Settembre 2005, anno II, numero 3

Ginevra Bompiani, Nota su “Metamorfosi”

Ginevra Bompiani, nota su “Metamorfosi”
Premio Speciale della Giuria, sezione “Opere Scelte”

Quando ho cominciato a pensare a questa autologia, mi sono apparsi due temi possibili: la favola e l’animale. Ora andavo dietro all’uno, ora all’altro, finché un’amica non mi suggerì il modo di unirli insieme, chiamandola metamorfosi. Ogni storia, si può dire, racconta una metamorfosi. E dal vecchio gatto che aspetta la sua metamofosi finale, all’impacciato messia che non sa trasformare i segni divini in un significato, tutte queste favole ne raccontano una. Ma la metamorfosi, da Ovidio a Kafka, è legata in modo particolare al mondo animale: a quel passaggio da animale a umano e da umano a animale che, pur compiendosi continuamente, viene continuamente disdetto e dimenticato.

Antonio Prete su Ginevra Bompiani, Premio Speciale della Giuria

Antonio Prete su “Metamorfosi” di Ginevra Bompiani, Premio Speciale della Giuria, sezione “Opere Scelte”

Disporre i pensieri perché accolgano presenze. Collocarsi, con lo sguardo, nel cuore di una pianura dove i viventi –animali, uomini, dei- si mostrano in una loro epifania priva di solennità, e tuttavia ancora sorgente di incantamento: prossimi, e ancora immersi in quella lontananza che è enigma. Seguire gesti e voci dei personaggi fin dove il quotidiano incontra l’inatteso, fin al punto in cui l’accadimento lascia intravedere l’arabesco del destino e la favola smaglia la sua tessitura facendo trasparire il patto con la verità. Questo movimento è come il respiro –sapiente e allo stesso tempo naturale- della scrittura di Ginevra Bompiani. Un movimento che ha la sua modalità propria nella descrizione: un dischiudersi piano del paesaggio via via animato da presenze. Presenze sorprese, si direbbe, mentre balzano verso l’apparenza. E nella descrizione si insinua, quasi inavvertita, lenta, ma sempre più nitida, l’allegoria, o meglio una sorta di declinazione anagogica del vedere. Una meditazione sull’esistenza che sembra coincidere con l’alone stesso di quel che appare, con il situarsi dei viventi nella luce del giorno, o nel silenzio della notte. Così il vecchio gatto, che apre questa autoantologia, malandato e privo di potere, ha un’altra sovranità, sostenuta dal vigore di una presenza che per il fatto stesso di stare sulla soglia della malattia e della fine, è sicura, severa, dispiegata nella sua domestica malinconia. La descrizione, variante dell’antica ékphrasis, ospita il tempo nell’atto del vedere, accoglie il visibile nell’orizzonte della parola. Porta, insomma, alla presenza: rappresenta. Sullo sfondo, il supremo nesso, frequentato da Kafka, tra apparenza e apologo. La passione dell’apparenza sa mascherare, in una noncuranza che è ironia e amore, il legame con ciò che è profondo. Nel piacere della descrizione l’enunciazione è sovrana: la sintassi si fa leggera. La sintassi è un pensiero del dire più che una forma del dire. Questo modo della descrizione, che è uno stile e una grazia, appartiene intero a Ginevra Bompiani, è il timbro stesso della sua scrittura. Nel suo svolgersi allude al confine della prosa con la poesia, e per questo ha nella tradizione della scrittura breve –da Hofmannsthal a Walser, per citare solo due nomi- un campo di asciutti mirabili esempi. La scelta dei testi qui disposti racconta, nel succedersi delle sequenze, la tessitura e l’ondulazione di una prosa che è, allo stesso tempo, narrazione e meditazione, fabula ed essai. Nel titolo, Metamorfosi, è detto non solo l’evento che annoda l’apparire con il divenire, l’essere con il suo segreto respiro, ma è anche alluso l’impulso primo della scrittura, che è quello di accogliere il visibile in un’altra forma, sollevandolo in un’altra forma. Fare nella scrittura esperienza di quel “sur-naturel” di cui diceva Baudelaire: “déformer, réformer, surpasser la nature” è il movimento precipuo della poiesis nella modernità. E allora, riflettere sulla metamorfosi è riflettere sul movimento stesso della scrittura. Per questo nelle pagine di Ginevra Bompiani, distese nel piacere discreto ed elegante del narrare, trema il riflesso di una meditazione sulla scrittura. La metamorfosi, questa “scorciatoia dell’eterno”, com’è definita dall’autrice, è condizione animale e umana nella quale permane l’impronta della primitiva appartenenza. Anteriorità silenziosa ed enigmatica. Forse questo intendeva René Char quando scriveva che “gli dei abitano la metafora”: nella lingua che trans-forma, nel movimento della parola che disloca il corpo nel dire, la voce nell’immagine, il sentire nella figura, c’è il respiro di un’appartenenza dei viventi, di tutti i viventi, alla physis. E questo è anche il movimento che porta la prosa di Ginevra Bompiani verso un teatro delle apparenze che allude, in ogni posizione, al mito, dunque all’origine. Un’allusione che non è arretramento nel prima, ma sguardo consapevole e critico sul mondo, sul nostro mondo. Una mitologia che, rifrangendo le sue parvenze nell’oggi, non si mostra secondo i modi classici ma anche consueti della familiarizzazione o della miniaturizzazione, della parodia o della secolarizzazione del sacro, ma si modula come pura presenza. Una presenza che conserva la sua dolce estraneità, la sua lontananza, e tuttavia agisce sul sentire, tanto prossima è alle forme del nostro pensare. Una fascinazione, certo, dell’enigma, ma allo stesso tempo, come accadeva nella prima operetta leopardiana, Storia del genere umano, una meditazione sul limite, sull’umana condizione di finitudine, la quale di tanto in tanto può essere visitata da qualche fantasma dell’origine e poi, con lo svolgersi del tempo, soltanto dal dolce fantasma di Amore. Il mito, come appare nelle pagine di Ginevra Bompiani, è popolato di figure che hanno scavalcato la separatezza contaminandosi, ibridandosi, mescolando i frammenti di cielo con il fango, la purezza del desiderio con l’angoscia del declino. Questa terrestre condizione, che partecipa dell’umano e dell’animale, è la traccia di un’altra magica e silenziosa appartenenza, e avvicina, con un velo ulteriore di teoresi, certe pagine di Ginevra Bompiani alle pagine di Anna Maria Ortese. E ha anche sullo sfondo, per quel confine tra energia della presenza e sfondamento onirico, certi animali della pittura novecentesca, tra Chagall e Franz Marc. Nei bellissimi frammenti provenienti da Le specie del sonno (del 1975), la terra incantata del mito ha velature che, prive di nostalgia, inducono a meditare sulla bellezza, sul desiderio, sull’impossibile. Eracle che insegue la cerva volendo catturare il desiderio, il desiderio nella sua assoluta purezza, è una figurazione del mito che del mito mostra l’essenza: racconto che si apre sulla grande scena della vita e della morte. Dissolte le tracce delle mitografie simboliste -che dal giovane Gide mallarmeano al nostro Pascoli a Valéry e oltre hanno sovraccaricato il mito di domande provenienti dalla sensibilità contemporanea- dissolta anche ogni declinazione estetizzante, queste pagine accolgono del mito una sorta di evidenza metafisica, un gioco di presenze che rinviano, tutte, alla tela fragilissima dell’esistenza, ai bagliori del suo apparire, del suo perdersi. Nel brano tratto da L’amorosa avventura di una pelliccia e di un’armatura sono due confini a farsi linguaggio: il confine del corpo di Franz con l’armatura, il confine del corpo di Murmin –animale e bambina- con la pelliccia. Come se alla superficie del corpo fosse concesso il privilegio di sottrarsi all’opacità della vita per poter percepire il ritmo nascosto delle cose. In una terra desertificata, in un paesaggio postumo, la percezione del vivente, la sua stessa nascita, è affidata al miracolo della metamorfosi: le libellule dissipano, con la loro azzurra trasparenza, il chiuso cerchio dell’aridità. Favola, favella: la vichiana contiguità tra la favola e la lingua, tra il mito e il linguaggio, è narrata, appunto favolisticamente, in Pesci fuor d’acqua. E la narrazione, come nelle Mille e una notte, sospende la morte, ma lungo il dialogo che il pesce preso all’amo intrattiene con il pescatore trascorre, pur velata, una moralità che oppone alla violenza del dire la profondità del tacere. Ancora sul confine -“tremante confine”- tra l’uomo e l’animale si attestano le pagine seguenti, che nel loro ritmo hanno esse stesse il trascolorare proprio della prosa saggistica che unisce narrazione e teoresi. La metamorfosi come passaggio, rovesciamentto, dislocazione, ma anche come scambio tra umano e animale: l’animale al posto dell’uomo. Proprio questa è la “cifra del sacrificio”, dice Ginevra Bompiani, questo è il contenuto stesso del “sacro”. La mano di Abramo è fermata, e il posto di Isacco lo prende una vittima animale. Catena della crudeltà, che ha nel macello, suggerisce l’autrice, in tutti i macelli, la sua mercificata esposizione. Si disegna, nel cuore di questa antologia, una linea di osservazione che cerca una soglia per lo sguardo, una soglia che sia “celeste”, cioè animale, e dunque profondata nello stupore, nel silenzio. Qualcosa di questo stupore ha, nel racconto successivo, Oscar, personaggio stralunato, perso, incantato, che potrebbe appartenere all’ordine di quelle “creature quasi d’altra specie” che il Leopardi dei Pensieri opponeva alla grigia pervasiva astuzia dei “birbanti” , cioè di quelli che “realisticamente” abitano il mondo. Accanto a Oscar, la ballerina meccanica e il professor Gudrùn: personaggi che perdono via via la loro “pesanteur” e sognano una leggerezza che di fatto è incantamento e malinconia insieme, vuoto di pensiero e spensieratezza. Ma l’esistenza, sembra suggerire il racconto nella sua leggera animazione, non consiste poi nella leggerezza, ma nel desiderio che muove verso un punto d’osservazione alto –la Mongolfiera ne è volatile emblema- dinanzi al quale si dispiega il mondo, con le sue atrocità, con la sua bellezza. Tra i bellissimi tableaux narrativi di Ginevra Bompiani questa antologia tiene il luogo di un autoritratto: esposizione di un proprio cammino che certo non sfugge all’arbitrarietà del soggetto ordinatore. Tuttavia, nella sua parzialità e frammentarietà, mostra molto bene il pensiero della fragilità, dell’inatteso, dell’incantamento che trascorre in tutta l’opera della scrittrice. E’ con questa disposizione che la scrittura può ospitare il vivente, può muovere verso una creaturalità che, priva di ogni legame col sacro, si fa prossima a quell’oltre che abita la vita: sentimento dell’impossibile, e, soprattutto, desiderio di dimorare nell’ “aperto”. In quell’aperto –das Offene- che sta sulla soglia dell’Ottava Elegia di Rilke e che mostra la prossimità dello sguardo animale all’essenza del visibile e dell’invisibile. Poter dislocare il nostro sguardo in quella regione che è prossima al respiro delle cose. Sottrarsi, inventando forme e ospitando sogni, alla malinconia del declino: anche solo per un istante. Proprio questa sospensione, che ha la bellezza e l’incanto dell’impossbile, persegue, con pacata cortesia di affabulatrice, Ginevra Bompiani.

Tiziano Salari su Giulio Marzaioli, Premio Raccolta Inedita

Tiziano Salari su “In re ipsa” di Giulio Marzaioli, vincitore per “Raccolta Inedita”

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In re ipsa. Nella cosa stessa. Che significa? Trattandosi di versi significa che il poeta intende dirci che si colloca nell’altrove della poesia, cioè dentro la cosa stessa, o all’opposto che ci parla dal cuore della realtà, dal cuore dell’Essere, e quindi la cosa stessa è il rovescio della poesia, la parte in ombra, cioè la vita nella sua oscurità prepoetica, in cui il poeta è immerso anelando all’altrove della poesia? I tre versi iniziali sembra che ci pongano davanti a questa alternativa. Ammira i rami, mira/ dalla terra al cielo./Le radici invece… Da una parte il richiamo allo spazio aperto del cielo, verso cui si protendono, in piena luce, i rami dell’albero: dall’altra le radici che affondano nell’invisibilità della terra. L’opposizione è tra un fuori e un dentro, un sopra e un sotto, tra apertura e chiusura. Proseguendo, Marzaioli insiste nell’antitesi, che diventa la cifra del suo stesso dibattersi in una bipolarità di immagini che si fronteggiano o si mescolano tra loro fino a confondersi ed annullarsi reciprocamente. I quattro versicoli successivi sono apparentemente enigmatici ma in realtà non fanno altro che interrogarsi sul rapporto tra la carta ricavata dalla lavorazione del legno degli alberi e la matita che sopra graffia (che credo voglia dire scrive). E che cosa scrive? Scrivere a sangue l’epitaffio (da lapis, conseguendo). Forse la poesia è scrittura fatta col sangue, una morte in vita, come sembra suggerire l’epitaffio, e quel da lapis conseguendo non è la matita, ma nel suo significato latino, la pietra su cui è incisa l’iscrizione tombale. Ma ecco sopraggiungere la mescolanza, la metamorfosi, per cui rami e radici si uniscono in un unico groviglio, e anche si rivolta in sé, la luce. E la luce che si rivolta in sé è ombra, tenebra. Il poeta sembra sottoporci dei rebus, e allora bisogna sorprenderlo in qualche luogo più scoperto, dove il suo stesso fare poesia è messo al centro della riflessione, e si chiarisce forse che In re ipsa, nella cosa stessa, significa essere nella scrittura stessa che si sta facendo sul foglio, anzi negli strumenti stessi della scrittura. L’inchiostro si annoda tra riga e pausa./È una rete in cui riposa il nero,/quasi un nido se non fosse che la frase/vira in bianco sul foglio, non racchiude. Sorprendersi e poetare sull’atto stesso di scrivere non è soltanto dei moderni. In un sonetto Cavalcanti, riinventando una tradizione che risale all’Antologia Palatina, fa parlare le penne e gli arnesi per temperarle (le triste penne sbigottite,/le cesoiuzze e l’coltellin dolente), “nella geniale metonimia per cui penne, forbici e coltellino” dicono di essere “partiti, ossia dolorosamente separati, al modo di spiriti, core ecc. dal loro autore” (dal commento di Domenico De Robertis, a Guido Cavalcanti, Rime, XVIII. Gli strumenti di scrittura arretrano spaventati di fronte all’alienazione e distruzione del soggetto poetico e sono essi stessi “bisognosi di aiuto e di conforto”. Ora Marzaioli ci dice che l’inchiostro arretra di fronte all’alba pratalia, i prati bianchi, che si aprono a dismisura sul foglio, senza che il negro semen riesca più a racchiudere qualcosa. Che cosa? Probabilmente il senso del folle atto stesso di scrivere. Nella sezione che s’intitola Crepe troviamo altri versi dedicati alla scrittura, in cui le cesoiuzze di Cavalcanti sono diventate un ago che incide la carta, e la carta dunque non può essere altro che la carne del poeta. E qui la traccia d’inchiostro è assimilata a una specie di droga o di atto erotico preliminare e la scrittura stessa all’orgasmo. Nervatura di inchiostro che anticipa/la monta/. Scrittura. Il piacere. Sismografo./La spezzatura. Abbiamo colto il poeta sul fatto e ormai ad ogni passaggio lo vediamo In re ipsa inchiodato. E la contraddizione, l’antitesi, tra sopra e sotto,tra il dentro e il fuori, tra poesia e vita, tra apertura e chiusura, la ferita aperta nel cuore stesso dell’Essere? Il poeta ironizza su se stesso, sulla sua carne ferita dall’ago della scrittura e malamente rimarginata: (notizia – la ferita dall’esterno: il tempo si ricuce nella carne); cioè il tempo nella scrittura non esiste, o è un eterno presente che si rattoppa continuamente nel movimento scrittorio. O ancora: (notizia – la ferita dall’interno:/nascosto nella lama il taglio resta): e cioè , rendendo esplicito il pensiero sotteso o inconscio, sulla pagina la ferita sembra essersi suturata, ma nella vita il male è sempre pronto a colpire. Leggendo l’opera di Giulio Marzaioli partendo da questa interpretazione, in tutta la sezione Spazzatura sembra che il poeta voglia invitarci a raccogliere quello che rimane di lui passato al vaglio della scrittura. Questi i resti: morsi/ arsi,resi, versi. E della Storia (con la S maiuscola) sullo sfondo della Grafia di una storia minore, quindi la sua storia soggettiva. Due facce che interagiscono e che purtroppo ci sono, ineluttabilmente. E il poeta rimesta in questo fondo di spazzatura, di negatività, con l’ossessione della chiusura, che inizio e termine coincidano, sigillati in una bara, ma che, barando, la vita sempre riprenda, e anzi morte e vita, nella scrittura, si confondano l’una nell’altra , e la prefigurazione della morte non prepari che il concime per nuove fioriture. Nel sogno si vede steso. Stessa/posizione in sonno. Terra distesa/ nel concime. Fioritura. Giorno. Giunto a questa nota critica, il lettore sa, tuttavia, che il poeta non ha mai pronunciato una sola volta il pronome “io”, e neppure, a ben vedere, si è proiettato in un “egli”, ma piuttosto ha lasciato che, impersonalmente, assistessimo alla triste orografia di un ossimoro,cioè all’opposizione , In re ipsa, tra due tendenze apparentemente contraddittorie che si abbracciano nello stesso elemento che è il negro semen sparso sulla pagina, discarica come la parte residuale di una spezzatura o di una soggettività abolita. E, concludendo, inchiostro. Non sorprende quindi di trovare nelle ultime pagine del libro , abbandonati i versicoli, delle vere e proprie colate verticali d’inchiostro sulla pagina, discarica, in cui, quanto ci è stato detto in forma criptica, viene replicato attraverso un assillante Riflesso di ipotesi contrapposte che si elidono reciprocamente (…tutto quanto/somiglia al vero, tanto…tutto, somigliando, passa), o disseminato in Vene che amplificano l’ossessione dei prati bianchi, dei fogli , qui assediati dalla neve e dal gelo, nulla nel nulla,(…) solo bianco su bianco a cadere. La pagina dunque come luogo del proprio annullamento (Era e non era, comunque non è; /altro che il sangue gelato dentro) e del proprio disgelo (e ciò che era fuori colato qui/come parole che si sciolgono al sole,/solo parole da sciogliere. Come ?). Marzaioli chiude praticamente con questo interrogativo, cioè su quale strada incamminarsi per riempire lo spazio vuoto nella molteplicità delle sue implicazioni di scrittura destinata a convivere con la propria negatività, il bianco, collaborando, bianco e scrittura, alla stessa perdita/produzione/perdita di senso, facendo combaciare l’uno contro all’altro significante e significato fino a non essere altro che le schiacciate/ righe degli ultimi due versi. E qui potremmo rifarci anche a qualche sublimea esempio classico, come “Le beau papier de mon fantôme/ensemble sépulcre et linceul…” (“Il bel foglio del mio fantasma/Sepolcro e sudario insieme”) di Mallarmé (Hérodiade), nella compressa dimensione del nichilismo contemporaneo, senza vie di fuga nel simbolismo, e costretto a fare della scrittura il luogo di una virtualità, di una pulsionalità originaria e finale al tempo stesso. In re ipsa. Non c’è un altro Dio che possa salvarci.

Note di Flavio Ermini sui tre libri vincitori nella sezione Opera Edita

Luigi Ballerini, Cefalonia,
nota dell’autore, Milano, Mondadori, 2005

Poeta, traduttore e saggista, Luigi Ballerini è nato a Milano nel 1940 e vive a New York. Insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università della California a Los Angeles. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia. Come teorico della letteratura si è occupato soprattutto delle avanguardie storiche e ha curato numerose antologie di poesia italiana e americana.

È un dialogo in versi quello a cui assistiamo nel libro di Ballerini Cefalonia. Le voci appartengono a una vittima e a un carnefice. Il luogo di cui si parla – e dove forse si svolge il dialogo – è Cefalonia, là dove nel 1943, dopo l’armistizio firmato dall’Italia l’8 settembre, i tedeschi massacrarono la guarnigione italiana che aveva rifiutato di deporre le armi. Perirono oltre 5000 uomini.

Esito XIX edizione

PREMIO “OPERA EDITA” PROVINCIA DI VERONA

LA GIURIA DEL PREMIO SI È DAPPRIMA SOFFERMATA SUI SEGUENTI AUTORI: Sebastiano Aglieco, Luigi Ballerini, Maria Grazia Calandrone, Edvige Campadelli, Ettore Campadelli, Alberto Casadei, Roberto Cogo, Silvana Copperi, Albino Crovetto, Vincenzo Della Mea, Pasquale Della Ragione, Maura Del Serra, Mariella De Santis, Giarmando Dimarti, Marco Ercolani, Paolo Fabbri, Franco Falasca, Anna Maria Giancarli, Daniele Gorret, Ermanno Guantini, Renato Minore, Gabriele Pepe, Elena Salibra, Massimo Sannelli, Mirko Servetti, Norma Stramucci, Giovanna Zoboli.

Settembre 2005, anno II, numero 3

Carte nel Vento

 

periodico on-line 
 del Premio Lorenzo Montano

 

a cura di Ranieri Teti

 

Premessa

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