo  Dolore della casa (Il Ponte del Sale, Rovigo, 2006) e Giornata (presentazione di Milo De Angelis, Edizioni La Vita Felice, Milano, 2003). Vincitore nel 2004 del Premio “Montale Europa”. Interventi sulla poesia e inediti sono apparsi su varie riviste e in pubblicazioni collettive.
Dirige il blog “Radici delle isole”. È redattore del semestrale «La Mosca di Milano».

Sebastiano Aglieco: Nota teorica e poesie edite e inedite

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La responsabilità della scrittura


Quando incominciamo a scrivere cerchiamo una voce che ci assomiglia; parole che abbiamo sentito e dalle quali vogliamo ricominciare. Questo è il primo contatto con i maestri, nella vicinanza o nella distanza dai loro scritti e dal loro insegnamento: distanza attraverso i libri, vicinanza nel sogno che ricostruisce e trasforma le parole in altri sogni.

Fare poesia, dunque, è l'atto collettivo del percepire e dell'essere percepiti, del

chiedere e del dare conto; ricompensa o abiura non importa. E' la parola come sacrificio, cioè tramite  del rendere possibile; dell'alzare il velo dell'apparenza che abitiamo.

Se la poesia è, in fondo, un dialogo col Nulla, con la natura deperibile delle parole e delle cose, essa deve prima attraversare l’umanità tutta, non c’è scampo. Forse è in questo attraversamento che si logora e nello stesso tempo si rende necessaria. Da questo punto di vista, dunque, non si scrive per narcisismo - è pura illusione -  ma per attraversarsi. Attraversare il mondo.

Sento sempre di più questa necessità del ricevere attestazione e conferma; scrivere poesie presuppone il gesto della consegna, che è dono nella gratuità, e investe il lettore di un compito. Il lettore è colui che prende visione dei segni incisi, graffiati -  questo vuol dire letteratura nella sua accezione etimologica -  e se ne fa carico. Egli, tradendo il testo, consegna la tradizione del testo; ne permette il passaggio, il giudizio, nei tribunali della Storia. Il testo si fa giudicare. 

La letteratura desidera ritornare a una sua concretezza. Desidera le cose reali, consegnate ai segni, all’immagine astratta dei segni. Questo desiderio non è più, s’intende, materia e carne delle cose, ma il nostos, la nostalgia di un ritorno impossibile. La condizione più naturale della scrittura, dunque, non è la scrivania, il salotto buono, e neanche il computer. La scrittura è ancora atto del graffiare sulla materia sensibile, dello sporcarsi le mani nei segni e disegni incisi nel grande libro dove la foglia è il foglio sono la stessa cosa.

La scrittura  è transeunte: permette il passaggio e non rimane, ma rivive, nell'urgenza del nostro tempo, del nostro essere qui, ora.

Se è vero che ogni cosa, mentre vive contemporaneamente muore, la poesia non si sottrae a questo tragico destino e accetta di essere traccia cancellabile e labile. Ma non può rinunciare alla sua necessità, alla sua ineluttabilità: che non è ricerca di nuovo senso – sempre le foglie, noiosamente, cadono e rinascono –  ma necessità del suo ruolo.

Ecco perché, a un certo punto, non servono più i maestri, non serve più la letteratura. Scrivere poesie è un gesto che improvvisamente ci lascia soli, nudi di fronte alle cose, agli altri, a noi stessi. Davanti al compito del dire senza gioco, inganno, ma con gli occhi puntati addosso.

Ho scritto libri senza necessariamente pensare a questo. Ma per presagio. Poi ho  capito questo  dalla lettura che gli altri hanno fatto dei miei libri. Lettore, ipocrita lettore, fratello.


Da La tua voce, inedito

All’insaputa della notte

quel fumo rappreso sul davanzale

portava i canti delle falene morte

il masso sospeso sulle teste

a ricordargli della fine

il primo villaggio

lo strato più intimo sotto

il taglio del lago.

Tu non conosci la pietra

e il segno di quella mano che

rovina nell’attesa.

Dietro le nostre sere, di

una piazza scolpita nelle parole

scivolata ancora più lontana

acerba nei ricordi dei poeti

- perché non sono mai stato come voi

perché non vi ho mai conosciuti

perché non mi siete mai appartenuti -.

Viscida, schifosa nella luce

mostrata veramente come la cena

della sera, qui, nel cerchio, e

consolato dalla durezza

estraggono a sorte, spaventano una

voce aprendola alla Storia.

Così disse, così rivide quello che

non aveva mai veduto, il ramo del

pianto, secco, l’indurita sentenza dei

poeti, questo sei tu, luce

inappagata, ombra rifranta.


Da Giornata, La Vita felice 2003


Tu non ridere di questo sconforto,

della pazienza persa, dei visi che mi

guardano e se ne vanno. Numi tutelari

hanno tracciato strade verso un silenzio

di ritorno, verso un niente che ritaglia gli occhi.

Non voglio più scrivere poesie;

da queste parole in vedetta

ci sarà il tempo di perdere tutto

il resto, tutto il niente che

non abbiamo ancora visto, tutto il

niente che non abbiamo ancora detto.


*

Terra incominciata, sei apparsa verso

sera in mezzo alle parole ed è finito

il mare. Il viaggio si ritrae per altri

anni, ma ora dobbiamo stare, finire il

lavoro che abbiamo incominciato.

Voglio parole in me, senza la musa

oscura che mi ha generato, senza la luce

dell'angelo. Omettere quell'oscuro presagio:

sulla soglia della casa ti perderai.

*

Esiste un ordine e un tempo,

cerco questo in questo tempo:

macerie all'inizio della Storia

un bambino prima di essere bambino.

Guarda cos'è stato il giorno

nelle ore della pioggia: qualcosa è

accaduto e ci siamo già dimenticati.

Esiste il finire di un luogo

l'imparare a morire come all'inizio.

*

Perdonami, non sono all’altezza,

non so dove andare.

Eppure devi restare

devi sorgere dalle lenzuola

devi  capire, nell’amaranto delle fragole,

il sangue del crocifisso che ci schizzò in faccia,

ricordi? in quella scena dell’infanzia.

Avremmo dovuto distruggerlo per quella nostra

promessa, trapassare i suoi occhi come nei sogni

fondare una parola che dicesse il dolore

che valesse per sempre.

Ma ora  dobbiamo restare

ora che la distanza è netta

ora che ci giudicano e

non accettiamo il giudizio

non vogliamo essere degli altri

come gli altri.

*

Allora qualcuno capisce che tutto è sbagliato

che le parole ci hanno ingannati,

uscendo da una gora

o forse semplicemente volevano dire

che non ci apparteniamo.

Sulla carta  il pensiero è violento

calma simulata

fiato trattenuto per non ingoiare il mondo 

contenuto, è ingannato dalle forme

per dirle ci separa, ci fa scannare.

*

Scrivo nel lampo che il fiore imprime in me

preceduto dal respiro e dalla calligrafia.

Allora  è il vento che mi respira , fratello,

incredulo di un ascolto che a tratti mi governa.

Non c’è più tempo per l’armamentario di

me e della vita mia.

*

NERO SEPPIA

In questo paesaggio

rimangono due mani che vangano la terra

un albero gira ed è tutta la preghiera.

Vorrei essere semplice nel dire

come questo tuo parlare senza colore

l’inizio del segno, o solo la sua conclusione.

Gli uomini sono nel mezzo.

Qualcuno si è allontanato e

ci ha lasciati soli

i poeti rimangono in un cappotto

sono attenti, nella distanza delle mani.

Chi è necessario dice ciò che resta

e non vuole niente.

*


Occhi appena detti nella veglia

liberarsi dall’incanto della neve

delle figure che tornano e pretendono.

Non c’è niente che ci renda felici

non esiste un canto per onorare tutti:

i morti che ci hanno preceduti

i vivi che ci hanno accompagnati.

Chiudere le porte. Ora basta.

Ma i bambini, i bambini in un’aula dove

un mondo è possibile, dove i debiti

saranno rimessi, i bambini che insorgono e

ci chiedono di spiegare il dolore del mondo!

*


Di questo non voglio niente

della casa e del rito degli affetti

delle contese e della storia in un luogo

dove tutti vivono

della chiarezza che pago a peso d’oro.

Costruisco ogni volta un senso coi bambini

li porto a guardare

ciò che saranno e in parte accetteranno:

sciocchezze, riti dello stare e del  perdersi.

Di questo non voglio niente

il mondo si ferma e ride di me

o in un sogno reciproco ci desideriamo.

*


Ora sei il poema di me

vita finalmente libera

sei questo pensiero che ho sognato in segreto

il più debole e puro

che non ho realizzato:

essere prova di sé

nell’inganno del mondo

o nella sua salvezza

nei corpi che chiedono ristoro

nelle menti che desiderano una cosa.

Ma questo non sarà possibile

e niente sarà privo di dolore.

“Qui ingannati si sta bene” *

ma un po’ lontano io resto

in una casa protetta dal contegno

mura coatte, distacco e pavimento

un po’ in voi e un po’ ancora

in questa terra dove  fallire è una vittoria.

*

Ma una parola nuova è solo una promessa

sospetto un inizio senza conclusioni

per lento soffocamento della parola,

una visione che a malapena prende forma.

Né sguardo,  né bellezza

ma solo un vento che cancella e poi ritorna.

*

Io sono felice nell’estate forte

senza respiro

senza visione delle cose

senza il tempo della fatica

che chiede di essere onorata.

Un fermo confine

mostra la separazione

per preparare la preghiera.

Dio della voce ora calmaci

calmaci e custodiscici

dal vero nemico celato nelle parole.

Potenza delle azioni

che liberano e ci salvano:

“non voglio essere amato

voglio amare”.

*

Sei adesso

quello che nessuno dice e non ricordi.

Un baule di poesie sarà lanciato in un  pozzo

verso una luce contraria.

Il viaggio è duro e finisce con un’asta

appartenuti a carne trattenuta

(neanche nostra).

Ci attende un fallimento

e le parole ci bruciano

una mano le sotterra

i versi anelano a una prosa chiara e limpida

ma è ciò che chiamiamo

"lotta dura e persa".

Appartenere: 

solo questo ha senso

solo a questo passaggio senza senso.

*

Io non voglio niente

di tutto questo non voglio niente.

Nella casa l’odore dei gatti e di una cena

distante il cuore, è più forte ciò che preme.

Ma occorre imparare che

sono quello che non credono e non perdonano

sono una mente sotterrata e palpitante.


Da Dolore della casa, Il ponte del sale 2006

Ma questo sarà detto e

giustificato davanti al tuo dio

nell’incedere del tempo.

Queste parole che consumiamo

saranno pesate e disperate

e daranno tempo per tempo

pezzi di carne per un nuovo universo.

Ci sarà ancora il dolore

ci sarà l’attesa e un forte risentimento

le anime di nuovo dietro tutte le nostre parole.

*

UNA SERA HO PRESO LA BELLEZZA

Ora finalmente ti devo lasciare

devo imparare a dire

da questo distacco della

terra — il sole è giallo.

Nella mia carne ti riconosco e saluto

la bellezza che appassisce, ti

sacrifico le mie ultime parole e

non ti servo.

Muore chi deve morire

uccidimi, se vuoi, nell’ora dei vivi

colpiscimi con forza sul punto più alto

della testa, fallo nella piena luce

senza l’ombra delle parole

rinuncio a qualsiasi salvezza

a qualsiasi perdizione.

*

OLTRE IL GIARDINO

Tutto duro, di qua o di là

da una preghiera tra lo steccato e il

pane — movimento di un muro

crollerà l’universo sulle mie ossa e

rideranno di me questi piccoli capi

asserviti al potere di una scrivania.

Cerca il senso dove c’è stupore, e onore

impara che la morte è promessa

nel destino di tutti gli occhi. E allora

non temere le insegne del potere

e quando ti dicono: rinuncia

scendi a patti, accetta la perdita

dell’innocenza, abiura l’ingenuità

non fare l’offeso

accetta questo mondo o vattene.

*

AVVISAGLIE

Ma tu sei questo, questo soltanto

osso ben piantato nel cuore del mondo

e nella mia testa, nella visione di un mondo.

Accetta il colpire per dovere

- l’essere colpiti per dovere.

Ripeterò nella testa ciò che è taciuto

sotterrerò la pietà dei vivi per necessità.

Fuori: attesa e respiro

il racconto del mondo.

*

TI SARAI SVEGLIATO

Mettersi gli occhiali, guardare bene

per non sprecare le parole.

Ma il male è nelle parole che

vogliono dire il mondo e lo confondono

nelle parole che colmano una voce

sottratta per forza alla sua calma.

Accetta, allora, una breve bellezza

non cercata, sguardo indifferente

nelle cose incustodite.

Custodiscile finché non avranno

timore, indica la strada della loro

disillusione quando le luci, infine, verranno

accese e saremo liberati dal sonno.

*

CITTA’ NOTTURNE

Ti guardo e non parlo.

Era il dolore nei sogni antichi

erano i paesaggi notturni

del mio brancolare senza ali

altezza della fatica

nei pensieri segreti.

Erano città notturne incustodite e

vive, lasciate dagli uomini

assenti, in un altro luogo.

Una luce, questo ricordo

un battesimo di stelle che

chiedono l’ascolto di una voce.

Se scrivo di me, per me, è per tutti

perché non vi conosco, perché non

mi conoscete, come in tutti.

*

PICCOLA TREGUA

I


Ecco, ora hai finito di scrivere, hai ritagliato un

senso, scagionandolo da queste menti

c’è un tempo che sa accoglierci, più mansueto.

Poche immagini per dire ancora: casa

giardino, steccato. O per fermarti

difenderti dalle nuove migrazioni.

Alberi frontali, sentinelle di un cielo

sereno hanno una giustizia per tutti.

Qui siamo al sicuro

il vento di ponente non passerà.


II


Léggere, senza dolore, le immagini degli

alberi, le pietre miliari, le infinite

partizioni. I visi ci precedono nella corsa dei

fiumi — cammino nella campagna, appena

toccato dall’acqua scura.

Parlavi del nulla, delle parole sottratte al

timore delle foglie; guarda, sono calme

dicevi, la tempesta non si alzerà

gli argini sono alti, serrati.

Tommaso Lisa

Versione stampabilePDF versionTommaso Lisa (Firenze, 1977). Esordisce in Nodo sottile 2 (Fiesole, Cadmo, 2002) e nell’antologia Ottavo quaderno di poesia italiana contemporanea (a cura di Franco Buffoni, Milano, Marcos y Marcos, 2004), pubblicando poi, in volume, Pornopoemi (Arezzo, Zona, 2004 con allegato CD del gruppo fonografico Rapsodi) e rebis.periferiche (Pordenone, Old Europa Cafe, 2005 + CD reset) realizzato in collaborazione con l’ingegnere del suono Bad Sector (di prossima uscita i due libri-oggetto periferiche/terminali + emulazioni/appercezioni). Nel 2006 è uscito il canzoniere a sei mani Trilorgìa (Arezzo, Zona) scritto con Lorenzo Durante e Federico Scaramuccia ed è stato incluso - con Postreme. Cronache del quinquennio 2001-2005 - nell’antologia Poesia del dissenso II. Dopo aver coordinato la rivista letteraria “L’Apostrofo” (Firenze, Chegai, 2001-2004) ha diretto, insieme ad Alessandro Raveggi, il progetto editoriale “Re;” (www.re-vista.org). Dottore di ricerca in lettere, tra le altre sue pubblicazioni critiche: Scritture del riconoscimento. Su ora serrata retinae di Valerio Magrelli (Roma, Bulzoni, 2004); Poetiche contemporanee. Colloqui con dieci poeti (Arezzo, Zona, 2006); Pretesti ecfrastici. Edoardo Sanguineti e alcuni artisti italiani. Con un’intervista inedita (a cura di Tommaso Lisa, Firenze, SEF, 2004); Le poetiche dell’oggetto: da Luciano Anceschi ai Novissimi. Linee evolutive di un’istituzione della poesia del Novecento (Firenze, FUP, 2007). Suoi testi e saggi sono uscite in rivista (“Atelier”, “Nuovi Argomenti”, “Semicerchio”, “Trame” e “il verri”, dove ha curato i numeri 31 e 32 dedicati a I diari di Luciano Anceschi) e su alcuni siti (AbsolutePoetry).

Tommaso Lisa: Reset (doppio set di sette settine)

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Reset

(doppio set di sette settine)
   in seni e rientri fratte
da istmi appaiono le isole
tra uffici e docks del porto
sull’orizzonte a giorno
cereo scolora il cielo
e oil terminal al vento
cloro e piscine e radar
in nebbia che dirada
a strisce flesse e fratte
per l’irritante sole
fra terre di riporto
i cartelli nel giorno
curvano l’oltrecielo
argentei dentro il vento
colloso sottovento
in tornanti digrada
l’asfalto e ferme effratte
scontrate sotto al sole
le auto verso il porto
occultano nel giorno
lunotti sotto al cielo
gli eurofighter in cielo
sibilano nel vento
in formazione rada
su necropoli e fratte
e off-shore scagliano al sole
tra scafi da diporto
sponsor in gare a giorno
tra crisofite il giorno
dirada gonfi in cielo
cumulonembi al vento
sopra la steppa brada
degli slum catafratte
dalle lenti da sole
dei militari al porto
jeep coi tanks di supporto
a guerre d’oggi giorno
antenne verso il cielo
e rondini nel vento
in trame di contrada
graffitate a spray fratte
le firme vuote sole
crew di skaters al sole
bassifondi del porto
il traffico ogni giorno
di fusoliere in cielo
tra voci chiocce al vento
sottomarini in rada
dighe foranee fratte
   codici a barre in fosco
tessuto arato a sbalzi
dalle robinie brulle
le involute sui colli
righe dei campi dietro
le postazioni a parte
lo sfondo al cielo immoto
zigzagare di moto
smog imbrunito e fosco
grigioferroso a balzi
di selve ingenti brulle
balle irte mucchi e colli
sopra i piazzali dietro
ad un tir che riparte
da altoparlanti a parte
suona un jingle remoto
e ambulanze nel fosco
pulvirulento in sbalzi
sirene bluastre brulle
zone e zombie tracolli
luminescenti dietro
insegne police dietro
a volanti appartate
e pattuglie di moto
tra le rinfuse e il fosco
inseguendo a sobbalzi
contrabbandieri in brulle
dune aride e tracolli
turbinano in decolli
gli elicotteri dietro
alla stazione in parte
rotta dal terremoto
sventaglianti nel fosco
saracinesche a balzi
per bonifiche brulle
frastornate le brulle
spiagge e i mugli sui colli
dal night-club chiuso dietro
gli ombrelloni in disparte
gialli gommoni in moto
con scafisti nel fosco
solcano il mare a sbalzi
grigi i gabbiani a balzi
planano in rocce brulle
guano burrasche crolli
di infrastrutture dietro
le impure scorie sparte
e un aerostato immoto
staziona in cielo fosco
  rotoli di alte reti
scuotono in scrosci al suolo
in porpora e oro fine
i dipluri dai rami
di stecchite piante oltre
basi nucleari scisso
tra scie di cirrostrati
in molteplici strati
slabbrati e cupe reti
arso il crettato suolo
in crepe e ghiaie e fine
l’intricarsi di rami
dal cimitero oltre
l’isolato rescisso
vira in verdeblu scisso
per alcali e acidi a strati
il cr 6+ in greti
su orti e banchine al suolo
nascoste dalla fine
stria di ossidati rami
cola in sintesi oltre
avariate scorie in coltre
viscosa viola scisso
vitreo il brago a strati
tumescenti e arboreti
diramano sul suolo
vibrando in modo affine
versicolori rami
tra i tetti di ferrami
sparsi su sponde oltre
spurî cascami scisso
e idistinto su strati
celle e rulli di reti
di fabbriche sul suolo
il laminato fine
e il pretrattato a fine
lavorazione in rami
d’assemblaggi posti oltre
questo increspato e scisso
susseguirsi di strati
tra gli impianti segreti
si ritorce sul suolo
in magazzini e al suolo
il fango e scoria fine
tra gru e putrelle e rami
in architetture oltre
rilieva un reale scisso
dai polimeri a strati
nelle invasive reti
   brusii in bassa banda
antri e alti altari tra anse
di database in diedri
settori e scansiti echi
elementari il tetro
nero circuito d’oro
ricalca un suono muto
scuro orrido spremuto
tra relé in ombra sbanda
driver dischi di danze
irti attrattori e diedri
dentro campionati echi
stampati in stretto tetro
flusso colore al fluoro
in card suonano in coro
le tracciature e muto
a alto voltaggio blanda-
mente rapprende astri e anse
in brevi brusii e diedri
foreste in suoni in spechi
deframmentando tetro
solchi e sorgenti al tetro
spandersi di ioni in oro
circuitato il premuto
tasto onde contrabbanda
triggerazioni oltre anse
e i resti di poliedri
bisbigli al plasma echi
nei video-tape altri echi
dal desktop dentro il tetro
siliceo spettro d’oro
di sinapsi ago muto
per celle in larga banda
tra arborescenti anse
pulsa oltre orli e diedri
in set suddetti i diedri
dentro agli espansi echi
rudi i rumori e il tetro
spunto di selce e cloro
rossastro nel bismuto
clonando in sarabanda
cavi coassiali in stanze
tubi al neon tiltati e anse
trasformatori in diedri
dilatati in micro echi
masse blu in buio tetro
cristalli e astri in atro oro
dentro dendriti muto
sistri e settori in banda
  vedute in controluce
di residence tra cose
formicolanti in varie
strade e curve nel terso
proliferare in giro
confondendo la spoglia
cifra di skyline e murmuri
di tv accese e muri
azzurrati la luce
si sgrana tra le cose
disposte in pose varie
dentro uno schermo terso
pixel slot bite a giro
nella silicea spoglia
delle schede si spoglia
in camera tra i muri
e gli armadi la luce
che staglia fioche cose
messe nel frigo varie
cogliendo il filo terso
dei contorni nel giro
di oggetti sparsi a giro
in una stanza spoglia
tra le muffe sui muri
vividi prismi in luce
allungano ombre e cose
in parabole e varie
insegne al neon deterso
dal temporale il terso
orizzonte in un giro
chiude una terra spoglia
con i pod dietro i muri
recintati nella luce
leucemica viscose
dai sensori in avarie
di strumentazioni varie
tracce di radon terso
odore acre in giro
di diossina che spoglia
fulvi i rovi sui muri
in crepuscoli e luce
riverberata in cose
mutate vorticose
accatastate e varie
stilla rugiade il terso
filo spinato in giro
sui gates veste e spoglia
la calce sopra i muri
di shelter calda luce
   spettrometriche spie
dai telescopi ai lati
cupole chiare a scacchi
di osservatorî in gusci
proiettano strie e file
sui dossi dietro i monti
cittadine nel verde
e l’afa d’ocraverde
secca asfittica in spire
sparge le nubi ai lati
di caseggiati a scacchi
miriapodi tra i gusci
dei cassonetti in file
attorniano i tramonti
lattiginosi i monti
rigati in grigio-verde
e i resti tra le spine
di ferri affastellati
gas acidi in scaracchi
sotto i fari tra gusci
effervescenti in file
le cave vuote e file
di atri teatri di monti
la moto al cross nel verde
che sgomma torba in spire
truce stremata ai lati
dietro recinti a spacchi
nella melma che sguscia
ai bordi chiuse in gusci
celesti luci in file
sulle piste oltre i monti
scandite in luce verde
tra gli infrarossi e spie
le scritte nato ai lati
su derive alte a scacchi
arbusti e luci e stacchi
e romboedrici gusci
nel buio fredde file
di radar sopra i monti
dove la terra e il verde
increspano luci di spie
soldati posti ai lati
e in cielo decollati
scintillano a scacchi
dopo rullaggi i gusci
di jet catafratti in file
i falò sopra i tramonti
barbagli in mezzo al verde
brividi e bluastre spie
  agglomerati in pace
siti presso una fonte
radioattiva la sera
tra punte di palme astri
riverberati dentro
al buio botro in zone
su cui stanno tra i raggi
di luna nei paraggi
elicotteri apache
posti sui pad al fronte
strati sterili a sera
e scavatori a nastri
nel giacimento dentro
i fanghi delle zone
dei derricks in azione
pozzi e gallerie a raggi
un bulldozer capace
che sta sbancando il fronte
tra gli hangar una serra
e i bunker su pilastri
e tubazioni dentro
flares di torce da dentro
gli oleodotti zone
con i monitoraggi
d’inquinanti rampe e space
frame in piste di fronte
a atterraggi di sera
di aerei-spia fra gli incastri
di barene olivastri
mucillaggini dentro
acri e salmastre zone
restano in scuri raggi
catrami senza pace
campi minati al fronte
nel caldo effetto serra
posti di blocco a sera
sotto agli infiniti astri
brillanti scorre dentro
tubi posati in zone
desertiche a raggi
il petrolio acre e pece
su rena e sabbia in fronte
a caserme la fonte
di fumi densi a sera
tra i soldati grigiastri
investe cortei dentro
mimetizzate zone
scuotendo a gruppi in raggi
bandiere della pace
   autostrade di notte
frangenti azzurre i campi
anabbagliando clivi
con flash fluorescenti e albe
nel riverbero stinto
di sterpeti e improvvisi
boati e esplosioni in nubi
friniscono tra nubi
per subsonici a notte
propulsori sui campi
e incursioni dai clivi
a bassa quota in albe
rivelano uno stinto
stabilimento e avvisi
di divieti tra i visi
mimetizzati nubi
offuscano la notte
da anticarro nei campi
e batterie sui clivi
fioriti in chimiche albe
stazioni meteo stinto
appare un indistinto
scavo edile divisi
azoti ossidi nubi
booster in stadi a notte
sganciati sopra i campi
da capsule e declivi
in immagini ir albe
su autoblindo tra scialbe
traccianti nel distinto
sparire d’indivisi
bagliori ufo le nubi
s’addensano di notte
la scoria imbianca campi
smottando in cretti i clivi
benne e antenne proclivi
ai crolli autosilo in albe
sfumate in uno stinto
seguirsi di preavvisi
di rossi stop tra nubi
nel cuore della notte
e logistici campi
corazzati tra i campi
minati che dai clivi
schermano in algide albe
fioco il bagliore stinto
di contraeree invisibili
missili tra le nubi
mentre scende notte
   lacrimogeni e carte
guerre urbane nel fondo
di vie i blindati e celle
l’assetto a scudo ferma
spari a salve fra i pali
registrazioni a chiazze
e interferenze radio
rumore della radio
risuona tra le carte
dei giornali lo sfondo
in vetrine e asticelle
di ponteggi che fermano
calcestruzzi coi pali
su attici i fiori a chiazze
nella scarpata chiazze
bruciate e brulle a gradi o
distributori e carte
il suburbio profondo
compresso tra le celle
di campo resta ferma
l’ira che svelle i pali
viali auto antenne pali
squatters in gruppi a chiazze
la mattina alla radio
la città è insonne e scarti
di graffiti fan sfondo
a un bus sotto facelle
che al supermarket ferma
intirizzita ferma
gente in quartieri e i pali
tensostrutture a chiazze
negli showroom le radio
tra i tendaggi e le carte
la pattuglia di sfondo
stornata da procelle
black-block chiusi in celle
la polizia che ferma
corduli infranti e pali
manganellando a chiazze
news di g8 alla radio
l’estintore tra carte
un morto cade in fondo
coi no-global a sfondo
pestaggi nelle celle
simmetriche aria ferma
il siderurgico i pali
campetti stenti a chiazze
impianti e raggi radio
per spente prese scart
  i terrazzi in un velo
dietro i palazzi in centro
un autobus che arriva
schiacciando cose a terra
carte e bottiglie rotte
ventoso alza una veste
nei viluppi del flusso
d’aria spinto nel flusso
che oscura sotto al velo
il cosmo senza centro
tecnici sulla riva
scavano nella terra
tra cavi e linee rotte
fluorescente la veste
antinfortuni investe
le file in mezzo al flusso
dei fari dentro il velo
di smog in vie del centro
e i rifiuti sulla riva
dal mare spinti a terra
tra le alghe e cose rotte
avariate e corrotte
tra gli inquinanti investe
il mutevole flusso
di merci quasi un velo
che stringe al centro
il black hawk in deriva
che svisa e scende e atterra
e la scura scia a terra
rintracia rette e rotte
tra casse e scatole e investe
l’ipermarket nel flusso
delle merci in un velo
di smog dal centro
si dirama verso riva
in catena corriva
tutto va sotto terra
nel gioco di ininterrotte
scene che investe
nel vento e sparge un flusso
di polverone a velo
spostando il baricentro
per i lavori del centro
il camion svolta e arriva
tra betoniere e terra
e calce in mura rotte
un alone riveste
il collidente flusso
dei versi in vacuo velo
   i lunghi attracchi a schiera
fregate chiatte brezza
sottomarini e schiuma
chiudono ormeggi in rade
ridde di radar sparte
tra i sonar sulla sponda
missili Trident in guerra
e fra trincee di guerra
oltre torrette a schiera
Boeing stanno nella brezza
e ferri e affusti e schiuma
affastellati a rade
maglie saldate e in parte
obsolete fan sponda
fotocellule a sponda
reticoli di guerra
è vietato da schiera
spinata iridea brezza
oltrepassare schiuma
a bolle il brago in strade
tra i cumuli in disparte
sotto a stelle in parte
l’asfalto che sprofonda
per cingolati in guerra
e le uniformi a schiera
bandiere nella brezza
la mimetica schiuma
che il marrone sorrade
su insenature e rade
sfuocate nella parte
a est i palloni-sonda
lasciano scie di guerra
gli aerei-spia a schiera
stratofortess in brezza
nerastra che si sfuma
e l’acquafan la schiuma
su riviere e autostrade
le strobo si dipartono
dalla disco alla sponda
bruciata nella guerra
racket di bande a schiera
armate spari ebbrezza
sugli spiazzi la brezza
leva cinerea schiuma
stralci e tabloid abrade
rossi occhi in ogni parte
ricevono di sponda
gli effetti della guerra
in tv i morti a schiera
   viluppi in foschi fumi
di raffinerie e nubi
rafferme in una forma
si addensano sui prati
tra cisti e auto in sosta
nelle pieghe del reale
un trattore spento
su zolle trite spento
ara le zolle in fumi
solchi e stridii tra nubi
rintraccianti la forma
d’opima terra ai prati
e i divieti di sosta
nell’atmosfera irreale
di alti pilastri il reale
sugli svincoli spento
il semaforo e i fumi
di tangenziali in nubi
giunture fuori forma
copertoni sui prati
rugginoso risosta
sgorga in bitumi e sposta
scoli acidi e iperreale
cumulo di coils spento
per materassi e fumi
ingrossa grasse nubi
tra assi marci che sformano
sfardellando sui prati
in lai rai dai bui prati
lucidi i led di sosta
la tradotta del reale
su di uno schermo spento
saettano i fuochi in fumi
matrici mute e nubi
protozoi in una forma
rappresi e scuri a forma
inquinanti nei prati
bifidi rami in sosta
macerati dal reale
oltre a un ammasso spento
tra le rovine e fumi
di proiettili in nubi
rosse galassie e nubi
ombre che il cosmo sforma
umide sopra i prati
scuri reparti in sosta
sul collasso del reale
e freddo frinire spento
le scene spente in fumi
   in fabbrica la nassa
rappresa i tenui fili
viscosi e scarti e resti
lavorati di vetro
in lamine e fogli e
il poliammide sparso
che cola nello stampo
le poliestere in stampo
stirato in grigia nassa
di canaline e fili
nel capannone i resti
tele screziate in vetro
lattice gomma a sfoglie
insuffla gas sparso
asettico tra le cose sparso
canceroso lo stampo
costretto dalla nassa
mixa additivi in fili
calandrati tra i resti
scure scaglie di vetro
e coadiuvanti a sfoglie
abscissione di foglie
sintetiche cosparso
si ripete lo stampo
di monomeri in nassa
craking fenoli a fili
saturi eteri e resti
addizionati in vetro
laminati di vetro
coloranti su foglie
lubrificante sparso
poliuretano in stampo
raffredda in una nassa
polivinile a fili
tra polimeri e resti
di propileni agresti
bianche schegge di vetro-
resina gonfiano foglie
stelle a spilli cosparso
termoindurenti in stampo
sulle falde la nassa
termo-processi e fili
quiete resine a fili
unici eterei resti
estrusi e orditi in vetro
negli stireni a sfoglie
e l’eposside sparso
attratto nello stampo
unito in una nassa
   porte tendaggi cose
all’ingresso in un lampo
la pareti di casa
crettate tra le croste
l’armadio appare vuoto
e dei cd la gamma
tra poltrone coi buchi
le macchie scure e i buchi
nello specchio le cose
dal pc in rete un lampo
password violate in casa
nel salotto le croste
di pane sparse e il vuoto
cavi seriali in gamma
l’evanescente gamma
dei prodotti e coi buchi
le giacche scarpe e cose
una cerniera-lampo
vestiti smessi in casa
s’attaccano le croste
tra cibi in sotto vuoto
lenzuola e un letto vuoto
sfatto e sporco la gomma
sui mobili e nei buchi
gli shampi in bagno e cose
peli e pettini un lampo
nei corridoi di casa
equorei umori e croste
sui soffitti le croste
e dentro il frigo vuoto
dai prodotti ingromma
confezioni coi buchi
cibi in cucina e cose
su stoviglie in un lampo
gli odori della casa
nelle stanze di casa
la moquette e le croste
tra cicche spente un vuoto
lampadario che inganna
in salotto ombre e buchi
gli ombrelli luci e cose
che svampano in un lampo
di pubblicità il lampo
un jingle nella casa
con stracci e moci e croste
ha il corridoio un vuoto
Aperto sulla gamma
muta di prese e buchi
per soglie intrecci cose

Tommaso Lisa: Enchiridion (poetica)

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Reset (doppio set di sette settine) è in parte già edito in rebis.periferiche (Old Europa Cafe, Pordenone, 2005) libro con allegato cd reset del musicista e ingegnere del suono Bad Sector. Il nucleo di testi si inserisce in un programma più vasto: due libri-oggetto pluriversi (leggibili indifferentemente in diverse direzioni) periferiche/terminali e emulazioni/appercezioni. Tra le motivazioni di questi testi c’è il piacere di un lavorio artigianale con le parole, imprescindibile dalla natura iconica, tipografica, del testo; una volontà di trattare i materiali verbali, assemblare le sillabe come cose per ottenere artefatti retorici, al contempo bizzarri e algidamente neoclassici. Nelle intenzioni agisce un gioco formale - esplicitato negli acrostici-omaggio - racchiuso nella struttura della “settina” di settenari. Una feticistica passione per il catalogo entomologico, la miniaturizzazione fermodellistica, l’agonistico sfoggio atletico della muscolatura del metro, l’ibridazione e la mescolanza di stili, la campionatura di quanto è reputato notevole all’interno del repertorio della letteratura universale. Un costruttivo impegno critico verso il linguaggio stesso, per ottenere uno stile, un meccanismo funzionante con regole interne coerenti e conformi. Vi agisce la necessità di assemblare citazioni dalla tradizione, lessico tecnico e letterario, situazioni reali - quotidiane e esperite - insieme a fantasie immaginarie, allucinate, frammenti mnestici e lacerti abrupti. Mappatura, disegno, alessandrina ecfrasi che spazia dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, passando attraverso molteplici soglie: dalle galassie alle strutture subatomiche, dal paesaggio all’interno domestico, dallo schermo televisivo, al chip al silicio, alla carne dell’individuo. La recitazione del testo pone in risalto l’aspetto multiversale dell’artefatto, in quanto dovrebbe risultare coerente - ugualmente significante e insignificante - la lettura sia dalla fine che dall’inizio, o da un qualsiasi punto intermedio. Il macrotesto, infatti, dovrebbe costituire un grande calligramma mandalico, disposto in cerchio, come un ouroborus, (e così sarà, non appena verranno acquisite le necessarie competenze di grafica vettoriale). Reset si propone quale miniatura documentaristica del medioevo digitale dell’inizio del nuovo millennio, sospesa – apparentemente senza storia - tra imminente catastrofe ed eterna rigenerazione. Ricetta o istruzioni per l’uso, queste note non intendono esaurire il senso potenziale dei testi: non è l’unico modo di scrivere, neppure il migliore (ne sono consapevole; mantengo infatti attive molte scrivanie, altri opifici letterari, per creare testi anche molto diversi da questi) ma è sicuramente un modo demiurgico per ricreare altre possibilità, una diversa cosmografia.   

(lunedì 25 febbraio 2008, mattina)

  • Ranieri Teti
  • Marzo 2008, anno V, numero 9

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a cura di Mario Varini
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versione 5.23
agg. 27/08/2010


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