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Novembre 2019, anno XVI, numero 44

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ANTEREM
RIVISTA DI RICERCA LETTERARIA
 

Carte nel vento n.44

Tra Nadia Agustoni e Luca Vaglio sono compresi trentacinque poeti e prosatori di qualità, che si aggiungono idealmente a quanti sono stati presentati nei numeri scorsi e a quelli che usciranno nel prossimo numero che concluderà l’esperienza del “Montano” 2018. Differenti percorsi di ricerca si intrecciano in “Carte nel vento” 44, testimoniando allo stesso tempo la vitalità della poesia italiana contemporanea e l’impossibilità di una mappatura esaustiva: gli autori qui presenti rappresentano solo una validissima parte di quanto si produce oggi in Italia.

Tutte le note che accompagnano i testi proposti sono state realizzate dalla redazione di “Anterem”, a conferma dell’incessante lavoro che gravita attorno a questo Premio. Sono lieto di annunciare che dal prossimo anno la cura di “Carte nel vento” diventerà collettiva: sarà prodotto dall’intera redazione di “Anterem”, che coincide con la giuria storica del “Montano”. rt

 

In copertina: Aida M. Zoppetti, “A colpo d’occhio” (2019). Papier collé: stampa con sovrapposizione di materiali

(leggi tutto)

Prima pagina: Marco Ercolani, "L’archetipo della parola" (René Char e Paul Celan), Carteggi Letterari, 2018

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Partendo dalla fine di questo libro, di questo volume che è molto più di una nuova e precisa analisi a più voci, molto più di un atto d’amore collettivo per due autori che sono fondamenta e architrave del ‘900, Celan e Char, non si può non notare come l’epilogo non ne sia in realtà la chiusura, rappresentando invece un’apertura, racchiusa in una domanda che rimane sospesa. Questa domanda finale corrisponde a un ideale frammento di dialogo, convoca il pensare, chiede un sentire ulteriore, come tutto il libro. L’opera riprende, in nuove traduzioni, non solo testi esemplari dei due autori e alcune lettere, ma anche prove di saggisti che hanno scritto pagine decisive sulla loro poetica: notevole il recupero di questi materiali, per la maggior parte irreperibili, che Maurice Blanchot, Jacques Derrida, Peter Handke e Peter Szondi hanno dedicato ai due poeti.

Marco Ercolani immagina coordinate inedite con un affiatato gruppo di visionari, saggisti (Antonio Devicienti, Giuseppe Zuccarino) e traduttori (Mario Ajazzi Mancini, Viviane Ciampi, Anna Maria Curci, Lucetta Frisa, Francesco Marotta, Pasko Simone) nella costruzione a specchio del volume, tracciando con paralleli e meridiani la mappa di un mondo irripetibile colto nel suo apice. Come scrive in premessa, “Due poeti, due amici, per i quali la percezione poetica è scheggia luminosa e disastro oscuro…”. Ecco, quando sembrava che tutto fosse stato detto e scritto su questi fondamentali poeti del novecento, una nuova luce illumina la scheggia e il disastro da diverse, e nuove, angolature.

Ranieri Teti

Nadia Agustoni, "I necrològi", La camera verde, 2017, nota di Flavio Ermini

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L’essere umano ha umiliato il suo simile, degradandolo a mera cosa da possedere, sacrificandolo al profitto.

La fabbrica, così come si è rivelata nel Novecento, con le sue rigide, militaresche gerarchie, è ancora una realtà. Così com’è ancora una realtà la divisione in classi che impone agli ultimi di essere marchiati a fuoco come animali e incatenati l’uno all’altro.

Nadia Agustoni ci ricorda che vi possono essere luoghi in cui l’umano si estingue completamente, poiché nell’uomo c’è anche la possibilità di non risvegliarsi all’altro; c’è anche la possibilità del male più profondo.

Ecco una poesia che finalmente sottrae le umane esperienze all’aridità emotiva, all’indifferenza coscienziale, alla vacuità dell’estetico. Una poesia che ci invita a rifuggire da una comunità ridotta a mercato, dove gli individui sono degradati a un groviglio di interessi. Una poesia che si affida a una parola che non ha patria, né professione, né potere.


 

L’alba è coniglio

 

1

le parole sono l’alba. l’alba è coniglio. corre davanti all’auto. bestiola impaurita. manda avanti le gambe e il muso. tutto questo è qui. sono sveglio da tanto. prima le maniche del maglione alla bocca. il caffellatte. i biscotti. a volte il pane. mi arrangio l’uscita per il giorno. l’alba fredda a metà ottobre. ai morti avremo nebbia. senz’altro il vento delle montagne a tagliare il volto. 5,50 timbrato il cartellino. il cancello alle spalle. il corridoio al buio. luci si accendono di colpo. giacca e borsa nello spogliatoio. mi muovo. il corridoio al freddo. il reparto e le macchine. macchie scure cadono dal soffitto. dieci minuti. parte il rumore. il giorno è giorno tra tanti. succede in fretta quel vuoto senza parole. i gesti nel significato. non arriva nulla più in là di noi.

 

2

muovo da terra le casse. casse coi pezzi di ferro. diventano il ferro di altre macchine. pezzi lavorati. subito limati. il braccio fa gavetta da tanti anni. si impara a resistere. non più in là. la prima ora veloce. la seconda uguale. alle 8 il controllo. passano parole grosse. ingrosseranno di più. durante la mattina bisogna bollire col caffè.

 

3

le braccia abbiamo ferite. bruciature portate con magliette. siamo una pelle che ci sta dentro. alle 9 mi ricordo i mandarini la mela. il caffè lungo. o il the. nel the tanto zucchero. le macchinette del liofilizzato e quelle coi dolci. brioche a 60 centesimi di euro. al supermercato 6 con 1 euro e 20. oppure cioccolato. 1,50 il fondente di 100 grammi. la pausa dai 5 ai 7 minuti. la ritirata al gabinetto.

 

4

alle 10 le ossa. più o meno dolore. scricchiolo. il ritmo sale. calcolo dei pezzi appena fatti. il momento di accelerare. da una macchina all’altra. la fretta stringe il corpo a qualcosa. carichi e togli. ricarichi e limare. 4 per volta su una macchina. 8 su due macchine. le orecchie capiscono i rumori. le voci alte. arrivano a colpi. sentire parole intere no.

 

5

alcuni siamo italiani. gli altri non si sa sempre tutto. il pakistano non parla. si volta da un’altra parte. le ragazze berciano. alcune coi diplomi. lavorano qui contando di andarsene. una da 9 anni. veterana di tuta blu. i suoi capelli biondi. ci guardiamo. deboli per vivere. passa fino all’orlo della voce. passa e non si ferma.


Nadia Agustoni (1964) scrive poesie e saggi. Suoi testi sono apparsi su riviste, antologie, lit-blog. Del 2017 sono I Necrologi, del 2016 è Racconto Aragno, del 2015 Lettere della fine Vidya e la silloge [Mittente sconosciuto] Isola Edizioni; del 2013 è il libro-poemetto Il mondo nelle cose (LietoColle). Una silloge di testi poetici è nell’almanacco di poesia Quadernario (LietoColle 2013). Nel 2011 sono usciti Il peso di pianura ancora per LietoColle, Il giorno era luce, per i tipi del Pulcinoelefante, e la plaquette Le parole non salvano le parole, per i libri d’arte di Seregn de la memoria. Del 2009 la raccolta Taccuino nero (Le voci della luna). Altri suoi libri di poesie, usciti per Gazebo, sono: Il libro degli haiku bianchi (2007), Dettato sulla geometria degli spazi (2006), Quaderno di San Francisco (2004), Poesia di corpi e di parole (2002), Icara o dell’aria (1998), Miss blues e altre poesie (1995), Grammatica tempo (1994). Vive a Bergamo.

Angelo Andreotti, "A tempo e luogo", Manni, 2016, nota di Flavio Ermini

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Il nuovo libro di Angelo Andreotti ha per titolo A tempo e luogo. Un luogo dove sono accatastate ombre di parole; un tempo che ci condanna a una solitudine per cui tutto è sempre di più o di meno.

L’essere dell’uomo diventa centro di esperienza vissuta. Esperienza non propria dell’individuo, ma dell’esistenza stessa.

Il poeta ci porta al cospetto di una storia della quale noi tutti siamo protagonisti, perché la natura diventa in noi visibile.

La natura è la grande unità dell’essere, rivela Andreotti.

Accettandone le leggi veniamo coinvolti in un movimento dello sguardo e del pensiero che si fanno forti di una logica che presiede all’insieme del mondo.

 

Divergenze

 

I

A oriente nuvole livide e gonfie

prese a pugni da un sole infuocato

sfondano l’aria montando sul vento.

 

Per ogni nuvola un passaggio di ombre

un variare di luci e colori

tutto un discorrere

un disegnare inesausto il paesaggio

questa casa

un risuonare di tempo eveniente

che sconfina dai bordi di ogni istante.

 

III

Le fondamenta sanno della terra

quello che il susseguirsi dei giorni ignora

ma di quell’enigma

che la forma di una crepa nasconde

niente viene svelato

 

e d’improvviso si fa inesplorato

qualsiasi luogo

                      anche quel sentiero

che mille volte abbiamo camminato.


Angelo Andreotti è nato nel 1960 a Ferrara, dove dirige i Musei d’Arte Antica e Storico Scientifici. Scrive narrativa, poesia, saggi su arti visive e letteratura.

Tra gli ultimi libri, le raccolte Parole come dita (Mobydick, 2011) e Dell’ombra la luce (L’Arcolaio, 2014), L’attenzione (Puntoacapo, 2019) alle quali fa da corollario la riflessione Il silenzio non è detto. Frammenti da una poetica (Mimesis, 2014), e i racconti Il guardante e il guardato (Book Salad, 2015).

Dino Azzalin, "Il pensiero della semina", Crocetti, 2017, nota di Rosa Pierno

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Dino Azzalin svolge i suoi testi poetici sulla falsariga di parabole in cui ogni cosa viene ordinata “ciascuno secondo la sua specie: “ove l’amore è l’ordine superiore che tutto ammanta e lega”, che dona un legante simbiotico e fulminante: la corolla, dietro la vela, dove irrompe il lampo che illumina e scuote il largo, tutto riunendo nella medesima sorte.

Se non tutto si compie, resta comunque la speranza che la perfezione si possa raggiungere. Credere che il male si fermi sulla soglia ove fascio di spighe è il viso dell’amata al sole.

L’analogia si dimostra strumento con cui decifrare le differenze esclusivamente apparenti e lacerare il velo che cela il medesimo respiro (afflato) delle cose nel mondo. Lirico e raffinato, il testo poetico di Azzalin sfiora e unisce con una parola, offrendosi in dono.



***
La corolla si aprí al riparo
della gomena, dietro la vela,
dove irruppe all’improvviso
il lampo che illuminò il dono,
scosse il lago, ne respirò la sorte.



***
L’assenza è quasi sempre una scelta precisa.
Misura la distanza del ritorno, l’assoluta stasi
di una parola o di un niente che tace.
Matura un cielo da preda o una radice
piú fertile del nostro fragile esistere,
e ci nutre con la sua ombra, che ci aiuta
a sopportare l’attesa di una stella dal mare.



***
E tana fu la voce, densa a fondersi
nel cuore dove l’uno era anche
l’altro per l’imminenza dei gesti,
per la pioggia dei campi che disfa
e dissolve i corpi con odore di fango
senza piú ossa né carne, né alibi o singhiozzi.


Dino Azzalin (Pontelongo, PD, 1953) ha pubblicato I disordini del ritmo, introduzione di Cesare Viviani (Crocetti, Milano 1985), Deserti, prefazione di Mario Santagostini (ivi 1994), Prove di memoria, prefazione di Andrea Zanzotto, (ivi 2006). Del 2010 è la plaquette di testi in forma poetica Guardie ai fuochi, Edizioni del Laboratorio (Modena).
Nel 1999 ha pubblicato il libro di racconti Via dei consumati (Edizioni Ulivo di Balerna, Svizzera); nel 2001 il volume di report-viaggi Diario d’Africa, con introduzione di Alex Zanotelli (NEM, Nuova Editrice Magenta; nel 2007 Mani Padamadan (Viaggi di sola andata), (NEM, Nuova Edi- trice Magenta. Nel 2016, ha pubblicato i racconti Nel Segreto di Lei (Storie d’amore e di buio) (Edizioni ES, Milano).
Vive a Varese, dove esercita la libera professione di medico.

Nicoletta Bidoia, dalla raccolta inedita "Finiremo per trovarci", nota di Giorgio Bonacini

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Il poemetto di Nicoletta Bidoia, incentrato sulla figura di Vaslav Nijinsky, è un esempio eccellente di come si possa far poesia intorno alla biografia interiore e alla dimensione estetica di un artista, che ha disincarnato l’umano sentire arrivando a guardare fin là dove solo una poesia vivente può arrivare: a vedere “il dolore che si imbosca nelle parole”. Dunque provare il segreto dell’oscurità attraverso un patimento reso muto dalla lingua, ma con la forza di una visione impetuosa. La voce di questo poemetto ha il suono che parte non dalla musica, ma dalla visività della danza: da un corpo e un sentimento irrefrenabili, dove il sollevarsi da terra è fatto della stessa sostanza che ha un prodigio: non il balzo, ma l’ascesa verso una forma d’esistenza fisicamente e cognitivamente sempre sospesa. Ed è questa la materia che la scrittura dell’autrice riesce a far aderire a una vita, che viene resa annullando il racconto, in favore di una moltitudine di sensi che ritmano nell’intimo del linguaggio; e lì si intersecano e danno alla significazione propria della poesia il cammino plurimo che potremmo definire biografia di una danza. Arte che opera non solo con l’evidenza del movimento, ma, più profondamente, cura il silenzio come suprema forma di parola e figura. Così il senso è messo a nudo, perdendo se stesso ma ottenendo, superando il significante della fisicità, di sciogliersi in quel niente che, come precisa Nicoletta Bidoia, “resta l’enigma dolente che strema”. Perché l’essere, come la poesia, non può interpretare se stesso, non è un personaggio. Può solo (ma con grandissimo valore) mostrare ciò che è in ciò che è: senza intermediazione alcuna.

 

***

Sono in corsivo nel testo le frasi di Vaslav Nijinsky tratte dai suoi Diari, nelle traduzioni di Gabriella Luzzani e Maurizia Calusio (entrambe per Adelphi).

 

I

ho la semplicità che hanno i cieli (Osip Mandel’štam)

 

C’era mia madre e la dura fame

e Bronja e Stasik, fratello folle,

in anticipo di poco sulla mia pazzia.

E c’erano i miei occhi tartari ‘giapponesi’,

i miei zigomi derisi, le carni isolate

dai compagni che staccavano dalle loro

le mie trepidazioni. Io piango tanto.

Io piango in maniera

da non dar fastidio a nessuno.


 

Già da allievo miracolavo nel salto,

perché se parto alla volta del cielo

è per restarvi a lungo a mezz’aria.

Non conosco altro azzurro

se non quando prolungo l’incontro

là in alto

e mi sospendo, vi penso, mi calmo.

E dopo ogni indugio

ritorno a quel fuoco, plano,

scendo in me

come un perdono.
 

(…)
 

Cupo, ottuso, dicevano, spaesato.

Non parla, non sa parlare,

balbetta. Ed è vero,

tacevo e in ogni tacere scandivo

la cantilena dei timidi,

i monosillabi di Dio.


 

II

Sono accusato di un crimine contro la grazia. Credo di poter ballare ‘graziosamente’ in balletti altrui se la grazia è richiesta, e potrei comporre balletti graziosi io stesso se volessi. Il fatto è che detesto la poesia convenzionale “dell’usignolo e della rosa”; le mie inclinazioni sono primitive.

Vaslav Nijinksy in ‘Daily Mail’ del 12 luglio 1913
 

In tanti cercano di scoprire il segreto dei miei salti, non si capacitano, parlano perfino di levitazione. “Vive in aria” dice di me il basso Šaljapin, “del tutto libero dai vincoli della gravità”, insiste Cocteau, che dietro le quinte cerca una meccanica nascosta dentro le mie scarpette che spieghi l’arcano e metta il cuore in pace.

A chi mi chiede come io riesca a saltare in quel modo rispondo: “Non è difficile, basta fermarsi un po’ in aria”. Vorrei però che fosse chiaro: io non sono un saltatore, sono un artista.
 

Poi mi vedono in Petruška, il burattino che si sente oppresso e che soccombe. Quando muoio in scena il mio spirito si libera sopra il teatrino della fiera e tormenta il mio aguzzino. Petruška è uno come me, non può far altro. Così per Stravinsky sono “la maschera d’attore più potente” e per Charlie Chaplin sono “ipnotico, divino”. Dio della danza infatti mi chiamano, ma non mi piacciono le lodi, non sono mica un ragazzino.

(…)


Nicoletta Bidoia è nata a Treviso nel 1968 e ha pubblicato i libri di poesia Alla fontana che dà albe, quasi una preghiera ad Alda Merini (2002), Verso il tuo nome (2005, con prefazione di Alda Merini), L’obbedienza (2008, con prefazione di Isabella Panfido) editi da Lietocolle, e Come i coralli (2014) con Edizioni La Vita Felice.

Nel 2013 è uscito per Edizioni La Gru il racconto Vivi. Ultime notizie di Luciano D.

Sue poesie, apparse anche in raccolte e riviste e più volte trasmesse a Rai Radio3, sono state tradotte in spagnolo in Jardines secretos, Joven Poesìa Italiana, a cura di E. Coco (Sial, Madrid, 2008).

Con la cantautrice Laura Mars Rebuttini ha realizzato lo spettacolo Un piccolo miracolo, partecipando ad alcuni festival italiani di poesia.

Compone anche collages e teatrini di carta (reperibili in rete su youtube o instagram): con alcuni di questi ha illustrato il numero 41 di “Carte nel vento” https://www.anteremedizioni.it/gennaio_2019_anno_xvi_numero_41

Simone Maria Bonin, "Tratti primi", Arcipelago Itaca, 2017, nota di Flavio Ermini

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Simone Maria Bonin ci parla di un cammino ignaro del principio e della fine, tanto da celebrare – grazie alla parola poetica – l’incompletezza.

Tale produzione non si collega a dispositivi gerarchici, alla figura della legge, bensì viene colta come il vero e proprio continuum dell’esistenza.

È un commercio intimo quello che intercorre tra l’avventura umana e la lingua che la custodisce, un po’ come fa la macchina fotografica con i suoi scatti.

Insomma, nell’avventura della vita non si tratta tanto di commuoversi, di gioire o di addolorarsi; quanto di capire, di consentire a ognuno di noi di attribuire una cifra – la nostra – all’intimità e alla verità delle nostre vite.

 

***

Chissà poi cosa mai saprai di noi

tesi sottopelle ed elettrici di sangue

i bronchi a pezzi per ragioni esenti

da qualsiasi stasi di se stessi


 

Dalla sezione “Voyages”

 

(Uno)

I

A riva è il nostro posto

in questa colla di salmastro

     dove

il mare aperto è corpo

distante dallo sguardo


 

Dalla sezione “Biopsie”

***

Da neurone a neurone

corre un filo elettrogeno

                  di fame

colpiscimi

se puoi, fammi male

prega altro dolore

un colpo di esistenza

tra le vertebre delle parole

 

***

Sei parole senza nome, senza

soluzione

impara la posizione del corpo

                         le cose

non torneranno più


Simone Maria Bonin è nato a Venezia nel 1993. È laureato in Matematica ed Economia all’Università di Warwick, nel Regno Unito, e prosegue gli studi specialistici ad Aarhus, in Danimarca. Ha vissuto diversi mesi, nel 2009, in Costa Rica.

Assieme a Gerardo De Stefano ha curato la collana di poesia "Rigor Mortis" di Thauma Edizioni pubblicando Atlantide: Poesie, Prose e Corrispondenze di Hart Crane, prima traduzione italiana dell’opera completa del poeta americano.

Collabora come traduttore con la rivista letteraria online 'Inkroci'. Suoi testi sono apparsi su "Nazione Indiana" e su "Poesia" (qui, con nota critica di Maria Grazia Calandrone).

Fabrizio Bregoli, dalla raccolta inedita "Logomachie", nota di Giorgio Bonacini

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Fabrizio Bregoli presentando la sua raccolta all’insegna della disputa verbale, indirizza fin da subito il lettore dentro un solco metapoetico, fervido di implicazioni significanti, che portano senso emozionale e intellettivo contemporaneamente. E la lettera scientifica, che ne punteggia il percorso, è sostanza in più, intrinseca a una precisa e vasta modulazione poetica. Il dire si riempie di una voce che fa brillare “elettrodi”; portare a modulazione scelte lessicali di un sapere senza cesure; “frequenze interferenti” liberano il sintagma in una corrente che dà alla voce poetica “la pienezza del fulmine”. Ma il linguaggio è materia misteriosa, riesce a potenziare i mille canali di un significato, che vorrebbe essere univoco, anche inabissandosi nel silenzio, ma senza, per questo, annullarsi. Però ciò non toglie, rileva l’autore, che nello spazio e nel tempo del poema ci si possa perdere: in sommovimenti magmatici o scavi carsici che potrebbero far collassare la concettualità e l’ immaginazione. Ma in questi testi ciò non accade, perché il pensiero è tenuto insieme da una natura concreta: scarnificata e visionaria. E il tutto dentro un corpo che più che fare poesia della scienza, si fa scienza di poesia: dunque lingua materica. Lì dove l’andamento produce i suoi limiti e li supera in continuazione, con un moto “denso” in “compiuta curvatura”. Dentro queste poesie i numeri accadono: e così le rime e le assonanze che intrecciano visibilità, ritmo e geometria. Fabrizio Bregoli non chiede alla poesia il disvelamento di sé, ma lascia che il suo cammino errabondo inciampi, per poter scoprire anche la precisione “di ciò che non si compie.”

 

***

Sempre e solo un’ipotesi, un respingere

laterale, come fosse un intruso

a porgere la mano, osare spazio.

Esige questo, uno scendere a patti,

la sua sintassi opaca, risoluta.

Basta poco sai, quella macchia sghemba

che s’arremba alla pelle, come un fiordo

buio appeso alle labbra. O un affiorare

lento, come da una radice antica,

di un conto che non torna,

un ammutinamento delle cellule.

Perché in fondo sai, siamo quest’estrudersi

del corpo, ambire a senso, direzione

a una misura che si compie.

Ardire un passo in più, un verso oltre.


 

Dalla sezione “Apostasia di Nikola Tesla”

 

I.

Differenze di potenziali, elettrodi

come baratri tra parola e buio.

Servirebbe forse crederli grumo

materico, qualcosa

di elementare, una tavola pitagorica

un’acqua di Talete. Verbo

che solo nel non dirsi si sa dire.

 

III.

Eludere lo spazio. Ed abusarne

farne mezzo, ricettacolo d’onde.

Plasma. Elettroni come arche, globuli

minimi di campo. Eppure lo pensi

ordine questo accrescersi di formule,

quest’ambire a norma, a processo ergodico

reticolo di geometrie variabili.

Vi potresti smarrire. Potresti dirlo Dio.

 

IV.

Sinusoidi. Modulate armoniche,

frequenze interferenti in fase, fronti

d’onda che propagandosi s’assommano,

eludono zeri e vuoto. Forzieri

d’energia, vettori di significato.

Nοῦς. Limes d’un sapere antico, prossimo.


Fabrizio Bregoli, nato nella bassa bresciana, risiede da vent’anni in Brianza. Laureato con lode in Ingegneria Elettronica, master in Marketing, lavora a Seregno nel settore delle telecomunicazioni.

Ha pubblicato alcuni percorsi poetici fra cui “Cronache Provvisorie” (VJ Edizioni, 2015 – Finalista al Premio Caproni) e “Il senso della neve” (puntoacapo, 2016 - Premio Rodolfo Valentino 2016 e Premio Biennale di Poesia Campagnola 2017, Premio della Critica al Dino Campana 2017, Finalista ai Premio Gozzano, Merini, Caput Gauri). Ha inoltre realizzato per i tipi di Pulcinoelefante la plaquette “Grandi poeti” (2012).

Sue opere sono incluse in Lezioni di Poesia (Arcipelago Itaca, 2015) di Tomaso Kemeny e in numerose altre antologie. Con il poemetto ENIAC è inoltre incluso in iPoet Lunario in versi (Lietocolle, 2018).

Il suo ultimo lavoro è "Zero al quoto" (puntoacapo, 2018) con prefazione di Vincenzo Guarracino.

Partecipa a letture poetiche, dibattiti culturali e blog di poesia. Ha preso parte ad alcuni eventi di azione poetica mito-modernista e alcune sue poesie sono state esposte congiuntamente a opere pittoriche in eventi organizzati dall’associazione Civico32 a Bologna.

Ha conseguito numerosi riconoscimenti per la poesia inedita, fra i quali gli sono stati assegnati i Premi San Domenichino, Marietta Baderna, Lino Molinario, Daniela Cairoli, Giovanni Descalzo, Eridanos, Piemonte Letteratura, Terre di Liguria, Il Giardino di Babuk, il Premio “Dante d’Oro” dell’Università Bocconi di Milano, il Premio della Stampa al Città di Acqui Terme.

Sulla sua poesia hanno scritto Giuseppe Conte, Tomaso Kemeny, Ivan Fedeli, Mauro Ferrari, Sebastiano Aglieco, Vincenzo Guarracino, Laura Caccia, Laura Cantelmo, Eleonora Rimolo, Paolo Gera, Alessandro Ramberti, Gian Piero Stefanoni, Alfredo Rienzi.

Davide Castiglione, poesia inedita “Domantė”, premessa di Ranieri Teti

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Quale elemento di un testo porta più con sé il piacere di leggerlo, ma soprattutto di rileggerlo?

Il senso, il ritmo, quel sapiente enjambement, la musicalità dei versi ogni tanto interrotta da voluti inciampi, l’architettura verbale, una filigrana di narrato che innerva la materia poetica, la visione, l’esattezza e l’accostamento dei termini, il “tu” che pervade l’opera dal primo verso “Sei inseparabile dai giorni freddi” all’ultimo “lucina fioca io, e tu, candela”, alcune dissonanze, l’uso del monologo?

Me lo chiedo perché sono tutte caratteristiche che ho trovato in “Domantė”.

L’uso del monologo, nella qualità del testo, è impreziosito dal passaggio da “io” a “tu”, evidenziato nella terza parte da un distico superiore, quel “lo so benissimo / che mi hai vista guardarti”: qui parla Domantė e la sua libera affabulazione corrisponde a un’ideale risposta, indiretta, alle prime due parti in cui parla l’autore.

A questa tripartita poesia di Davide Castiglione si continua a tornare volentieri; a ogni ritorno il testo offre qualcosa di inedito, come, ascolto dopo ascolto, un brano musicale.

Sembra invece cinema, con la tecnica del flashback, l’inizio della seconda parte: la neve di un oggi che ricorda la neve di un allora, con i passaggi verbali tra presente e passato che rappresentano i cambi di scena della macchina da presa.

Tutto è così tangibile e insieme così toccato da un’idea compositiva precisa: c’è una sorta di traccia narrativa, ci sono elementi quasi dialogici, scarti temporali, emergono frammenti di memoria, le situazioni sono allo stesso tempo verosimili e trasfigurate, con gli strumenti e dalla sensibilità dell’autore. Ma soprattutto non c’è manierismo, manca completamente il già sentito, la riproduzione di stilemi già conosciuti: l’evoluzione poetica di Castiglione gli ha fatto prendere le distanze dai suoi riferimenti iniziali. Ci troviamo dentro un’apertura, in un nuovo territorio.

 

Domantė

 

I

Sei inseparabile dai giorni freddi,

dal demone del modello che grava

di un rimprovero per sempre le labbra

inesplose. No, hai sorriso, ridi,

questa risacca amara la ricacci

indietro come uno scialle. Ti ho chiesto

copri gli occhi, così, scoprili adesso,

fai lo stesso con la bocca, si affacciano

a ogni giravolta del sipario

il pieno e lo stelo, la carne e il suo contrario.

 

II

Ci sono questi fiocchi in adunata,

lenti, distanziati. Come il cugino

quando spianava ai parenti la strada

che all’estero lo raggiunsero uno

per uno, s’incendiano sul cappotto,

uno scheletro ciascuno e risplende

immortale, incistato nelle pieghe,

primeggiando sul feltro che sta intorno.

Come faccio a tenerti viva se

t’investo così. Come fai, a disfarti

dei violini svenevoli di noi altri –

e di mio, dello sporco dominio di una frase.

 

III

nulla tu nulla tu nulla tu nulla

leggilo come vuoi cioè a tuo favore

questo mio osceno equilibrio il ponte

è crollato e certo, certo che sulla

questione ci hai preso, la storia dello

squarcio prospettico mentre tenevi

banco insegnando e con un pennarello

difendevo quel paesaggio di stevens

in un cuore acceso. Lo so benissimo

che mi hai vista guardarti, gli occhi fissi,

ma chi te lo dice che non ti stessi

soppesando i difetti, i compromessi

dell’aiutarsi a vicenda, ridicolo,

continua a pensarti questa radiosa

potenza nella mia vita, no dico,

calmo apollo, lucina fioca fioca,

perlina stavi per, volevi dirmi,

di una luuunga collana come la

sistemiamo ormai? forse, se ti fermi,

lucina fioca io, e tu, candela.


Davide Castiglione (Alessandria, 1985) è attualmente docente di materie letterarie e linguistiche all’Università di Vilnius in Lituania. Si è laureato a Pavia con una tesi su Vittorio Sereni traduttore da William Carlos Williams, e dottorato a Nottingham (Inghilterra) con una tesi sulla difficoltà linguistica e cognitiva nella poesia angloamericana. Ha pubblicato articoli scientifici su riviste accademiche internazionali (K. Ladygos street 5, flat 61 LT082-35, Vilnius Lithuania Semantics» e «Language and Literature»), gestisce un sito personale che ospita letture di altri «Strumenti critici», «Journal of Literary poeti e ha co-fondato il progetto collettivo di critica poetica In realtà, la poesia. Sue poesie sono state pubblicate su varie antologie e riviste, tra cui «Poesia» (con una nota di Maria Grazia Calandrone). È inoltre autore di due raccolte poetiche: Per ogni frazione (Campanotto, 2010; segnalata al Premio Lorenzo Montano 2011), e Non di fortuna (Italic Pequod 2017).

Rossella Cerniglia, prosa inedita “I miti e la Dichtung heideggeriana”, nota di Flavio Ermini

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Ci sono saggi che impongono al lettore non un semplice ascolto, ma un coinvolgimento intellettuale ed emotivo tale da spingerlo verso ulteriori, inedite riflessioni.

Questo è il caso del testo filosofico “I miti e la Dichtung heideggeriana”.

L’autrice, Rossella Cerniglia pone – con Heidegger – una domanda fondamentale: «Che cosa ci chiama al pensiero?», inducendoci in tal modo a formulare una seconda domanda: «Che cosa fa a noi appello, inducendoci a pensare e, così, in quanto pensanti diventare quello che siamo?».

Porsi queste domande significa mettersi di fronte alle intemperie del linguaggio; significa portarsi in mezzo ai flutti e lì, tra le righe, rischiare il naufragio; vuol dire prendere atto che l’alfabeto non è una scialuppa sufficiente se si lascia addomesticare dalla cronaca.

Rossella Cerniglia ci invita a restituire alla parola il suo albale vigore, affinché torni in grado di nominare e farci apprendere qualcosa del mistero che circonda l’umana esistenza, della nostra sete di verità. Non assegna alla sola filosofia il compito di una costruzione necessaria del mito d’origine, bensì rimette nell’inseparabilità il compito del poetico e il dovere del pensiero filosofico.

Non basta che l’uomo apostrofi le cose con il loro nome perché esse siano afferrate nel processo della rivelazione. È necessario che il nome sia attinto dal sottosuolo della storia – dove ancora sono presenti le archai – affinché l’essenza delle cose giunga a espressione. E cosa ci dicono questi nomi? È esplicita, a questo proposito Rossella Cerniglia. In questi nomi c’è «l’essenza del linguaggio e della realtà che esso esprime, e pertanto dell’essenza stessa». Non c’è un prima – in sé uno e unitario – e poi un uscire da sé, e riversarsi nel molteplice. L’essere resta uno e unitario, fondamento dell’esserci di tutte le cose.


 

I miti e la Dichtung heideggeriana

 

I miti dell'antichità classica esprimono una condensazione di significati in immagini di rara forza e bellezza e danno testimonianza del momento aurorale della nostra riflessione in cui pensiero e canto, filosofia e poesia, vivevano un'unica vita.

É stato Martin Heidegger a prospettare l'esistenza di una struttura archetipica del nostro linguaggio, di un'archelingua, che costituirebbe la radice comune del Pensiero e del Canto. Essa ci appare come un sostrato nel quale, appunto, pensiero e canto - come avviene in qualche misura nel mito- convivono e si intrecciano tra loro inscindibilmente. In altri termini una struttura portante della nostra esistenza dalla quale dipende la nostra interrelazione e interazione col mondo.

Nella postulazione heideggeriana, Pensiero e Canto, vale a dire filosofia e poesia, si condensano in questa originaria matrice che è la Dichtung, e in essa coabitano, hanno un rapporto intrinseco, dialogante, che si esplica nel linguaggio. Nella Dichtung i due elementi vivono non scissi, e solo a posteriori sarà possibile considerarli separatamente.

Tale concetto è parte di quell'evoluzione del pensiero di Heidegger dopo Essere e Tempo, che è insieme svolta ontologica e tentativo di sostituzione di quel linguaggio con cui la metafisica aveva impostato la questione dell'essere, la Seinfrage. Ed è nel saggio Holderlin e l'essenza della poesia, pubblicato nel 1937, che Heidegger formula una nuova concezione dell'essere connessa ad una precedente impostazione del problema della verità: la concezione dell'essere come evento cui si collega il ruolo ontologico del linguaggio.

Per Heidegger, infatti, “ciò che prima di tutto è, è l'essere”. La parola evento, viene in tal modo a designare l'originaria reciproca appartenenza dell'uomo e dell'essere: l'uomo infatti non è senza l'essere e l'essere non di dà senza l'uomo. All'interno di tale originario evento sono possibili, poi, tutti gli altri accadimenti della storia umana che è, manifestazione dell'essere, storia attraverso cui l'essere, storicizzandosi, si manifesta.

“Nella dimora dell'essere abita l'uomo- dice Heidegger - e i pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è portare a compimento la manifestatività dell'essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono.”

Nel pensiero originario, cioè nel mito, i due poli della dell'archelingua heideggeriana vi si riscontrano - come abbiamo detto - intimamente connessi, e in essi si realizza quell'aprimento dell'essere che non appare mai in una luce costante. Il suo disvelarsi è, infatti, analogo a una istantanea illuminazione che subito torna a nascondere ciò che ha mostrato perché il mostrarsi della verità, quello che gli antichi greci chiamavano aletheia, si dà in un continuo nascondersi e rivelarsi che non ha fine. Per quel che concerne più propriamente la poesia, essa permette l'aprimento dell'ente “in ciò che esso è, e nel come è; e nell'opera (d'arte) è in opera l'Evento (Geschehen) della

verità. In essa, la verità dell'essere opera attraverso il linguaggio per il suo disvelamento.
In altre parole, in questa lingua originaria, archetipica, la filosofia viene a coincidere con la poesia poiché entrambe, unitamente, operano per svelare, attraverso la parola, il senso dell'essere, la sua verità. Ma tale svelamento, secondo Heidegger, non dipende dalla volontà dell'uomo. Non è, infatti l'uomo a parlare, ma il linguaggio stesso -e per suo tramite l'essere- che parla attraverso

l'uomo.
Tuttavia, nel suo stare a fondamento di pensiero e canto, filosofia e poesia, che si esplicano nel

linguaggio, la Dichtung li trascende entrambi poiché ogni pensiero e ogni canto non potranno mai ricomprenderla e riaffermarla interamente. Essa rimane – come si è detto - nel pensiero/canto e nel linguaggio che li esprime, in un Nascondimento che mostra o in un Mostrarsi che nasconde. Ed è qui l'essenza del linguaggio e della realtà che esso esprime, e pertanto dell'esistenza intera: essa vive nell'ombra di questo Nascondimento che accenna a se stesso senza mai interamente svelarsi nella sua Luce. E in tal modo ci si presenta come inesorabilità del trascendente - ma non nel senso che Heidegger aveva combattuto, di quel metafisico che apre allo sviluppo incontrastato della téchne, bensì come distanza e diversità dall'ente, cioè per la sua natura ontologica e non ontica. In tali termini esso ci appare come connaturato alle modalità di essere dell'esistenza e riconfigura il problema dell'Origine dove l'aporia insormontabile è costituita dal fatto che qualunque tentativo facciamo per raggiungerla vede l'Origine arretrare nel suo Nascondimento e porsi Oltre, sempre al di là dell'umano orizzonte.

Le grandi interrogazioni degli scienziati, al giorno d'oggi, mi pare vertano proprio su questo punto nodale, il primo e il solo punto indagato nelle lontanissime origini del pensiero stesso. Ed è questa la riprova dell'impronta teleologica che mi pare rinvenire nell'universo, come se un logos interno, un pensiero immanente ad esso ci indirizzasse all'Oltre, in un processo di Immanenza/Trascendenza che rimane la radice dell'Universo stesso. Infatti, comunque si attui questa ricerca, sia che parta da un'indagine sul suo fondamento, sia che parta dalle cose stesse, dall'essere o dall'ente, essa conduce sempre ad additare un Oltre, che si colloca, irrimediabilmente, al di là delle coordinate esistenziali, come se il fondamento dell'esistenza di fatto, e delle facoltà interpretative con le quali ci orientiamo in seno ad essa, fosse quel limite dal quale l'Essere-nascosto accenna a se stesso senza mai rivelarsi.

Inevitabile torna, perciò, il parallelismo tra Immanenza/Trascendenza e tra il linguaggio umano e l'archelingua heideggeriana, la Dichtung. Infatti, nel pensiero di Heidegger, essa appare come sostrato immanente sia al Pensiero che alla Poesia, e d'altra parte, vivendo essi nella sua luce senza mai identificarsi con essa (che rimane inattingibile e nascosta), la Dichtung sembrerebbe additare la sua stessa trascendenza.

Il rapporto Immanenza/Trascendenza, sarebbe poi, tradotto in altri termini, il rapporto che lega parallelamente e dialetticamente l'Esistenza all'elemento che la trascende e che ad essa si impone,

che per quanto ci adoperiamo a negarlo, sempre risorge, sempre accenna a se stesso in quel Nascondimento/Disvelamento che gli è proprio. Ma tale rapporto, che a noi si mostra come parallelo e dialettico, verrebbe ad esprimere una Identità, una eguaglianza fondamentale poiché, solo nello iato che è l'esistenza, l'Immanenza/Trascendenza, -ovvero il Nascondimento che si disvela e il Disvelamento che in se stesso si ritrae nascondendosi- si mostrano come distinti.


 

Rossella Cerniglia è nata a Palermo, dove vive. Laureata in Filosofia è stata a lungo docente di materia letterarie nei Licei della stessa città. La sua attività letteraria ha inizio con la pubblicazione di Allusioni del Tempo (con presentazione di Pietro Mazzamuto), ed. ASLA – Palermo 1980; seguono Io sono il Negativo (con prefazione di Nicola Caputo), ed. Circolo Pitrè – Palermo 1983; Ypokeimenon (con introduzione di Elio Giunta), ed. La Centona – Palermo 1991; Oscuro viaggio, ed. Forum/Quinta Generazione – Forlì 1992; Fragmenta (con introduzione di Giulio Palumbo), Edizioni del Leone – Venezia 1994; Sehnsucht (con prefazione di Maria Grazia Lenisa), ed. Bastogi – Foggia 1995; Il Canto della Notte (con nota critica di Ferruccio Ulivi), ed. Bastogi – Foggia 1997; D’Amore e morte, stampato a Palermo nell’anno 2000; L’inarrivabile meta (con prefazione di Elio Giunta), ed. Ila Palma – Palermo 2002; Tra luce ed ombra il canto si dispiega (antologia e studio critico comprendente anche i testi di altri quattro autori palermitani, a cura da Ester Monachino), ed. Ila Palma – Palermo 2002; Mentre cadeva il giorno (con introduzione di Giorgio Barberi Squarotti), ed. Piero Manni – Lecce 2003; Aporia (con prefazione di Salvo Zarcone), ed. Piero Manni – Lecce 2006; Penelope e altre poesie (con prefazione di Pietro Civitareale), ed. Campanotto – Pasian di Prato 2009. Nel giugno del 2013, per l’Editore Guido Miano di Milano, ha pubblicato un’Antologia che propone un breve saggio delle prime dodici sillogi poetiche, con disamina di Enzo Concardi. Infine, essendo risultata vincitrice, per l'inedito, al Premio “I Murazzii” di Torino, nel 2017, le è stata stampata l'ultima sua raccolta di versi Mito ed Eros – Antenore e Teseo con altre poesie.

Per quel che riguarda la narrativa, nel 1999 ha pubblicato il romanzo Edonè...edonè, ed. La Zisa di Palermo; nel 2007, ancora per l’editore Piero Manni di Lecce, viene stampato il suo secondo romanzo dal titolo Adolescenza infinita e infine, per l’Editore Aletti di Villalba di Guidonia, il libro di racconti Il tessuto dell’anima. L'ultima pubblicazione è il saggio “Riflessioni, temi e autori”, tra le tre opere premiate a “I Murazzi” 2018 “con dignità di stampa”

Collabora o ha collaborato con alcune riviste, tra cui“Vernice”, Alcyone 2000 e a giornali on line LinkSicilia, Palermomania, meridionews, e attualmente con la Casa editrice Guido Miano di Milano ed altre rivista ancora. Ha ricevuto favorevoli riconoscimenti e attestazioni da parte di numerosi critici e letterati ed è stata premiata in diversi altri concorsi letterari. Suoi versi e profili critici sono presenti in antologie e riviste

letterarie, tra cui L’Altro Novecento (vol. II e III) a cura di Vittoriano Esposito edito da Bastogi, 1997; nella rivista Poesia dell’editore Crocetti di Milano; in Poeti scelti per il terzo millennio (2008),in Storia della Letteratura italiana (vol. IV, (2009) e in Poeti italiani scelti di livello europeo ( 2012), dell’Editore Guido Miano di Milano; più recentemente in Il rumore delle parole ed. Edilet, 2014, e in Come è finita la guerra di Troia non ricordo, ed. Progetto Cultura, Roma, a cura, entrambi, di G. Linguaglossa, e più volte sulla rivista telematica L'Ombra delle parole, diretta dallo stesso G. Linguaglossa.

Maria Benedetta Cerro, "Lo sguardo inverso", LietoColle, 2018, nota di Flavio Ermini

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L’esercizio della riduzione al precategoriale per giungere al primo principio è alla base della ricerca poetica di Maria Benedetta Cerro.

Inevitabili, dunque, l’abbandono dell’opinabile e la liberazione dall’incantesimo dell’ovvio.

Diciamolo: qui si tratta di superare la crisi di astinenza dalla verità.

Ci hanno fatto credere che un secondo principio non fosse fattibile.

Ebbene, Lo sguardo inverso contraddice questa credenza.

E dall’oltre di un dire sorgivo ci parla della perfezione di un incontro.

Della sacralità di un colloquio che si trasforma in canto.

 

Dalla sezione “Il dire sorgivo”

 

***

Ci ordinò di corrispondere

perché eravamo inconsolati.

E riprese a pulsare la vena

                                     dell’abbandono.

Il cielo neutro della parola

manifestò il suo dire sorgivo

                            e il lutto

fu animato dalla meraviglia.

Lui – il nodo del fenomeno

e del tutto – ci concesse il dettaglio

capitale che mutò lo sguardo.

 

***

La cucitrice di bocche

                            siede nel frastuono.

Il remoto e ciò che spera di venire

attraversano il filo che infilza le parole.

                             Tolto il senso

                             il suono

                             il sussurro

non resta che togliere il pensiero.

Allora ti sarà ridata la bocca

la cantilenante nenia dei pazzi.

 

***

Tu mi dici “terrifica e infelice”

io sono schiuma che brulica sui rovi.

Mi fu dato il conoscere

                  e il ritorno.

Dico il muto abisso

di cui posseggo chiave e profezia.

 


Maria Benedetta Cerro è nata a Pontecorvo e risiede a Castrocielo - Frosinone
Ha pubblicato: Licenza di viaggio (Premio pubblicazione “Edizioni dei Dioscuri” 1984); Ipotesi di vita (Premio pubblicazione “Carducci – Pietrasanta”, Lacaita 1987), nella terna dei finalisti al “Premio Città di Penne”; Nel sigillo della parola (Piovan 1991); Lettera a una pietra (Premio pubblicazione “Libero de Libero”, Confronto 1992); Il segno del gelo (Perosini 1997); Allegorie d’inverno (Manni 2003), nella terna dei finalisti al Premio Frascati “Antonio Seccareccia”); Regalità della luce (Sciascia 2009); La congiura degli opposti (LietoColle 2012), Premio “Città di Arce”; Lo sguardo inverso (LietoColle 2018); La soglia e l'incontro (Edizioni Eva 2018).

Gabriella Colletti, prosa inedita “Il paesaggio e lo sfondo”, nota di Rosa Pierno

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Immaginare come si dia il passaggio dal nulla a qualcosa, come da esso si formino le prime note, le prime forme, larvali, ma poi sempre più tenaci, le quali, attraverso metamorfosi, si sviluppano fino a comporre un tema musicale. Sì, perché è questo il tema della prosa di Gabriella Colletti “Il paesaggio è lo sfondo”: la musica. La scrittrice indaga tale formazione, ma per far questo deve creare visivamente lo stato antecedente, quel nulla abissale che tutto sembra inghiottire. Quel nero nel quale tutto sparisce e che ci minaccia. La musica, però, la sua eternità, non si contrappone solo al nulla, ma anche alla storia umana, tanto precaria quanto infarcita di orrori. In tal senso, la storia, con il suo tempo e la morte, si contrappone anch’essa a tale sfondo infinito. Si viene, però, a formare un interregno tra la storia e lo sfondo, che l’autrice denomina ‘regno intermedio dell’armonia”, regno dell’arte, il quale consente all’umano uno sguardo neutro, privo di paura, come quello animale. Per la Colletti, l’arte è il regno della soluzione delle contraddizioni. Ecco la ragione della felicità che nasce dell’armonia.

Il paesaggio e lo sfondo

(…) nel rumore, percepito distintamente, d’ogni

singola onda che si frangeva, nella sua nitida

dolcezza, c’era qualcosa di sublime.

 

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, volume IV
 

“Giustizia è tutto,” disse “giustizia è la prima cosa,

giustizia è l’ultima. Chi non lo comprende morrà”.
 

Hugo Von Hofmannsthal, La mela d’oro e altri racconti
 

Ci sono fili che vanno e tornano, elementi affini

che devono incontrarsi. Chi separa commette un'ingiustizia.

Chi sceglie una sola parte dimentica che da essa sempre

si ode imprevisto il suono del tutto.

 

Ci sono gruppi di fronte a gruppi, i congiunti sono separati,

i separati congiunti. Tutti appartengono l'uno all'altro,

e ciò che di loro è il meglio si trova tra l'uno e l'altro:

ed è istantaneo ed eterno, e qui è il luogo della musica.

Hugo Von Hofmannsthal, Il Cavaliere della Rosa

 

Già, "il suono del tutto"… come l'eterno fragore delle onde che s'infrangono sugli scogli, l'eterno mormorare del mare, il suono della conchiglia appoggiata all'orecchio. Una voce indistinta in cui si fondono altre voci, da sempre, da quando è nato l'universo, e forse prima, dal momento in cui esso era solo progetto, ipotesi, possibilità nella mente di Dio. Antico suono primordiale, respiro, ritmo, palpito sempre simile a se stesso da quando è nata la Terra. Voce di amanti in un amplesso senza tempo che continua a ripetersi. Gli amanti cambiano; l'atto, il suono, l'armonia rimangono identici. Solo la declinazione, la sfumatura, cambia. Come nella melodia, gli infiniti sviluppi del tema musicale. La dimensione fluida della musica assomiglia forse all’Eterno, indicibile a parole, eppure percepibile come suono, in certi rari istanti di grazia. L'arte della musica proviene dall’Eterno. E l’Eterno è lo sfondo. Che la musica sia, forse, il respiro che lo sfondo emana? Esso è orizzonte imprendibile, vasto, infinito per l'occhio dell'uomo, di un bianco abbagliante. Insostenibile, dolorosa, accecante, quella luce. E’ come se si fissasse il sole. Spaventato, l'uomo chiude gli occhi. Li ritrae dall'orrido baratro di quel nulla, ma esso li inghiotte da dentro. E in luogo della luce abbacinante spalanca il desolato velluto buio della notte. Così smisuratamente grande deve essere lo spazio cosmico interstellare. Silenzioso, gelido, senza tempo né Storia. Non è così per l'animale, il cui sguardo innocente e a-morale guarda nell'Aperto spazio bianco, quello sfondo musicale, e non c'è paura in lui, né gioia. Solo neutro e muto guardare. Guarda e niente si domanda, nessun perché lo arrovella. Guarda, l’animale, e cosa vede? Forse, il compenetrarsi di cose le une nelle altre senza interruzione. Cose che, se separate, potrebbero fare paura, ferire, uccidere. Cose che si compenetrano senza spazi definiti, senza contorni netti. Le disarmonie diventano armonie. Le forme si fanno sempre più fluide e mosse, fino a divenire informi, ectoplasmi, fantasmi di forme, simulacri. Figure in perenne metamorfosi. Possibilità come sviluppo di un tema musicale in molteplici, inesauribili sfumature, come solo la melodia sa fare.

L'arte della musica unisce ciò che alla ragione umana sembra opposto e inconciliabile. Davanti allo sfondo dell'Eterno, proprio lì davanti, in primo piano, scorre la Storia. E’ un corteo di orrori, di violenze e ingiustizie, la Storia. Nessuna mano d'uomo o d'angelo può fermarla. Lei prosegue, avanza da sola, e pare danzare. Esegue la propria danza brutale che è guerra. Una guerra in nome della felicità, cui spesso si è dato l’epiteto di “santa”. E si continua così ancora oggi, con gli inganni dei nomi, mentre quello esatto sarebbe solo uno: egoismo.

Lo sfondo si intuisce fuori di noi, quando non si è immersi nella routine della vita. Quando ci si ferma a riflettere su se stessi, lo spazio, il tempo e l'anima, sul passato e il suo fondamento, sul futuro e la sua meta, sul presente che ciascuno è con la propria identità. È in quegli istanti di confusione e smarrimento che lo sfondo riappare come potenza che impaurisce. Riappare dentro di noi, assumendo la forma fluida di un non-colore che in sé tutti li contiene e li annulla: il nero. Nero velluto dello sfondo, eterno nero di un'interminabile notte senza inizio né fine, senza Storia, senza il familiare susseguirsi del giorno alla notte. Lo sfondo sta dentro di noi, povere creature della Storia, che portiamo dentro l'eterno sfondo senza tempo. Esso ci appare come la morte. Quella fessura che lascia passare l'Eterno, ma in verità, come lui, essa è già tutta dentro di noi. E abbiamo un bel tapparci occhi e orecchi per non vederla, non sentirla. Allontaniamo la morte, correndo via da lei con distrazioni. Poveri illusi. Noi, che non vorremmo sentirla, le apparteniamo, e lei ci appartiene custodendoci. Occultiamo la morte e occultiamo lo sfondo. Poveri illusi.

Tanto più il paesaggio del nostro mondo e della nostra storia è piccolo quanto più ci sentiamo al sicuro, tranquilli nel nostro adorabile, meschino guscio di lumaca. Tra il paesaggio dai contorni netti in primo piano, che è la Storia, e lo sfondo infinito ed eterno che sta dietro, proprio in mezzo, si estende il regno intermedio dell’armonia. Tra il paesaggio in primo piano e lo sfondo c'è l'arte, ogni arte. Dimensione fluida in cui l'artista, come l'animale, esce da sé e guarda con occhio puro e neutro, non umano, dritto nell'Aperto. Egli non ha paura. Rapito e assente da sé, è dentro le cose. Si sente schiacciare dal peso della natura e tuttavia si percepisce leggero. Nuvola informe e cangiante, egli assume ogni parvenza. Possiede e gode di tutte le forme: onda e nuvola insieme, acqua e aria. L’artista entra con l'arte nella dimensione dell'armonia. Qui, i contrasti non sono più stridenti ma fusi insieme misteriosamente. Le contraddizioni si accordano fra loro. I separati ingiustamente dalla Storia, gli assolutamente inconciliabili, si ricongiungono nel giusto accordo. Il risultato di tale prodigio, a chi sa guardare e ascoltare, è solo felicità.


Gabriella Colletti è nata a Milano l’11 marzo 1967 e vive a Trecate (Novara). Nel '98 ha pubblicato il saggio Piccola Guida al Broletto di Novara (Millenia Edizioni, Novara). Nel 2004 ha pubblicato il volume Cento poesie del cuore (Nuove Scritture, Milano). Nel 2014 ha pubblicato il suo primo romanzo La nostalgia dei girasoli (Manni Editori, San Cesario di Lecce), grazie al quale ha ottenuto svariati riconoscimenti, tra cui: Finalista del Premio Internazionale Mario Luzi 2014/2015 – Sezione “Premio Italia”; Premiata, nella Sezione narrativa edita al Premio “Poesia, Prosa e arti figurative” Accademia Internazionale “Il Convivio” Castiglione di Sicilia (CT) 2015; Menzione di merito al Premio Letterario Sirmione Lugana 2015 Sezione narrativa. Menzione d’onore alla 41° Edizione del Premio Letterario Casentino "Sezione Giuseppe Frunzi" – Editi. Prima classificata al Premio Letterario di poesia e narrativa “Città di Arcore” – Anno 2016.

Nel 2016 ha pubblicato la raccolta di poesie L’occhio al papavero (C.A.SA. Edizioni, Saronno-Gallarate).

Silvia Comoglio, poesia inedita "Lucore", nota di Rosa Pierno

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Il lucore dovrebbe essere la condizione di possibilità di un vedere diverso. Che cosa è possibile osservare in tale rarefatta condizione di visibilità? Che cosa si possa intravedere in una flebile luce, quando sia questione tutta affidata alle parole, è impresa da far tremare i polsi: la traduzione di due incertezze o, meglio, il passaggio da un’incertezza a un’altra. Il sogno, l’eco non sono tanto la marca dell’irrealtà, quanto di una dimensione altra, in cui la percezione è fluttuante, non può fissare nulla in maniera definitiva, è mobile come uno stormo. e lo stormo a sua volta “divora l’occhio / col suo mondo”. Nel testo, Comoglio opera un capovolgimento che riguarda anche la struttura sintattica. La visione trasforma radicalmente le cose e le loro relazioni: una piuma la si può vedere come un contrafforte, l’impronta può mostrarsi più integra dell’essere che l’ha generata. Il linguaggio non corre dietro alle parole, ma lo presentifica, fondendosi con uno sguardo che sprofonda.

 

Lucore

preséntami il prodigio,

il lucore ferito al mondo

dell’ultimo cristallo

a zú-folo d’argento

 

*

lucore ―

in meta di fluttuante

eco a primo sogno
 

è l’imbocco, a umana casa,

dove, lo stormo, divora l’occhio

col suo mondo, veloce,

di leggenda : asterso contrappunto
 

in cordata a finta luna

dove, è piuma, schiusa a contrafforte

l’impronta voltata intatta, rá-

 

strellata a fiore


Silvia Comoglio (1969) è laureata in filosofia e ha pubblicato le raccolte di poesia Ervinca (LietoColle Editore, 2005), Canti onirici (L’arcolaio, 2009), Bubo bubo (L’arcolaio, 2010), Silhouette (Anterem Edizioni, 2013), Via Crucis (puntoacapo Editrice, 2014), Il vogatore (Anterem Edizioni, 2015 – Premio Lorenzo Montano – XXIX Edizione - Sezione raccolta inedita), scacciamosche (nugae) (puntoacapo Editrice, 2017).

Nel 2016 ha scritto per The small outside di Gian Paolo Guerini Piccole variazioni, concerto apparso a puntate sulla rivista on-line Tellusfolio e pubblicato nel 2017 su L’almanaccone impertinente (LABOS Editrice, 2017)

Per Il vogatore è stata composta nel 2015 una partitura dal compositore e pianista Francesco Bellomi e per Via Crucis nel 2016 sono stati realizzati quindici disegni dall’artista Gian Paolo Guerini.

Suoi testi sono apparsi nei blog “Blanc de ta nuque” di Stefano Guglielmin e “La dimora del tempo sospeso” di Francesco Marotta; nei siti www.nannicagnone.eu, www.gianpaologuerini.it e www.apuntozeta.name, sulle riviste “Arte Incontro”, “Il Monte Analogo”, “Le voci della luna”, “La Clessidra”, “Italian Poetry Review”, sulla rivista giapponese “δ” e nelle riviste on-line Carte nel vento, Tellusfolio e Fili d’aquilone.

E’ presente nei saggi di Stefano Guglielmin Senza riparo. Poesia e Finitezza (La Vita Felice, 2009) e Blanc de ta nuque, primo e secondo volume (Le Voci della Luna, 2011 e 2016), nell’antologia Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta (puntoacapo Editrice, 2012) e nell’opera di Marco Ercolani Annotando (La Biblioteca di Rebstein, 2016)

Morena Coppola, "Sgorbie e Misericordie di Fratelli Elettrici", Formebrevi, 2017, nota di Flavio Ermini

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Una turbolenta scrittura riesce a esprimere compiutamente ciò che resta non detto.

Evoca l’arrivo di un ospite inatteso che ci permette di fare esperienza del rumore dei passi dell’essere stesso, seguendolo nella sua peregrinazione.

Il luogo è il sacro paesaggio nella patria stessa del linguaggio.

Il passo è di colui che è più prossimo alle origini e, dunque, all’orizzonte del destino umano: il poeta.

La cadenza del passo si ode nella fugacità del tempo, nell’angustia dello spazio, nella limitatezza delle forze.

Ci parla del futuro, delle sue possibilità e dei suoi pericoli.

 

 

Abacuc portava un cappello di rame

 

Abacuc portava un cappello di rame

All'inverno ossidava nel verde

poi, allo sguardo del caldo,

Riprendeva il rossore.

Timidezza furiosa del santo.


 

Thòlos

 

Uno scuro aleggia

fra tempi e e colonne

Buio compensa i vuoti

rastrema il niente verso il nulla

e discolora il Nihil.

Nell'arenaria il Bruno accattone s'incanala

Manca luce nel tempio

e sul monte la meteora spupilla.


 

Parabola del Cranio o del Dodecaedro

 

Testa sul tavolo
scisso corpo lasciato in ormeggio

Non trasuda la Medusa
e pure ne mangia la murena.

In atelier Giacometti
mette zampe alla testa,
la scanna nel bronzo e poi dice

Pater!

Ha cercato dodici facce
dai contorni biaccati
per tendere l'arco dell'angolo acumen: il Sogno di una Testa.

Post acuzie selvatica dentro la testa


Morena Coppola vive a Roma. Si interessa di scritture non convenzionali e di arte contemporanea. Sul crinale verbo-visuale, sperimenta linguaggi innestati nel visivo, accomunandone sguardo e lingua. Un suo testo accompagna l'immagine xilografica dell'artista Andreas Kramer per le Edizioni PulcinoElefante [2008]. Segnalata più volte al Premio Lorenzo Montano, [2013 sezione Una poesia inedita; 2014 sezione Una prosa inedita; 2017 sezione Raccolta inedita; 2018 sezione Raccolta edita]. Alcuni testi sono pubblicati in raccolte antologiche [Empiria 2013, 2014, 2016, 2017 e 2018]. Nel 2016, in occasione della pubblicazione di Avrei fatto la fine di Turing, di Franco Buffoni, uno scritto critico relativo alla raccolta è stato pubblicato sul sito del poeta. Ha curato la post- fazione de Il criterio dell'ortica di Stefano Mura, edito dall'Editore Manni nel 2016. La raccolta poetica Sgorbie e Misericordie di Fratelli Elettrici, finalista al Premio Bologna in Lettere, edizione 2017, segnalata alla XXXI edizione del Premio Lorenzo Montano, è risultata vincitrice del Premio letterario Formebrevi Edizioni, 2017. Finalista al Premio letterario Bologna in lettere edizione 2018. La raccolta Psychopompï è stata selezionata alla IV edizione del Premio Elio Pagliarani, sezione Inediti, edizione 2018.

Anna Maria Dall’Olio, una poesia inedita "Homo videoludens", premessa di Ranieri Teti

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Un ciak dell’autrice-regista fa azionare la macchina da presa, tutta linguistica, come se fosse in presa diretta con un pensiero: un primo piano di sibilanti e di “o” introduce il set, lo spazio generativo verbale in cui agisce l’”Homo videoludens”, dove “la sostanza non è reale”.

La sapiente regia passa a un piano americano quando introduce, in francese, l’elemento ludico del titolo. Anche se a ben guardare il testo è tutto un piano sequenza che continua a tornare su se stesso, in loop, dove a ogni ripresa o ritorno d’immagine emergono nuovi particolari.

E così si coglie nel terzo verso quel “si” insistito “sì simile simulacro” come se fosse un’invocazione o un successo del videoludens, e, in un successivo, ulteriore sguardo, quel “s’annuvola” che “s’avvolge in voluta”: da un totale a un frammento, dal celeste a una spirale di fumo; un rovesciamento di sineddoche. Anna Maria Dall’Olio produce un testo che coniuga inestricabilmente senso e linguaggi.

 

Homo videoludens

 

Sspazio

          steso lungo tempo che gocciola denso

sì simile simulacro                             librasi

libero                                          liberamente

anema e core
 

(torna a terra!)
 

la sostanza non è reale

è visivo/virtuale

pure il sistema è particolare

           reticolare!

 

Fuor da sé                jouer                 non fa per tre

                                                s’allontana

si discorsivizza

si banalizza
 

ruolo è dato

il gioco si gioca il jouer

mondo è mutato
 

loop s’avvita s’avvince loop
 

natoperfetto ora s’annuvola

s’avvolge in voluta di riflesso

pianto di luci fatto liquido

fiore petroso schiuso                                                  al dentro


Anna Maria Dall’Olio è laureata in Lingue e in Lettere, esperantista, si è dedicata alla narrativa, alla poesia e alla scrittura drammaturgica.

Ha curato una rubrica sul mondo esperantista per “Incontrosaperi” e ha collaborato al periodico “Kontakto”, con una recensione su Il dolore di Giuseppe Ungaretti.

Ha partecipato a 4 edizioni della Fiera “Più libri più liberi” di Roma e alla 1a edizione del “Festival internazionale delle Letterature” di Milano. Nel 2018 ha vinto il 3o premio del Concorso internazionale “FEI” per la traduzione in esperanto di “Su una sostanza infetta” di Valerio Magrelli. Nel 2005 ha vinto il 2o premio del Concorso internazionale "Hanojo-via Rendevuo", patrocinato dal governo vietnamita, accanto a molti altri riconoscimenti ottenuti in Italia nel corso della sua carriera.

La sua pubblicazione più recente è Segreti (Robin, 2018), preceduta da: Sì shabby chic (La Vita Felice, 2018), L’acqua opprime (Il Convivio, 2017), Fruttorto sperimentale (La Vita Felice, 2016); Latte & limoni (La Vita Felice, 2014), L’angoscia del pane (LietoColle, 2010), 20 poesie nella rivista “Calamaio” (Book editore, anni 2009 e 2011) e Tabelo (Edistudio, 2006), dramma in lingua esperanto. Recensioni e articoli di critica sono stati raccolti in Le sirene di cartone di Anna Maria Dall’Olio (Editrice Totem, 2017).

Antonella Doria, poesia inedita" In questa estate che…", premessa di Ranieri Teti

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Lungo una mediterranea mappa ideale, lungo meridiani del disincanto, vivono e si affollano similitudini e forse solitudini imperlate dai colori del mare e del cielo.

In questa poesia tutti gli elementi sono compresi: acqua, aria, terra e anche fuoco, rappresentato dal sangue, dai corpi caldi.

Al di qua dell’orizzonte qualcosa rimane sospeso nella temporalità, lungo una rotta percorribile nei due sensi: il viaggio di andata dei “corpi clandestini” incrocia quello di ritorno di un “uccello migratore”, tra acqua e aria, tra paradiso e inferno, mentre tutti probabilmente cercano solo il purgatorio di “tante affioranti terre”.

Nel dolente canto del poeta, nella “pietà dei giorni”, Antonella Doria ci propone una ballata tristemente civile, linguisticamente felice.

 

In questa estate che…

(Lampedusa 2000)

 

Capita a volte

in un agosto come questo

con il cielo azzurro

corpi clandestini in

vortici di verdiblu cristalli

danzano una danza circolare

per strade d’acque poi si

perdono del grido dimentichi

di gabbiani da terre di promesse

d’esilio lontani … lontani

da corpi caldi a la deriva

dove dolore dove speranza

è spazio di paura nella

consistenza dei giorni

 

Capita a molti in questa

estate che non finisce sempre

più spesso accade a chi

portapeso di sogni assordanti

libertà infinite lascia che

lo porti un mare d’orizzonti

o una fatamorgana

sicuro s’allontana … ma

non è mare di deserto non

suono di terre d’arenaria

di pianure odorose rose

o melodia candida di

ciliegi … accade a chi

affiora a la fine dei giorni

 

Capita sempre più spesso

in questa fine d’agosto a chi

incerto dello sfolgorio del mare

sotto un cielo volubile va …

(la luna è testimone )

uccello migratore in cerca

di parole terre utili che

l’acqua muove sulla scia

di sogni … servono idee

a guadagnare il paradiso

tutto tutto l’inferno fra

le tante affioranti terre

sopra i luoghi e le cose

nella pietà dei giorni

 

Capita a volte accade

nell’assoluta evidenza di questa

estate che finisce … una via

improvvisa s’apre sanguigna

a ovest … a chi … dimentico

di quel che tiene nuvole

accese una capriola fece

leggera come da bambino

e … (lo prese al volo al petto

sua madre …) nella casablu con

la sua onda più profonda così

per ogni giorno che nasce nell’alba …

(Una corrente sottomarina

Gli spolpò le ossa in sussurri. )*

 

Domani – 31 Agosto - giorno normale

È previsto - pioverà sul mare

 

***

 

Milano – Giugno / Agosto 2013

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*T.S. Eliot, La Terra Desolata, Einaudi 1998


Antonella Doria, siciliana di Palermo, formatasi per studi a Siracusa, è laureata in Scienze Sociali. Dal 1970 è a Milano dove lavora ed elabora il suo progetto poetico. Oggi vive fra Milano e la Liguria.

Presente in riviste italiane e straniere e in diverse antologie fra cui Poeti per Milano-una città in versi, a cura di Angelo Gaccione (viennepierre ed. 2002) e Poesia a Comizio, a cura di Marcello Carlino e Francesco Muzzioli (ed. Empirìa 2008), è statavincitrice, finalista e segnalata in alcuni premi letterari, fra cui il Lorenzo Montano di Verona.

Ha pubblicato: Altreacque (Book Ed. 1998); medi terraneo (1995 -1999),Primo Premio per l’Inedito Il Porticciolo, Sestri Levante 2004 (Ibiskos Ed. 2005); Parole in Gioco (AA.VV. s.i.p. 2005); Metro Pólis (ExCogita Ed. 2008); Millantanni (edizioni del verri 2015). Il 30/4 e il Primo Maggio 1999 organizza a Milano, presso la Tenda Bianca del Comitato per la Pace, una due-

giorni di Concerto di Poesia contro la Guerra, e cura quindi l’antologia -Poesia contro Guerra - (Ed. Punto Rosso 2000, 2007 ampl.) con nota di Dario Fo.

È curatrice della sezione di Poesia della Mostra Internazionale d’Arte: Per una “Carta” visiva dei diritti civili (cat. viennepierre, 2001) organizzata da “LIBERA, associazioni nomi e numeri contro le mafie”. Condirettrice/redattrice della rivista Il Segnale – percorsi di ricerca letteraria; è stata redattrice di Inoltre (JacaBook ed.), rivista di antropologia, società e cultura.

Nell’ottobre 2005 è a Lisbona con la delegazione di poeti italiani, insieme con Alberto Mori e Andrea Rompianesi, in occasione della Settimana della Cultura Italiana nel Mondo.

Nel 2015 è invitata dalla Dott.ssa Jennifer Scappettone del Dipartimento di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’ Università della Pennsylvania (USA) a partecipare alla PennSound Italiana - Archivio della Poesia Italiana Contemporanea.

Fa parte dell’Associazione Casa della Poesia al Trotter di Milano.

Patrizia Dughero, dalla raccolta inedita "Sensibili all’oblio", nota di Giorgio Bonacini

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Il titolo di una raccolta di poesie dice molto di più della sua evidenza letterale, e Sensibili all’oblio, di Patrizia Dughero, non è solo l’ indicazione di un percorso, ma è esso stesso un cammino di ricettività e conoscenza, di richiamo a un gesto linguistico che unisce delicatezza e graffio, quando “il sussurro si trasforma in urlo”. Una scrittura che scava negli eventi che sembrano scomparire dalla memoria o che si perdono nel silenzio o che vengono oscurati da una dimenticanza. Così la lingua di questa poesia cerca di dare parola a bocche ammutolite; di trovare pensiero nell’umiltà del verbo imbiancato; di riportare al senso l’ultima foglia. E tutto questo senza descrizioni o didascalie del dramma, ma solo attraverso la voce poetica: unica in grado di superare, e forse anche di richiudere, il varco tra oblio e perdono. E’ di grande valore una scrittura che pone al centro delle sue diramazioni il recupero delle “parole delle lacrime”: per evitare che il dire vada perso in quell’amnesia duratura che appanna la mente e i sensi. Perché le figure umane, che hanno vita in questi testi, soffrono la crudeltà di un potere che maltratta e uccide, non solo corpo e mente, ma vuole annientare nell’oblio una memoria esistenziale che, precisa l’autrice, è in se stessa sconfinata. Patrizia Dughero, con grande lucidità di pensiero, voce e sentimento, ci rende partecipi di una perdita del significato: una sottrazione violenta, uno smarrimento strappato, una perdita a favore di un significante, che avrebbe consistenza di senso, se non fosse dilapidato e reso fantasma. Perché (ci dice con parole che non hanno bisogno di commento) “non c’è madre se non c’è figlio:/è il figlio che significa la madre;/.../la madre il cui figlio viene fatto desaparecido./Si getta dal significante, si trasforma/nello spettro di ciò che fu...”.


 

I Passaggio

QUESTO È UN VERO MOVIMENTO

 

I giornata

Si disse di un manipolo di persone tra poeti e artisti,

qualcuno lo può ancora raccontare, se crede; già si può

scrivere della bottega dove s’avverano trasformazioni.
 

Qualcuno ha visto bisturi e cazzuole, pennelli d’ogni misura

ordinati come i barattoli e le tele, accantonate dalla cartavana

ridipinta in bianconero, nella resa che accende la poetica stabilità.
 

Qualcuno ha deciso di non dire niente, godendo la serata come uno

spettacolo, mentre qualcuno imbraccia la propria arma, foss’anche

un cellulare spento, adattato a richiamare la memoria ai posteri
 

che forse saranno, mentre qualcuno vede già quel che è il ricordo

e vorrebbe decifrarlo, e lo fonde con quel muro crollato, all’angolo

della via che non riconosciamo più. Il falso movimento
 

porta pagine vuote, quelle di chi ci vuole bene e di chi

ce ne ha voluto. Non le accartocciamo, sostituite da tavole rosa

di legno buono, non consentiranno di cincischiare con la morte.

 

II giornata

Qualcuno decida di spargere una polvere più che cinerina, che sappia

di fumo più che di nebbia nella notte. Iniziamo dall’altalena, basterà

un po’ di polvere per intervenire. I contorni delle figure di luce, incatenate,
 

chiedono sia soave paesaggio a intervenire, coi grigi che sappiamo,

si staglierà nel sogno, un paesaggio lieve che liberi, posato con la grazia

di chi inforna il pane, dispensata la lievitazione come si conviene.
 

La delicatezza è la polverizzazione che accorre dopo i graffi dalle spatole,

a pulire, sempre pulire il senso, insieme alle grida garrule, che non ci

stupiscono più, ci vuol ben altro, quando il sussurro si trasforma in urlo e
 

risuona nella via. Dove andiamo pittore? Dove stanno andando

le tue figure divergendo dalla luce, non precipitate, ma accolte,

attendono un movimento vero, che pure la nebbia diradi.


Patrizia Dughero, di origine friulana, è nata a Trento e si è laureata in Arti visive all’ateneo di Bologna, dove tuttora risiede. È presente in numerose antologie, di racconti, di poesie e con testi di prosa poetica in cataloghi d’arte. Sette le sillogi poetiche pubblicate: nel 2010 Luci di Ljubljana e Le stanze del sale, nel 2011 Canto di sonno in tre tempi, nel 2013 Reaparecidas, nel 2015 Filare i versi, nel 2016 Canto del sale, nel 2017 L’ultima foglia. Attualmente la sua attività si concentra su articoli e progetti editoriali. Da qualche anno sta svolgendo studi sul linguaggio poetico dello haiku, culminati in articoli, progetti didattici e nella raccolta Filare i versi / Presti verze, tradotta in sloveno da Jolka Milič. È stata capo redattrice della rivista “Le voci della Luna” e collabora con l’associazione per il “Premio Giorgi”. È responsabile editoriale di 24marzo Onlus, associazione attiva sui diritti umani, sul tema dei desaparecidos e la Rete per l’Identità. Nel 2012 ha fondato con Simone Cuva la casa editrice qudulibri.

Maria Grazia Galatà, "Quintessenza", Marco Saya Edizioni, 2018, nota di Flavio Ermini

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L’annuncio di Maria Grazia Galatà coincide con il portare allo scoperto l’essere, ma non più al modo della metafisica, bensì come un cammino che chiama ed esige un dire finito, esiliato nella sua finitezza; anche e soprattutto quando progetta col pensiero il tratto di fondo del mondo abitabile.

Poesia come comprensione della vita, quella di Galatà. Poesia che implica una forma di vita e dà forma alla vita. Una migranza che impone una capillare analisi del mondo contemporaneo con un preciso riferimento al presente e a una sua lettura, diciamo così, socio-politica.

L’annuncio di Maria Grazia Galatà si affida qui al diario di bordo di un approdo dopo il naufragio.

 

***

che il silenzio rimanga

tra la porta della quinta

essenza o un tramite

dell’incandescente

la mira delle speranze

nella ripetizione di un

singolo respiro

 

***

la migranza dei nostri sogni

o l’affaticamento

di un silenzio ambrato

all’ora giunta

quando il ricordo era più forte

di un improbabile ritorno forse

il luogo delle ombre e un grammo

di vana fertile coscienza

la traccia silenziosa

di una città sospesa

 

***

Sospensione

non era che svilimento

del vuoto e il senso tattile

dell’abbandono

nello sradicamento del se

diverso

o tempo inverso

misericordia

ha cecità ataviche

aldilà della muraglia


Maria Grazia Galatà, nata a Palermo, da molti anni vive ed opera a Mestre Venezia; presente in numerosi siti web e cataloghi d’arte internazionali; fotografa da diversi anni sempre nella ricerca; 2002 partecipazione ad “underwood”, ad Ascona insieme ad altri nomi illustri della poesia contemporanea: Mario Luzi, Fernanda Pivano, Edoardo Sanguineti; 2003 ha editato il libro “Congiunzioni”, con fotografie di Costantino Spatafora, presentato da Francesca Brandes al “Bistrot de Venice” in Venezia; lo stesso libro è stato presentato in videoproiezione nel 2004 da Marco Nereo Rotelli all’Accademia di Belle Arti “Santa Giulia” di Brescia: Liliana Ugolioni e il Prof. Brunelli all’antico caffè “Giubbe Rosse” di Firenze: Gio Ferri alla galleria “DARS” di Milano; 2005 all’Istituto Romeno di Cultura di Venezia, propone una raccolta di tredici poesie “La struttura dell’ansia” accompagnata da due strumentisti, Luca Callice e Marco Agostini rispettivamente al Bendhir al Didyeridoo, con l’intento di avvicinare i giovani alla poesia; 2005 ha preso parte, in occasione della 51° Biennale di Venezia, all’evento “La notte dei Poeti” di Marco Nereo Rotelli con Ana Blandiana ed altri poeti di fama internazionale; 2005 partecipa con un’opera in collaborazione con Costantino Spatafora all’evento “Padiglione Italia” 13x17 curata da Philippe Daverio ed edito alla fine del 2007 da Rizzoli; 2006 è stata segnalata, tra le opere edite, al "Premio di Poesia Lorenzo Montano"; 2007 a giugno reading presso la fondazione Querini Stampalia di Venezia presentata da Marco Nereo Rotelli e con l’intervento di Achille Bonito Oliva; 2009 53° Biennale di Venezia, “Notte di Luce” di Marco Nereo Rotelli; 2010 con un’opera fotografico-poetica in “The last book” installazione di Luis. Camnitzer alla biblioteca di Zurigo, Svizzera; 2010 -Edita “L’altro”, poesie e fotografie con prefazione di Gio Ferri e videoproiezione; 2012 edita “Contrasti” scritture e fotografie con prefazione di Gio Ferri; video proiezione in collaborazione con Angelo Secondini; 2012 “Osservazioni Minimali” Mostra fotografica personale; video proiezioni con musica di Angelo Secondini; 2013 “Dice il vero chi parla di ombre” personale fotografica; presso la Galleria d’Arte dell’Istituto Romeno di Venezia. 2015 crea e cura “Congiunzioni Festival di poesia” 2015 “Venezia e luce” in antologia poetica di M.Nereo Rotelli 2016 “Simmetria di un’apparenza” Personale fotografica presso la Galleria d’arte dell’Istituto Romeno di Venezia; 2017 “Congiunzioni Festival Internazionale di poesia” 2° edizione.

Iria Gorran, prosa inedita "Ghoul", nota di Giorgio Bonacini

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Il meccanismo linguistico che l’autrice mostra in questa prosa è straordinario: sale in superficie una scrittura che fa delle visibilità il suo centro d’ampiezza, e lo mette in evidenza senza pudore. Nello stesso tempo però, ciò che sta al fondo e che fa da propulsore, non rimane nascosto nelle profondità sorgive, ma si manifesta in quella che è la sua scrittura. Un amalgama contratto, nervoso, altamente significante nella percettività dell’esperienza di un viaggio (nelle terre dell’est europeo e turche) e di un incontro (il Ghoul: il mostruoso). Ma questo, che potremmo considerare l’aneddoto (molto interiormente e validamente dislocato) è molto di più di una scena descritta: è un dire visionario che richiama il testo alla sua funzione specifica e originale: spingere la dimensione del senso là dove il sentimento dell’esserci prova un benefico attrito concettuale ed emotivo. Infatti l’apparente slegatura (e slogatura) delle frasi ne è un esempio che avvolge tutta la tela sintagmatica delle immagini e del racconto. Dunque il “mostro” (il Ghoul del titolo) che è, nelle parole dell’autrice, “meccanismo fuori controllo, schizzato via”, è sostanzialmente la narrazione stessa, beneficata da un linguaggio che è “masnada infernale” “che si insinua nelle fibre”. Dunque un caos, per sua natura inordinato, di folgorazioni e condensazioni, che diventa però matrice vitale di apparizioni umane e bestiali.

 

Ghoul

Da Vienna ritorno più a est, appena prima della città, grandi occhi cerulei, li ho di fronte, aperti al cielo, fissi nello shock, l’uomo di Bratislava, quello steso a terra, buttato giù, come un birillo da una Lada, il suo cane pezzato, piccolo di taglia, fuggire terrorizzato, trascinarsi dietro il guinzaglio legato al collare. Sullo sfondo le baracche di legno degli operai, non ci sono più, la città è nuova. Riordinata, pavimentata, sfiora l’efficiente modello occidentale. Dal costone, a picco sul Danubio Dowina, dall’alto della sua postazione, ricorda ogni cosa, dai Celti a quel giorno, forse anche di me.

Dalla finestra la sera è subito blu, ricco freddo vellutato lunare, distante più in là, il confine ucraino in linea d’area, aleggia su di noi, come una nebbia mistica, nella cappa di cenere la Foresta Rossa l’immagino, navigare immersa ancora, nel pulviscolo radioattivo dell’ottantasei.

Da Budapest a Oradea, lungo il percorso gente a piedi, un carrozzone coperto, tirato dai cavalli. Zingari romanizzati, tarchiati, capelli stoppa, occhi da fiere, come voragini le bocche. Rallento, ci fermiamo. Vorremmo fare una foto, loro si mostrano aggressivi, muovono verso di noi, correndo.

Hanno degli orsi, al seguito, al ferro, l’anello al naso pesa, la catena breve li costringe a camminare in piedi, accanto agli aguzzini. Sono due, ne ricordo solo uno, quello a sinistra, ho fissato il suo occhio liquido che nel mio, guardava il sole velato dal pallore freddo del giorno, appena iniziato. Quando non serviranno più, li mangeranno. Inferno. E io zitta. Un buio attraversato, un mare sopra l’apnea un gioco duro. Non ho agito, non ho fatto nulla, riappare l’orso, mentre quasi sto sorridendo mi spegne sulla faccia la sua sofferenza.

Per riparare, muoio, rinasco, mostro anch’io. Non è nulla di comune un mostro, se sa di esserlo, la solitudine lo tempera, si lascia una scia, smeriglio, la mina aguzza è pronta a incidere la faccia ridisegnare i tratti, ridiventare. Intanto assente, resta distante, lasciarsi avvicinare, un lusso a cui non cedere, può precedere il tocco. Chi manca, non può essere toccato, solo avvertito, appena.

L’inferno come un ago si insinua nelle fibre, dove fa squarci, ricuce. E, se è la luce ad attrarlo, lavora meglio al buio, mi è stato accanto, poggiato sulla spalla sinistra. Installa visioni crude, si apre un varco, fa vuoto all’interno, deforma il cuore, consegna all’ossessione, rende irriconoscibile ciò che è bello, innocente, integro, ne fa scoria, e l’abbandona poi, sotto gli occhi di tutti, mostrandone la buccia impietosamente aperta, a sostenere, che era soltanto, cartapesta pitturata.

La ferrovia tagliava il bosco, balenava un’ombra, dicevano. Ingoia, quell’ombra a volte rigurgita. Stava lì accosciata, a divorarsi il conformismo, scienza dal travestimento rozzo teso all’apollineo per assicurare fedeltà, a una perfezione solo riflessa, una finzione. Un uomo funzione del regime robotico, nel subbuglio, tra un treno e l’altro, l’uomo del momento, curvo nel caos, mangiava.

La collettivizzazione delle campagne ucraine, era già stata, morte per fame inflitta, masse indefinite all’inferno. Legione il potere di contare, identificare numeri, e di numeri si nutre, il Ghoul.

Solo un meccanismo singolo, fuori controllo, schizzato via, come chiamato in causa messaggero sterminatore, preludio di nuova catastrofe, l’annientamento imminente a est. L’ingranaggio statale, non cederà per questo, ma poi andrà dritto verso il casino, in ogni bordello a ovest molte ragazze ingannate, dal mito del progresso.

Tragedia, nessuna colpa, il demone protagonista, sotto l’impalcatura della fronte, vive il suo film muto. In gabbia, libero nella camicia a scacchi, senza la moretta sembra servire, solo se stesso.

Al processo la verità, è che, non c’è uomo che riesca a sostenerlo quello sguardo, qualcosa incombe nel gregge recintato dai burocrati del diritto. L’ombra antica del mondo forse, chiede il suo conto al sostituto di Dio, che a leggi naturali, ha contrapposto il piano tracotante, sagomare materiale umano senza respiro, divino.

Deve aver visto, la masnada infernale passargli accanto, gli arde negli occhi, è rotto, è in luce, ampia la bocca come uno sbadiglio osceno il sorriso assoluto ebete girovaga per la sala caos dionisiaco quasi, sfiora il sublime quella primordiale terrificante faccia di stella accesa brucia, l’area oscura del tribunale ipocrita, che giudica un’altra identità soggetto in metamorfosi, ormai estraneo all’unione, lupo, figlio perfetto della Terra. Non resta che servire l’ultimo atto, stabilito il confine del lecito, il colpo è alla nuca. L’orchestra grida forte che è finita la strage. Dicono, andrà a occidente, Andrej, studiato dai fisiologi. Gli psichiatri smonteranno il suo cupo universo, i chimici ne estrarranno un farmaco, forse anche l’antidoto.

Da Brela a Varna, in auto sulla chiatta, il tratto d’acqua è breve, siamo diretti a Istanbul

Ai ristoranti servono gli uomini prima delle donne. Il lakké, solerte, spazza briciole al cambio dei piatti che il cameriere serve, e se chiamato per una comanda, non risponde, non è il suo ruolo.

Bambini ai semafori, puliscono i parabrezza alle auto, lire, fiorini, sorridono accettano ogni moneta, non solo marchi e dollari.

Senza identità dentro una divisa, qualcuno in una traversa, si fa capire, un mix di anglo francese bisbigliato, condito da abili ammiccamenti, procura ogni cosa dice, documenti, armi, donne al bisogno, droghe per tutti i gusti.

Al Gran Bazar, ricco di ori, spezie, veri falsi d’autore, i mercanti, sparano alto sul prezzo, mentre trattiamo, alle spalle gorgogliante dal pendio, una cascata d’acqua scorre e quasi ci investe. Riparati all’interno di una bottega, fra sacchi di curcuma, l’onda era forse ciò che aspettavo. Superato il primo stupore, ridono i turisti e le signore che hanno già fatto spese, dopo questa emozione subito ne vorrebbero un altra, e da bere, navigare il Bosforo, visitare il Topkapi. Solo dettagli sostano intorno.

Del viaggio, dei luoghi del tempo che trattengo, niente trapela da me, neanche una goccia fuori.


Iria Gorran (1957) ha origini croate e formazione classica. Fa esperienze teatrali in Sicilia; segue studi di Architettura a Roma. A Firenze frequenta l’Università Inter- nazionale d’Arte e l’Atelier di Paola Bracco. A Genova lavora al restauro degli affreschi della chiesa della San tissima Annunziata, con interventi di ancoraggio e con- solidamento. A Milano frequenta la scuola di Pinin Bram- billa Barcilon e si occupa del Cenacolo di Leonardo. A Montalto Pavese lavora al restauro di tele del Seicento nella pieve di Sant’Antonino Martire. Testi di riferimento: Il corvo e i racconti del mistero di Poe, la Commedia di Dante. Ancoraggi filosofici: la scuola ionica di Mileto e Parmenide. Risiede per lunghi periodi a Vienna e a Londra. Attualmente vive a Torre d’Isola (PV). Vince “Opera Prima”2018 Anterem edizioni con la raccolta “Corpo di Guerra”.

Mariangela Guatteri, "Tecniche di liberazione", Benway Senries, 2017, nota di Rosa Pierno

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Se tutto non è analogo a tutto, ciò che appare particolare lo è solo perché estratto dall’insieme, allora bisogna minimizzare le differenze per ricondurre anche il particolare nell’albero di un fenomeno originale, che possa situarsi nel luogo in cui tutto era, appunto, indistinto. Cogliere l’epifania dell’evento e collezionarne la serie. Il testo asciuttissimo si svolge in parallelo al dispiegamento di immagini fotografiche che non si devono interpretare come un commento, ma, appunto, come un discorso visivo complementare. All’interno di questa dinamica vige sempre equilibrio perché vi è equivalenza: “Le modalità di rinuncia: “l’abolizione delle modalità umane”, oltre che trasformazione: “un punto: ferma e continua”. È abolito così, almeno nel passaggio dall’individuale all’universale, anche ciò che arresta l’azione: la morte. La memoria non deve ostacolare e il raffinatissimo dialogo tra bianco e nero rende la calma una durata senza scansione cronologica.

Tecniche di liberazione 1

Tecniche di liberazione 2

Tecniche di liberazione 3

Tecniche di liberazione 4

Gian Paolo Guerini, dalla raccolta inedita "Chiunque", nota di Laura Caccia

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Il balbettio del senso

Tra visivo e sonoro, senso e non senso, apparenza ed equivoco, la costruzione poetica Chiunque di Gian Paolo Guerini appare pensata appositamente per depistare. O, meglio, per lasciare che qualcosa riesca a manifestarsi nel semplice accadere del testo.

“Testimoni di un originale disperso, forse mai stato”, ci indica l’autore, sono Chiunque, che “non è detto che sia”, e Nessuno, che “non è detto che non sia”, che si rispecchiano, lungo i sedici duplici scritti che compongono la raccolta, di volta in volta in una stessa trama poetica, diversamente interrotta da cesure nei due testi bifronte e resa irriconoscibile nelle sue strutture grammaticali, sintattiche e semantiche.

Una rifrazione simmetrica e asimmetrica nello stesso tempo, tra le tante contraddizioni disseminate: poesie apparentemente illeggibili nel loro balbettio sonoro, una lingua franta e spezzettata non parlata da nessuno, l’originale che è e, insieme, non è disperso.

L’originale sarebbe infatti facilmente ricomponibile: basterebbero atti di paziente razionalità per rendere leggibili e comprensibili i testi, ma, seguendo le indicazioni dell’autore che richiede “un lettore che rinunci, fin dall’inizio, alla propria capacità di intendere. Accettante l’incompiutezza e abbandonato alla résonance de la langue e alla magia del terzo suono di Tartini”, è proprio nel lasciarci cullare dalla duplicità del balbettio sonoro che potremmo essere in grado di percepirne uno ulteriore. Come nel captare gli armonici sonori, dove nell’ascolto di due suoni ad un determinato intervallo, si produce la percezione di un terzo suono, che in realtà non esiste, così l’autore ci chiede di muoverci nelle duplici sonorità, contrapposte e sovrapponibili, al fine di cogliere quanto di assente e di oltre si celi.

Salvo poi farci scoprire, nel glossario al termine della raccolta, che l’originale in realtà non è disperso e che una nuova contraddizione ci attende al varco: poiché la trama poetica è colma non solo di risonanze, ma di un senso specifico che ci conduce ai testi sanscriti, ai loro principi e ai termini che li caratterizzano. Sono termini che fanno riferimento al principio e al trascendente, alle divinità vediche e alle realtà sensibili, al respiro e alla forza vitale. Così come alla sillaba sacra, alla parola creatrice.

Allora pare che Gian Paolo Guerini nella sua raccolta, insieme strutturata e colma di contraddizioni, lacerata e assetata di senso, non intenda tanto mettere in atto una ricerca sull’incompiutezza della lingua e sul valore dell’abbandono alla risonanza sonora, quanto piuttosto, diremmo, una narrazione inconscia dell’assoluto per suono e cesure. Protesa a far emergere quanto di unitario nasconda la frammentazione, quanto di profondo si celi nell’indicibile.

Del resto, cosa sarebbe la poesia se non accogliesse la contraddizione che la anima? E cosa se non contenesse in sé l’indicibile, l’inconscio, l'assente, riuscendo a parlare per frammenti, a fronte dei nostri vani tentativi di ricostruzione, e tentando di condurci, se pur umanamente votati allo scacco, verso il principio?

 

Nota dell’Autore: CHIUNQUE (voce a sinistra) e NESSUNO (voce a destra) sono i due testimoni di un originale disperso, forse mai stato. Si atteggiano a sordidi e adiafori personaggi di una commedia che tradisce le mute parole intese dall’occhio, per ridarcele in un balbettio implacabilmente e irrimediabilmente coniato e revocato. Non si può rimanere fedeli all’originale (in quanto disperso) né accontentarsi dell’ultima stesura (in quanto difficilmente decifrabile). Incurante delle attese della filologia, la commedia inarca una desinenza equivoca a sostegno di una cattedrale ormai in rovina: chiede un lettore che rinunci, fin dall’inizio, alla propria capacità di intendere. Accettante l’incompiutezza e abbandonato alla résonance de la langue e alla magia del terzo suono di Tartini.

 

1 CHIUNQUE

ciso no trat

tidina tura lezza

chen onposson o

esse reequi voca ti

si spe gneu nastel

lasi scuri sceuns ole

maun pas soè unpas so

chesi aav antiche

siaindi etro

no nhalas tessa

im portan zad

isa pere do

veanda re

mipo trai

trova requi

sene vica osene

vicaf orte

an cheinven tar

sidire mare

con troven tonel

labo naccia

 

1 NESSUNO

cis onot rattidi

natura lezza

cheno npos sono

esse re e

qui voca tisi

speg neu nastel

la si scuri sce un sol

e ma unp as soè unp

as soches ia avan

ti ches ia

indi e trono

nha las te ssai

mporta nzadi sa

pere do veanda

re mi potr ai

trov are qui se ne

vicao se ne vicafo

rte anche inven

tar si di re ma

recon troven tonel

la bonac cia
 


Gian Paolo Guerini è nato toro verso la metà del XX secolo in una piccola città equidistante da Milano, Bergamo, Brescia, Cremona, Pavia. Dopo studi disordinatissimi, non ha voluto laurearsi in teologia con una tesi su Þe Clowde of Vnknowyng. Si batte da sempre, estenuamene, per liberare l’arte dalla cultura. Non ha mai ufficialmente pubblicato, tranne sporadici quaderni autoprodotti destinati ad amici, per la maggior parte in 10 copie (ma alcuni, in un impeto di presunzione, fino a 30 copie). Qui si trova tutto: www.gianpaologuerini.it (o quasi).

Stefano Iori, poesia inedita "Ultimo stato d’animo di Didone", premessa di Ranieri Teti

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Stefano Iori dedica un omaggio a Giuseppe Ungaretti, prendendo spunto da uno dei suoi testi più rappresentativi, tratto da La terra promessa.

Sembra una mimesi stilistica, un omaggio che richiama in maniera naturale il pre-testo.

I “Cori descrittivi di stati d’animo di Didone” sono in tutto 19, e Iori, con il suo gesto fedelissimo ci consegna il ventesimo, l’ultimo: l’”Ultimo stato d’animo di Didone”, che comprende i precedenti, talora quasi citandoli, pensato come un riassunto, l’appendice a un capolavoro.

Il distico finale di Ungaretti “Deposto hai la superbia negli orrori, / Nei desolati errori” viene ripreso da Iori in “Lascia la terra dei desolati errori / Cerca novizie gemme di stupore”.

L’omaggio è ardito e risolto dal poeta contemporaneo con un verso finale di notevole intensità: tutto rinviene e si sospende, dove le cose “aspettano, là dove non ti trovi”.

Sottesa al testo ungarettiano c’è la nitida presenza di Virgilio, conterraneo e sicuramente amato da Iori (tanto che gli ha dedicato un festival): possiamo pensare a un doppio omaggio.


 

Ultimo stato d'animo di Didone

Omaggio a Giuseppe Ungaretti

 

Nella tenebra, attonita e muta

traversi campi vuoti d'ogni grano

Al tuo fianco più nessuno aspetti
 

Tremore sottile in vele d'indugio

t'accoglie e avvolge, antica notte

dove vagheggi con occhi opachi

senza più nebbia a soffiar sogni
 

Incerta, furtiva, in dormiveglia

trarresti dal buio un'ala enorme

a ricoprirti di quiete sperduta
 

È città desolata la tua memoria

macerie perdute, fetori d'ansia

pronti a svanire nell'ultima viltà
 

Lascia la terra dei desolati errori

Cerca novizie gemme di stupore

Chiamano il nome tuo, le senti?

Aspettano, là dove non ti trovi
 


Stefano Iori è nato a Mantova nel 1951 e ha studiato Giurisprudenza all'Università di Parma. Dal 1979 al 1985 ha svolto un'intensa attività teatrale e televisiva, in Italia e all'estero, come attore e regista. Debuttò come saggista nel 1992, firmando il volume Scritture del teatro (edizioni Provincia di Mantova). Iscritto all'Albo dei Giornalisti Professionisti, è stato redattore del quotidiano La Voce di Mantova dal 1992 al 1999. Si è rivelato al pubblico e alla critica con la filmografia ragionata I Grandi del cinema - Tinto Brass (Gremese Editore, Roma 2000). Ha collaborato con vari editori in qualità di curatore, fra questi anche Editoriale Giorgio Mondadori. Ha firmato quattro libri di poesia: Gocce scalze (Albatros Il Filo, Roma 2011), Sottopelle (Kolibris, Ferrara 2013, con prefazione di Gio Ferri) e L'anima aggiunta (Edizioni SEAM, Roma 2014, con prefazione di Beppe Costa e traduzione in inglese a fronte – ristampa per i tipi Pellicano, Roma 2017), Lascia la tua terra – Sinfonia del congedo (Fara Editore, Rimini 2017), con brevi note di lettura di Flavio Ermini, Giò Ferri, Rosa Pierno, Ida Travi). Nel 2015 ha pubblicato il romanzo La giovinezza di Shlomo (Gilgamesh Edizioni, Mantova). È direttore responsabile della rivista di poesia Versante Ripido e dei Quaderni del Premio Letterario Giuseppe Acerbi. È direttore artistico del Festival Internazionale di Poesia Virgilio e del Sirmio International Poetry Festival, nonché coordinatore del Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio. È studioso di cultura ebraica.

Raffaele Marone, dalla raccolta inedita "aprile (‘a morte mmò mò e po’ torna a nascere)", nota di Laura Caccia

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Della fine e dell’inizio

Appare in tutta la sua tensione, nella ricerca di una lingua autentica e il più possibile vicina alle origini, la raccolta aprile di Raffaele Marone che, di stesura in stesura, approda alla versione presentata nel dialetto della piana vesuviana.

Se la prima stesura, in lingua italiana, puntava, a quanto ci dice in nota l’autore, sull’emozione e sulla seduzione attraverso il lirismo e la riproduzione del noto e la seconda, sempre in lingua italiana, sull’apertura e sulla mobilità, attraverso una forma impura e incompiuta, la terza, divenuta “traduzione (traslazione?)” in dialetto, trova espressione nella lingua lavica dell’infanzia.

Quasi, potremmo, dire un passaggio dall’eruzione esplosiva vulcanica, insidiosa e attrattiva, all’eruzione effusiva, con le sue colate mobili e impure, e infine alla sedimentazione magmatica non ancora sopita, dura e rovente. Perciò “scrivere oggi il dialetto”, dichiara in nota l’autore, “spezza le unghie, fa sanguinare le dita”.

C’è come un ritorno all’inizio, anche se perso, anche se introvato, nel ribadire in continuazione la fine e l’origine nel loro contraddittorio mostrarsi.

Il completamento del titolo tra parentesi (‘a morte mmò mò e po’ torna a nascere), una morte in diretta e poi una rinascita, ci indica in sintesi la poetica della raccolta: un continuo morire e rinascere, una metamorfosi ininterrotta del testo come del pensiero che lo anima.

E cosa muore? Cosa rinasce?

La scrittura che, nel descrivere morte e rinascita, si fa anch’essa morte e rinascita nelle sue varie stesure, trovando ogni volta motivi di sofferenza e stupore. Il senso che da logiche fisse e chiuse passa a sviluppi mobili e moltiplicanti, nei “pensieri che diventano quattro / quattrocento un pensiero diventa / due una forma e un’altra e poi un’altra”. Il corpo che dalla sensazione di “ancora paura e paura / e i salti e il pugno chiuso contro / del morire ora solo” si apre alla percezione della linfa vitale. Il passato che, con il suo finire statico, spalanca il perennemente nascere del presente: “il passato è morto solo per questo / la morte ferma / di sé / risorgerà dalle ceneri”.

Tra figure emblematiche, quali “la signora paura” e la “zia conoscenza”, tra il senso di smarrimento “quando / tutto torna al vuoto di nulla” e la fiducia in una possibile rinascita, infine in una relativa consonanza, poiché se ne ravvisa non tanto la crudeltà quanto la speranza, con l’aprile eliotiano che genera lillà da terra morta, nel suo aprile Raffaele Marone ci porta, attraverso la lingua lavica, magmatica e fertile, che gli appartiene, a percepire il vitale del morire, propriamente a “sentire le singole gocce d’oceani come sanno / e sa il fossile che porta la vita segreta della polvere in sé”.

 

I

perduto era inizio il tepore

puro infinito

e vissuto come unico

perenne assoluto.

una

conoscenza di una forma solo

e sola
 

I

perz’ s’era ‘o calore ‘e l’accummiencio

puro e senza fine

e campato comm’a un’ sulo

sempe llà assuluto.

una

ne sape, na forma sulamente

e sola
 

IV

del padre nelle sue biforcazioni

seguire la giustezza della strada dettata, labirinto

dei muri dove la testa

moltiplicata dai giorni fino a fare

perde sette frammenti duri infissi. poi

batte forte e il cuore per questo

nella mente che s’incrina per questo
 

IV

d’o pate dint’e vich’

appriess’a via giust c’a dittat’, ‘o labirint’

d’e mur’ addò ‘a capa se fa

mill’ cape, juorn’ pe’ juorn’, fin’a cché

aropp’ perde pa’ via sett’ scarde toste ‘nfizzate. po’

batt’ forte e ‘o core pe’ chest’

dint’a capa ca se senga pe’ chest’
 

e rinasce

un grand’uomo, perché la polvere

sa “chiedi alla polvere” disse

senti le gocce di linfa nella foglia come sanno

i suoi grani sanno sentire come sanno

sentire le rocce di vetta inviolata e i grani

di un sauro morto sentire le singole gocce d’oceani come sanno

e sa il fossile che porta la vita segreta della polvere in sé
 

e torna a nascere

“addimann’ a povere” ricette

nu grand’omm, pecché ‘a povere o’ sape

ca ‘e gran’ suje sapeno sentì comm’ sapeno

sentì ‘e gocce d’a linfa dint’a foglia comm’ sapeno

sentì una a una ‘e gocce ‘e l’oceano comm’ sapeno

sentì ‘e prete ‘mpizz’a muntagna sulitaria e ‘e gran’ ‘e nu sauro

fossile ca se porta aind’ ‘a vita segreta d’a povere


 

Nota dell’Autore

La raccolta è la terza scrittura di un testo, ultimo (per ora) passaggio di una metamorfosi in atto.

La prima scrittura lasciava emergere delle forme di lirismo che offuscavano la natura dell’espressione esatta. Aleggiava ancora l’atto di sedurre attraverso l’emozione, cercata ancora come riproduzione del noto. L’atto di conoscere deve abbandonare tutte le scorciatoie della seduzione (o bisognerebbe almeno provarci!).

La seconda scrittura, per spezzare le funi della seduzione, non è altro che il frutto di un riposizionamento dei versi all’interno dello spazio di ogni singola poesia. Così il senso si è liberato della logica del passato per fare la logica del presente, che è in atto, è mobile, è forma nuova. Impura e leggermente insensata, laddove si apre. Forma comunque incompiuta nel dire quel che è da dire ora.

La terza scrittura, qui presentata, è traduzione (traslazione?) in dialetto.

Tornare al dialetto è uno di quegli strani viaggi di ritorno al futuro, a ritroso verso il domani.

Tornare all’infanzia, a quella lingua dei suoni negati (dovevamo parlare italiano per diventare moderni?).

Quel desiderio di emettere suoni così è rimasto. E poi arriva la voglia, anzi la necessità spinta dall’urgenza, di scriverla quella lingua, per dire il tempo in atto, il presente (che è futuro allo stato perennemente nascente) con possibile esattezza, in forma che si senta compiuta proprio nel presentarsi con l’ambiguità del farsi o disfarsi.

La scrittura permette di far riemergere quei suoni antichi rimbombanti che vivono in un mondo cavernoso di acque esistenziali, carsico. Quei suoni, uscendo all’aria aperta si mescolano; oggi sono impastati con i suoni della strada, anche se questi, il tempo li ha in molta parte impoveriti e arricchiti, comunque cambiati (è la vita di una lingua viva).

La traduzione (traslazione?) in dialetto napoletano contemporaneo della piana vesuviana è materia grezza, ruvida; sarebbe bello se ancora risuonasse di echi di osco, perché li cerca.

Ma scrivere oggi il dialetto spezza le unghie, fa sanguinare le dita, è faticoso e a volte fa anche leggermente male: scrivere ogni parola è come staccare, a mani nude, un pezzo di roccia da una terra dura. Chissà perché. Forse la vita naturale di quelle parole in dialetto è nel mondo del suono e dei rumori.

O perché quella roccia è dura e scotta: forse è materia magmatica mai raffreddatasi, o è calda del calore di una stella che, lo sappiamo, non c’è più eppure sembra bruciare ora.


Raffaele Marone (Napoli 1960) è architetto e ricercatore universitario.

Sue poesie sono state pubblicate su “Le Voci della Luna” e, in rete, su “Blanc de ta nuque” e “Carte nel vento”.

Ha pubblicato libri, progetti e saggi di architettura.

Scrive il blog www.ilfattoquotidiano.it/blog/rmarone/

Gabriella Montanari, dalla raccolta inedita "Anatomie comperate", nota di Laura Caccia

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Nel corpo del sentire

È impregnata di corporeità, nei suoi aspetti fisici correlati alla percezione di sé e del proprio stare al mondo, la raccolta Anatomie comperate di Gabriella Montanari. Lo evidenziano, già a prima vista, i titoli delle quattro parti di cui è composta, nell’intreccio degli elementi corporali e di quanto essi richiamino sul piano esistenziale, tra ricordi e messe a fuoco dei grovigli del vissuto.

La memoria del corpo pare non dare scampo. E quando riguarda l’esperienza corporea ed esperienziale diventa motivo di sofferenza e di disincanto, in cui la parola deve fare i conti con le abrasioni del vivere e del morire, imbrattandosi con quanto di torbido e di venefico venga a contatto. Parola di corpo e di sangue, di strappo e ferita, che apparentemente sembra giocare sui tasti del sarcasmo e dell’ironia, ma che in realtà riesce a dar luogo ad una spietata messa a nudo: “Un boato e un silenzio / mi fecero di carne lirica. / Salata in superficie / acre nei risvolti del sentire”.

“Di carne lirica”: potente ossimoro di quanto di più materico e lacerabile si possa esprimere e insieme di più visionario e tendente all’unità si possa lasciar risuonare.

E se l’elemento carnale, il vissuto corporeo ed esperienziale, non lascia adito a speranze future, “Per quella maledizione / che ci riempie la bocca di ma sì, sì, dopo. / Dopo, però, è solo la lisca”, ciò che la parte lirica pare essere in grado di difendere è la fiducia nell’oltre-realtà della creazione poetica: “Sento che le tue iridi mi sfogliano, / cercano radici, non sanno cosa pensare. / Scusami, ma io ho occhi solo per un roseto inventato”.

E se, ancora, le parti anatomiche indicano sofferenza e sforzo, propriamente una conquista, dovendo essere acquisite a fatica, come ci indica l’autrice, “Mia prima e ultima dimora, / corpo che mi guardi, / covo di anatomie comperate coi risparmi”, ciò che la parola esprime è la gratuità del suo dono:“Il divino è nelle tue meccaniche, / sacro è il rigore con cui profani l’anima. / In cambio di tremiti e disfunzioni / ti rendo questi versi perché sono tue visioni”.

Una parola sempre impregnata del corpo che la esprime, colma di immagini e di visioni e, insieme, di tagli e dissezioni, come fosse un’indagine anatomica del vivere, a partire dalla vivisezione stessa del dire, da quel “torbido dei nondetti”, quando “madrelingua era l’incomprensione”, fino alla limpida e netta dichiarazione: “odio uccidere le parole, è immorale”. Una parola soprattutto impregnata del sangue che la anima, come Gabriella Montanari evidenzia, con la sua parte carnale, chiedendosi: “Non siamo forse gengive / che blaterano storie / di cui si è perso il sangue?”. E come sottolinea chiaramente, con la sua parte lirica, quando riesce, in una prospettiva positiva sul futuro, a fare sbocciare ”il sangue canterino”.

 

Dalla sezione Ippocampo sempreverde e ciuffi di memoria
 

NEURONI E SANTO PATRONO 

I nervi delle strade di Romagna

s’infiammano per un nonnulla,

le indoli carburano a spergiuri.
 

             Dio non c’è e non torna subito.
 

Quando i campi si strusciano al vespro

gli uomini tracannano sangue di giove

e le donne s’apparecchiano:

sughi e orifizi per bocche miscredenti.
 

Nella mia terra strozziamo i preti

con budelli di acqua e farina,

sacrifichiamo rane ai festival democratici

mettiamo lucciole nei boccali

per fare luce ai sogni.

Siamo teste calde di sole

spaccato tra le onde e i castelli.
 

           Di cosa odora la memoria?

           Quanto misura una meta?
 

Alla guida dell’esistenza

assomigliamo a bambini interrotti,

la patente rosa peonia

le tasche piene di tappini

e gettoni per le giostre.

 


TRONCHI E CORTECCE

Lo zio addestrava cagne da tartufo

la zia sbollentava cuori di pollo

la cugina era il mio doppio in biondo.


La loro dimora sopravvisse alla nostra diaspora.


Succhiavo ossa di sambuco

in cima al cachi pericolante,

ero un seme in fuga dalla potestà del frutto.


Istruivo bambole compìte

imparavo la non-famiglia.

 

M’innamorai di un fiore di nome Filadelfo:

deflorò la mia infanzia

in cambio di due stami.

 

GERIATRICAMENTE VOSTRA

I nonni coi nipoti al guinzaglio

passeggiano lungo i margini

di storie sfigurate da semolino e trame senili.

Curvi, ormai appallottolati

nel cestino delle grandi imprese.

La loro canizie è morbida, di un azzurro pietoso,

sono pulcini che hanno smarrito il domani.
 

L’ippocampo arranca, poi sciopera.

Chi sei tu? Ti conosco?

La demenza conosce i nomi latini dei frutti dimenticati,

si scorda delle voci e dei visi abitati.
 

I nonni ignoti

sono sfere di naftalina conficcate nella distanza.

Conservo vecchie foto

del loro non essere stati.


Gabriella Montanari, italo-francese, laureata in Lettere Moderne all’Università di Bologna e diplomata in Pittura presso la Scuola d’Arti Ornamentali San Giacomo di Roma, è poeta, scrittrice, critica d’arte e fotografa. Ha insegnato Lingua e Letteratura Italiana presso l’Istituto Italiano di Cultura di Nuova Delhi (India), Tecniche pittoriche e Storia dell’arte presso il Lycée Français de New Delhi. Ha condotto laboratori di poesia con gli allievi del Lycée Français de Lomé (Togo).

Traduttrice di poesia e narrativa dal francese e dall’inglese, collabora con riviste letterarie, d’informazione, di viaggio e d’arte italiane e internazionali.

È stata co-fondatrice e direttrice editoriale della casa editrice WhiteFly Press (Lugo). Attualmente è docente di lingua francese e Presidente dell’Associazione Culturale WhiteFly, con sede a Torino. È curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali/festival letterari e consulente editoriale.

Esordisce in poesia con Oltraggio all’ipocrisia per le edizioni Lepisma di Roma (2012, Prefazione di Dante Maffia), a cui hanno fatto seguito Arsenico e nuovi versetti (La Vita Felice, Milano, 2013, Prefazione di Lino Angiuli), Abbecedario di una ex buona a nulla (Rupe Mutevole Edizioni, Parma, 2015, Prefazione di Enrico Nascimbeni ) e Si chiude da sé (Gilgamesh Edizioni, Mantova, 2016, Prefazione di Davide Rondoni). Pubblica per Supernova di Venezia (2016, Prefazione di Carla Menaldo) il suo primo romanzo, Donne di cose e per Danilo Montanari Editore (Ravenna), il libro d’arte Reattivo di Valle (poesie e fotografie) con acquarelli di Sergio Monari (2017).

Tra i riconoscimenti: Premio Internazionale R. Farina 2012: 2a classificata con Oltraggio all’ipocrisia; Premio Torresano 2016 : 1a classificata sez. Raccolta poesia inedita con Si chiude da sé; Premio Torresano 2016: 3a classificata sez. Narrativa edita con Donne di cose; Premio Montano 2017: Segnalazione sez Poesia edita con Si chiude da sé; Premio Guido Gozzano 2017: 3a classificata sez poesia inedita con « Cerulea » (da Anatomia comperata), Premio Don Di Liegro 2017: Medaglia d’onore con « A maggio » (da Anatomia comperata).

Romano Morelli, dalla raccolta inedita "Un difficile partire", nota di Giorgio Bonacini

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Se la poesia è un dono che non desidera reciprocità, lo è ugualmente anche quando arriva al poeta dal poeta stesso, e si offre all’altro: non solo per dire la parola, ma a volte e ben più, per dare una parola che aderisca a sé, in quanto cosa significante e molteplice. Ed è proprio con questa consapevolezza che il poemetto di Morelli si avvia e fluisce aprendosi il varco necessario “dall’orlo di un limite”. La scrittura e la lingua, che sono il fare e l’essere della poesia, per l’autore sono indiscutibilmente sostanza per respirare: dunque per vivere. Allora la parola, sottratta alla sua superficiale funzione ordinaria, è una peregrinazione senza meta precisa, anche in una direzione attenta al perdersi. Ciò vuol dire, un’occasione per trovare senso e ritrovarsi ricreando il mondo. Il linguaggio, dentro la voce che dice vibrando in ogni sillaba, può anche scomparire dalla visuale, ma i versi lo recuperano tra pause e interstizi muti, punteggiando i suoni e i sensi. Lì dove il dentro e il fuori sono vocalità ed eco. Morelli è attento a concepire la poesia nel tempo e nello spazio, dove “la presenza di un altrove” si innesta all’origine di un apparire sempre iniziale, sempre in continua diffusione. Perchè nella voce poetica il conflitto fra dicibile e indicibile è il segno che fonda il disegno (anche impossibile) del senso. Anche dove l’annuncio è oscuro, precisa senza nessun timore, l’autore. In questi testi, dunque, la significazione oltrepassa il significato, perché forma, direzione e percezione del sentimento hanno come unica valenza un pulsare inarrestabile.

 

Dalla sezione “Lasciare traccia”

 

***

Tu non sei qui con noi: allora

per chi, perché, da dove parli?
 

                                              Dall’orlo di un limite,

                                              - varco e precipizio –

                                              da dove si vedono antiche latenze squarciarsi,

                                              le inquietudini ritrarsi nell’ombra,

                                              inaridirsi le domande

                                              e disperdersi a spettri le misure,

                                              relitti che si spengono su larghi abissi di futuro,

                                              aspettando nel crepuscolo che scompare i giorni mancanti.

 

 

Dalla sezione “Un difficile partire”

 

***

Giunti alfine al bilico,
 

nella sosta costretti soffocanti d’attesa,

accecati e senza più voce,
 

non riconosciamo i resti avulsi

della nostra muta

che la terra accoglie e trasformerà in enigma,
 

mentre ci realizziamo ostaggi

rapiti dai tirannici compagni di viaggio

che abbiamo creato e nutriti.

 

***

Di questo trepidare

mentre ti senti andare

traccio ricordo,
 

del momento in cui s’estinguono le memorie

e non concepisci un avvenire.
 

Di questo difficile partire.
 


Romano Morelli è nato a Liegi, Belgio, il 13 giugno 1953.

Vive e lavora a Padova.

Ha pubblicato:

  • E’ non è, Rebellato, San Donà di Piave, 1988. Poesie
  • Questo essere. Poesie 1988-2010, Mimesis, Milano-Udine, 2013. Poesie (segnalata al premio Montano 2013).
  • Su Hölderlin e il sacro, nel volume collettivo “Teologia della follia” a cura di M. Geretto e A. Martin, Mimesis, Milano-Udine, 2013. Saggio critico.
  • Ancora una riflessione sulla poesia e sul nostro presente (finalista al Premio Montano, 2014). Riflessione critica.
  • Possedere stretto un non avere: una lettura di “Entrata nel nero” di Ranieri Teti. La Clessidra, 1-2 2015 (numero pubblicato nel settembre 2016). Nota critica.

Alberto Mori, "Direzioni", Edizioni del Verri, 2017, nota di Flavio Ermini

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Con questo libro Alberto Mori ci indica quattro delle mille e mille direzioni che può prendere il linguaggio: la Strada, l’Immagine, la Carne, la Migrazione.

 

Vi è nella poesia di Mori una continua alternanza tra identificazione e distacco.

Identificazione con le cose nominate e distacco dal soggetto che le nomina; anche se non è poi così facile qui distinguere l’oggetto dal soggetto…

È anche su questa ambiguità che Mori cerca una strada personalissima per la scrittura, sottoponendola a una sperimentazione incessante, al fine di liberare la potenza rivelatrice della parola poetica, qualunque sia – tra le quattro direzioni individuate – la direzione presa.


 

Dalla sezione “La Strada”


 

***

Veduta piena

Parabrezzata tutta al sole

fin dietro alle spalle

ad inquadro del lunotto termico

Nel baglio argenteo acceso dal retrovisore

la sequela spezzata della mezzeria

in mattinata allontanante


 

***

L’illuminazione delle intermittenze

nastra e rifrange il sovrappasso notturno

Chiama auto a saliscendere

Delinea nel rettilineo successivo

la luminescenza dello sfondo

Scritte tutor per limiti di velocità


 

***

Tramonto inquadrato flussivo dallo schermo sottopasso

Rettangolo scarlatto brevissimo

acceso dallo iodio dei fari abbaglianti

Finisce il controllo elettronico del limite

Il piede riaffonda acceleratore

Alza la dinamica della strada

nel profumo viaggiante delle tempie


Alberto Mori (Crema,1962), poeta performer e artista, sperimenta una personale attività di ricerca nella poesia, utilizzando in interazione altre forme d’arte e di comunicazione.

Dal 1986 ha all’attivo numerose pubblicazioni.

Nel 2001 Iperpoesie (Save AS Editorial) e nel 2006 Utópos (Peccata Minuta) sono stati tradotti in Spagna. Per Fara Editore ha pubblicato: Raccolta (2008), Fashion (2009), Objects (2010), Financial (2011), Piano (2012), Esecuzioni (2013), Meteo Tempi (2014), Canti Digitali (2015), Quasi Partita (2016).

Nel 2017 Direzioni (edizioni del Verri). La sua produzione video e performativa è consultabile nell’archivio multimediale dell’Associazione Careof / Organization for Contemporary Art di Milano.

Dal 2003 partecipa a Festival di Poesia e Performing Arts fra i quali: V Settimana della Lingua Italiana nel Mondo (Lisbona, 2005), Biennale di Verona (2005 e 2007), IX Art Action International Performance Art Festival (Monza, 2011), Bologna in Lettere (2013, 2014 ,2015 ,2016, 2018).

Negli ultimi anni più volte finalista del premio di poesia “Lorenzo Montano” della rivista Anterem di Verona.

Website: www. albertomoripoeta.com

Clemente Napolitano, "Fluxus", l’arcael’arco edizioni, 2015, nota di Flavio Ermini

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Clemente Napolitano ci porta con questo libro nel flusso della vita quotidiana, nel suo farsi e disfarsi nello spazio di un libero agire proprio di un’anima che ha compreso il destino cui è assegnata.

Un destino che coinvolge il linguaggio e la coscienza, in un rinnovamento lungo e incerto, in un rituale che ha bisogno di essere continuamente ripetuto.

Qualcosa è già successo. Ma c’è ancora posto per l’emozione di un rapporto che svela tentazioni non dette, segrete, incalcolabili.

Il messaggio è questo: si cerchi di rinascere continuamente, ci si impegni incessantemente in imprese nuove, risorgendo come ogni volta fa il sole al mattino.

 

***

Perché quest’involucro

non è mai stato

corazza imbattibile

fragile e scosso

da un colpo di vento

lasso ti accoglie

scherno dolente

alla tempesta

solletichi il verso

garrisce la presa

le maglie allargando

rivolta lo sguardo

come una scolta

le spine di Cristo

hanno foglie brunite

 

***

Hai visto la mano era distesa

il palmo aperto

a mezz’aria sospeso brancolava

il corpo stava dietro

l’angolo teso oscillava perplesso

tra dare e avere

mostrarsi per donare o nel frattempo

tirare il busto

indietro nascondendo l’appetito

ripugnante

 

***

E della vita godo

la vita stessa

irrefrenabile flusso privato

di separati pezzi


Clemente Napolitano nasce a Caserta, il 2 giugno 1965. A Bologna si laurea col massimo dei voti al D.A.M.S.

Allievo di eminenti maestri della scena teatrale italiana (Leo De Berardinis, Claudio Meldolesi, Carlo Merlo) frequenta, durante e dopo gli anni universitari, numerosi corsi di specializzazione in arti sceniche con particolare riguardo al settore dell’interpretazione e della regia.

Dai primi anni ’90, generalizza l’attività teatrale a stimolo di rinnovati impulsi creativi e culturali: assume supplenze di Storia dell’Arte nei Licei di Napoli e provincia; promuove seminari, dibattiti, progetti interartistici per la costruzione di nuovi spazi orientati ad arginare indifferenza e degrado; è interprete delle sue messinscene e di progetti musicali; realizza reading di poesia; collabora con riviste locali e nazionali; conduce seminari, dirige spettacoli nelle scuole di ogni ordine e grado della Regione Campania e nelle Università di Bologna e Salerno; svolge attività di Teatro e carcere.

Come attore ha collaborato con Leo de Berardinis: Macbeth di William Shakespeare; Carlo Merlo: Cristoforo Colombo di Michel de Ghelderode, Filosoficamente di Eduardo De Filippo; Renato Carpentieri: La serra e Party time di Harold Pinter.

Pubblicazioni più recenti:

  • Clemente Napolitano, FLUXUS, Nola, L’arca e l’arco, 2015.
  • Clemente Napolitano, Oggi è “ancora più lacerante il suo silenzio”, in LA TERZA VITA DI LEO Gli ultimi vent’anni del teatro di Leo de Berardinis a Bologna, riproposti da Claudio Meldolesi con Angela Malfitano e Laura Mariani e da “cento” testimoni, Corazzano, Titivillus, 2010.
  • Clemente Napolitano, La fenice e il thanatos, in “Annuario Liceo Classico <<A. Rosmini>> Palma Campania”, 2007, n° 7.
  • Clemente Napolitano, ‘O compagno, in AA.VV., La Madonna del Latte 10 racconti per 10 anni, Palma Campania, Michelangelo Communications, 2007.

Mario Novarini, "Radiazione del rosso", Book editore, 2017, nota di Rosa Pierno

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Con una poesia tutta aderente alle sottili percezioni non tanto della materia quanto dell’atmosfera, delle fonti luminose, dei riflessi e delle percezioni, Mario Novarini insegue il gioco infinito delle loro variazioni alla ricerca di una geometria sottesa e di relazioni che, sui binari dell’analogia, leghino l’inorganico all’organico, il corporeo all’incorporeo: “seguono la piramidale / spiraliforme geometria / ch’è imposta dalla loro / ineludibile natura”. Più spesso, però, il passaggio da un elemento all’altro si attua attraverso un salto, una discontinuità, ove la luce è il viatico principale. Il tempo traccia anch’esso una via nella quale è possibile attraversare differenti stati, ma resta sempre la metafora visiva la chiave analogica, quando presente. Il sogno unitario non è disgiunto dalla consapevolezza della sua illusorietà. Una vera e propria girandola di luce investe il lettore, letteralmente illuminandolo.


 

Tempo

Si inquadra

attraverso la sua lente,

che si allontana a poco a poco

dal piano geometrico

su cui ognuno di noi si muove

come per gioco,

la nostra figura,

visibile per un giorno solo,

per un irripetibile

limpido momento solo

perfettamente a fuoco.


 

Litopoiesi (Genova – Salita Carbonara al Carmine)

Arido grigio lichene

disteso come un’erosa

incrostazione del suolo:

è un vivo fossile la città

racchiuso entro un guscio di pietra,

grumo di pittorica pasta

oleosa che resta fluido

a lungo al suo interno

dopo che in superficie

si è solidificato.
 

Sotto il piano stradale

la vita si dirada si riduce

a geometrica configurazione:

delle pietre squadrate

l’ortogonale precisione

è il segno e l’unica inorganica

residuale evidenza

di un ingegno la cui gelatinosa

fisica consistenza

è scomparsa da tempo.
 

Dove il mare immobile delle argille

rovescia gli spruzzi marnosi

delle sue onde pietrificate

su dorsali calcaree

e detritiche coltri alluvionali

di instabili depositi ghiaiosi

si allungano nell’alveo di acque

che un tempo risuonavano al cielo

e ora scorrono per buie vallecole

sotterranee, sprofondano
 

millenarie basi di pietra

calate nel sottosuolo:

umano atto fondante

che sembra uguagliare

della natura il lapideo

effusivo parto di roccia,

al manufatto accomunato

da simile tettonico

destino di compattezza, usura

e disgregazione.


Mario Novarini (Genova, 1962) è laureato in Lettere con una tesi in Glottologia. Ha pubblicato Inventario (Book Editore, 2002), Con gli occhi della materia (Book, 2008) con cui è stato finalista al Premio “San Domenichino – Città di Massa” 2009 e ha vinto il Premio “Alessandro Manzoni” 2011.

Giovanni Parrini, poesia inedita "Ai Margini", premessa di Ranieri Teti

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Il poeta vive sul margine, sull’orlo. Da questo limite acquista centralità, anche se il mondo pare non accorgersene.

Come ha scritto Brodskij, “l’esercizio poetico è uno straordinario acceleratore della coscienza”: in questa poesia infatti una maceria viene aggettivata, allo stesso tempo, “intima”, “inutile”, ma “irrinunciabile”.

Una maceria, un classico elemento residuale, per il poeta diventa costitutiva e fondamentale. Sicuramente non scarto ma pietra su cui costruire. Portando con sé echi lontani di grande e indimenticabile poesia, Giovanni Parrini ci conduce in un luogo che viene sì descritto, ma allo stesso tempo interiorizzato.

Le descrizioni, precise, si trasformano in pensiero, in “sangue inquieto”.

Solo il poeta, dai margini, può ad esempio riconoscere, all’interno di un paesaggio, un’enclave.

In una scena aperta, vedere il recinto. Può farlo perché è un abitatore di bordi, di spazi ristretti, di riserve. Solo il poeta ci può dire che la vita, di noi umani e di tutti gli altri esseri ed elementi, è “solo destino senza arrivo”.

 

Ai Margini

 

Di questa intima maceria così inutile

mia

irrinunciabile

 

e di te prato asfittico che gli olmi condannati proteggono se resterà

qualche testimonianza non saprei

ma non importa, infine

ora che mi parrebbe di comprendere

 

che la tua terra indurita da pezzi di mattoni

e le rime cercate per ridarti la beltà uccisa

sono un solo destino senza arrivo

tensione a qualche altro numinoso dettato.

Tu resistita enclave d’una forza di margherite e corse io, sangue

inquieto, incapace a cantarti

 

a darti l’infinito:

noi eguali

già scordati e vincibili

mentre ci passa accanto la tramvia hi-tech coi fari miti inondati di nebbia.


Giovanni Parrini è nato a Firenze, città in cui vive.

Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Nel viaggio (Lietocolle, Faloppio, 2006); Tra segni e sogni (Manni, Lecce, 2006); Nell’oltre delle cose (Interlinea, Novara, 2011 - Premio Mario Luzi 2011; finalista Premio “Il Ceppo” di Pistoia 2013); Valichi (Moretti&Vitali, Bergamo, 2015 - Premio Viareggio-Giuria 2015; Premio Pisa 2015); Le misure del cielo, rivista Poesia n° 284, a cura di M.G. Calandrone (Crocetti Editore, Milano), Tra poco, nell’aurora, in Nuovi Argomenti n° 73 (Mondadori, Roma, 2016). Quindici poesie sono presenti nell’Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, Milano).

Una selezione di quattro poesie da Valichi, tradotte in inglese da Dominic Siracusa (University of California, Los Angeles), è stata pubblicata sulla rivista internazionale Equipeco, n° 43 (a cura di Flavio Ermini).
Una lettura pubblica di Valichi è stata fatta dall’attore Leo Gullotta, nell’agosto 2015, presso il parco naturale del Conero.

Suoi lavori poetici sono ospitati in riviste, fra cui “Atelier, gli artigiani della parola” (Ladolfi Editore, Borgomanero), “Bollettino 900” (Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna), “Specchio” (mensile del quotidiano La Stampa), oltre che essere pubblicate in siti web.

È uno dei collaboratori della rivista di arte e cultura Caffè Michelangiolo (Polistampa, Firenze) in cui pubblica poesie e brevi saggi su poeti contemporanei, italiani e stranieri.

Gabriele Pepe, poesia inedita "I sing the body electric", premessa di Ranieri Teti

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“I sing the body electric” è il titolo di un lungo poema di Walt Whitman che è stato ripreso, per il loro secondo album, dai Weather report.

Tra le due, sembra essere più quella musicale l’accezione preferita da Gabriele Pepe.

Partendo dalla coda del lungo testo leggiamo “e questo è il blues del tempio risanato / che atomo per atomo rinnova la promessa: / spiga nuova, futura resistenza…”.

Finisce così la poesia, con quei puntini di sospensione che sembrano amplificare l’apertura a un futuro in cui ripromettersi almeno la resistenza, dalle particelle costitutive rappresentate dagli atomi e con l’immagine della “spiga” che porta con sé tutto il suo carico simbolico.

Proprio perché prima c’erano stati “corrotte fecondità del seme e dell’ovaio” e, in generale, un cosmico declinare. Questo mondo che muta nell’instabilità di ciò che potrà accadere può contare nella strenua resistenza di un simbolo universale.


 

I sing the body electric

Se, di slancio, da un tempo non ancora diramato:

(strepitio di verbi di vago declinare fuori e dentro

i respiri di questo castello senza torri

né muraglie, ma di sole feritoie)

staremmo ancora qui, nel mondo affastellati,

di organismo nuovo a decantare:

vertiginosi approdi e intrepide crudezze,

quali interpreti, quali voci,

quali immagini, quali incanti se non per dire:
 

“...mai più vicario era:

al palio siderale di tutte le contrade

umane e sovrumane,

al combattivo inganno di una volontà di carne

caduta e dilaniata al centro di questa muta guerrq

che soltanto esiste nel breve ingaggio

della sua dissipazione;

mai più vicario era:

alle corrotte fecondità del seme e dell'ovaio,

ai margini discreti delle indotte consuetudini,

al gorgo tumultoso delle correnti alluvionali:
 

saldo scoglio al centro di ciò che ovunque scorre

fieramente stava:

(eroico continente dell'umane meraviglie).
 

E non più soggetto era:

al rigoroso sfinimento dell'indagine perenne,

al gelido sbiancare dell'ennesima parola pronunciata;

e non più soggeto era:

al peso insostenibile di esser freccia e mai l'arciere,

al ristagno dei fluidi, all'estradizione delle cose morte,

al ripiegamento delle vertebre sul cuore dell'abisso:
 

incompatibile al gergo dell'antico transitare,

senza timore alcuno, massiccio e puro,

sull'orizzonte degli eventi, superbo, andava...”
 

Questo è. Fu. Sarà: il secolo inderogabile

del corpo nuovo che ibrido

riassume, nel buio e nell'azzurro,

la risacca modulare delle intere percezioni

organico-inorganico

variabili circostanze di realtà aumentate

segmenti di corteccia replicante

che trasuda un'ambra di pensieri del tutto originali

e intrappola concetti inclini all'esatta taratura..
 

Saccenti e osceni quanto basta, ancora cantavamo:

“...questo è il blues del pianto elettrico a lacrime di cromo;

del sangue color dell'argentoro che,

da un polo all'altro reclamato, più veloce

del lampo cellulare, come una tempesta scorre;
 

e questo è il blues del tempio risanato

che atomo per atomo rinnova la promessa:

spiga nuova, futura resistenza...”


Gabriele Pepe, finalista, segnalato e vincitore in diversi tra i maggiori concorsi di poesia, ha pubblicato: “Parking luna” edizioni Arpanet, Milano 2002; “Di corpi franti e scampoli d’amore” e “L’ordine bisbetico del caos” con le Edizioni Lietocolle libri, Faloppio (Como) 2007. Figura nelle antologie: “Ogni parola ha un suono che inventa mondi”, edizioni Arpanet, Milano 2002;

“Fotoscritture”, edizioni Lietocolle libri Faloppio (Como) 2005; “Poesia del dissenso II”, a cura di Erminia Passannanti – Edizioni Joker ( Collana Transference) 2006; “Blanc de ta nuque. Uno sguardo (dalla rete) sulla poesia italiana contemporanea”, Edizioni Le Voci della luna (2006-2011), a cura di Sergio Rotino, Collana Segni, volume n. 7, pp. 272; “Forme concrete della poesia contemporanea”, studio critico a cura di Sandro Montalto, Edizioni Joker.

Suoi testi, recensioni e segnalazioni sul suo lavoro sono apparsi in rete e su carta.

Ivan Pozzoni, poesia inedita "La malattia invettiva", premessa di Ranieri Teti

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Nel fantastico, ironico, enorme, visionario, dilagante mondo di Ivan Pozzoni c’è spazio per l’apparentemente minuscola attenzione a una lettera. Ce lo dice il titolo di questa poesia: “La malattia invettiva”. Un cambio, tra la “f” e la “v”, che connota la storia del testo.

Siamo di fronte a un uso potente della lingua, a un’invettiva che diventa infettiva per come, tra ritmo travolgente, rime inaudite e lessico adeguato, riesce a portare il lettore in un vortice.

Non è facile il verso lungo: richiede un superiore controllo della musicalità, e nel genere Pozzoni è maestro.

In questo vortice tutto si mescola e non casualmente si incontrano Zulu e afrikaner, Hitler e Leonida, addirittura Mazinga e una donna bionica.

Dopo una ridda di esattissimi termini medici, che suonano bene in questa poesia (che d’altronde, da una malattia trae spunto), sul finire della poesia l’autore ci intima di salire tutti a bordo del testo, persuasivo, convincente e intransigente. Partendo dalle nostre periferie, anche “in comitiva”.

Buon viaggio, sembra dirci, beffardamente suadente.

 

 

La malattia invettiva

Per scoprire le cause del mio vivere ogni evento come in dissenteria,

hanno versato inchiostro, enorme svista, nella cannula della gastroscopia

i medici anatomopatologi, e mi hanno diagnosticato la malattia invettiva,

associata a reflussi letterari, dilagati dall’esofago, a ossidarmi la gengiva.
 

Quando, cane cinico al collare, fiuto odor di malcostume o lezzo d’egopatia

non riesco a tollerare l’altro-nel-mondo, vittima d’abuso di xenofobia

dimentico ogni forma di fair-play, calo nella nebbia del Berserker,

incazzato nero come uno Zulu costretto a sopportare un afrikaner,

dico rom al sinti, sinti allo zingaro, zingaro al rumeno, rumeno al rom

non riuscirei nemmeno a trattenermi dall’urlare a Hitler aleikhem Shalom.
 

Se non vi digerisco sento dentro «uh, uh, uh» come Leonida alle Termopili,

identificando i vermi, che mi stanno intorno, coll’acuirsi del valore dei miei eosinofili

emetto, in eccesso, acido cloridrico e smetto di disinibire la pompa protonica

con la disperazione di un Mazinga mandato in bianco dalla donna bionica,

sputando, con l’accortezza del Naja nigricollis, ettolitri di cianuro

in faccia a chi, dandomi noia, sia condannato a sbatter la testa al muro.
 

Per comprendere l’ethos del mio vivere in assenza d’atarassia

barbaro che incontra un cittadino nella chora dell’anti-«poesia»,

sarete tutti, nessuno escluso, costretti a inoltrarvi in comitiva

nei meandri labirintitici della mia malattia invettiva.


Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976. Ha diffuso molti articoli dedicati a filosofi italiani dell’Ottocento e del Novecento, e diversi contributi su etica e teoria del diritto del mondo antico; collabora con numerose riviste italiane e internazionali. Tra 2007 e 2016 sono uscite varie sue raccolte di versi: Underground e Riserva Indiana, con A&B Editrice, Versi Introversi, Androgini, Mostri, Galata morente, Carmina non dant damen, Scarti di magazzino, Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni e Cherchez la troika con Limina Mentis, Lame da rasoi, con Joker, Il guastatore, con Cleup, Patroclo non deve morire, con deComporre Edizioni; tra 2009 e 2016 ha curato una trentina di antologie di versi. Tra 2008 e 2016 ha curato cinquanta volumi collettivi di materia storiografico filosofica e letteraria; tra il 2009 e il 2016 sono usciti i suoi: Il pragmatismo analitico italiano di Mario Calderoni (IF Press), L’ontologia civica di Eraclito d’Efeso (Limina Mentis), Grecità marginale e suggestioni etico/giuridiche: i Presocratici (IF Press), Libertà in frammenti. La svolta di Benedetto Croce in Etica e politica (deComporre) e Il pragmatismo analitico italiano di Giovanni Vailati (Limina Mentis). È con-direttore, insieme ad Ambra Simeone, de Il Guastatore – Quaderni «neon»-avanguardisti; è direttore de L’Arrivista; è direttore esecutivo della rivista internazionale Información Filosófica; è, o è stato, direttore delle collane Esprit (Limina Mentis), Nidaba (Gilgamesh Edizioni) e Fuzzy (deComporre Edizioni).

Giuseppina Rando, prosa inedita "Alla caduta", premessa di Mara Cini

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Un testo che ripropone la riflessione sul potere/non potere della relazione lingua/realtà: Di fronte alla realtà la lingua diventa parola ingannevole.

I consueti tentativi di costruire l’invisibile dimora dell’essere e la consueta mortificazione nel constatare che le sillabe distanti non colmano il vuoto.

Come è stato detto, nella scrittura di Giuseppina Rando c’è la consapevolezza di un linguaggio che non risolve e nel contempo contiene i semi originari dell’esprimersi.

Così si continua, tentativo su tentativo, a tessere strutture linguistiche, a cercare di mettere ordine nell’universo dei significati per trovare un orizzonte di senso.

E’ come un cammino di passi attenti, in modulazione di preghiera.


 

Alla caduta

Nell’andare a cauti passi, attenti all’ordine comune delle cose, si costituisce il sistema

 

declinando le ore in tonalità di pianto o in modulazioni di preghiera, protesi ad agganciare il compiuto al ritmo dell’infinito che pure s’ode aleggiare intorno alla struttura.

 

 

Alla caduta nel mondo dell’Ignoto

è rimasto impresso in tutto l’essere

l’ardente desiderio di uscirne.

Debole la forma con radici nella melma su cui è stato costruito

il muro dell’indifferenza e da cui hanno origine i cespugli della

 

discriminazione e della violenza.

Sferzate di vorticoso frastuono ne costituiscono la sostanza vivente del tempo.

Le voci di tutte le discordanze si riproducono

in parole nel movimento delle riflessioni fluttuanti,

nella dialettica incessante di forze contraddittorie.

 

Nell’andare a piedi scalzi per luoghi dalle sillabe distanti, quasi impronunciabili, nel vuoto si dissolvono le strade della magia e del disordine:

 

si annulla la Parola, il Sapere che dice …

 

Di fronte alla realtà la lingua diventa parola ingannevole, un gioco che irretisce sbarrando la strada verso la pura elevazione.

 

Terrore del nulla.

 

Nell’andare tra la nebbia diradata altra parvenza avanza: un’immensa spianata ove alla necessità di pensare la finitezza corrisponde l’invenzione che apre all’ascolto del sovrumano.

 

Fruscio di chiome nel silenzio; trasalire al ritmo dell’attimo infinito e nello sfiorare il sublime, svanisce il terrore del nulla.

 

Spazio immaginario: ciò che si credeva morto, vive qui sparso tra filari di alberi carichi di frutti, maturati al desiderio di trovare un orizzonte di senso, aneliti-filamenti di travature atti a costruire l’invisibile dimora dell’essere, della propria incorporea sostanza.

 

In chiarità di cuore

distillato di rose selvatiche

alla caduta

nel mondo dell’Ignoto


Giuseppina Rando, poetessa, scrittrice e saggista, è presente in numerosi volumi di poesia, antologie e saggi. Collabora con diverse riviste. Ha pubblicato testi di Poesia tra i quali: Spuma di mare. Poesie (1970-1981), Statue di gesso (1982-1995), Duplice veste (2001), Immane tu (2002), Figura e parola (2005), Cierre Grafica Verona, Vibrazioni (2007) Noubs Chieti, Bioccoli (2008) Anterem Edizioni, Verona; Geometria della Rosa, Aletti editore, 2017. Saggi: Profili di donne nel Vangelo (2001) Bastogi, Foggia, Chiara. Una voce dal silenzio (2002). Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano, Le belle parole (2013) Scrittura Creativa Edizioni, Borgomanero (Novara). Nel Segno, Racconti, (2011) Pungitopo, Patti Marina (Messina) ha ricevuto il Premio di narrativa - Sesta edizione - Joyce Lussu, Offida (Ascoli Piceno)

Massimo Rizza, poesia inedita "Costellazioni ferite", nota di Rosa Pierno

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Tra l’immagine di pietra e lo sguardo della storia vi è una ferita aperta che l’essere umano desidera ricucire. La fenice è il simbolo che sembra richiudere la forbice tra esistenza e morte, quasi un filo che ricucia. Alle coppie oppositive, che mostrano l’abisso che le accomuna, appartengono sono anche Dio e il nulla, il foglio bianco e la scrittura, la mente e il corpo. La parola viene in soccorso, aiuta a credere alle visioni unificanti. Tra le pieghe del dire si trova la forma del mitico uccello, che si può intravedere tra “le ombre mute” e “le crepe del muro”. La figura emblematica, che racchiude in sé il sole che sorge e che tramonta, è, nella poesia di Rizza, associata alla stella Cassiopea, punita per la superbia con la quale ha considerato la sua bellezza. Tuttavia, la bellezza è mezzo. Questa volta è la notte e non il cielo diurno a delineare una scenografia gravida di silenzi primordiali, la quale ancora lascia da soli gli esseri umani sul percorso dove vanamente essi cercano di afferrare segni. Ma è proprio nel “perdersi” e nel “rincontrarsi”, la spinta alla rinascita o almeno la spinta a proseguire.

 

Costellazioni ferite

Immergersi di nuovo per cercare la bestia

lei ferma indifesa dorme, l'occhio è dolce

il suo respiro è il ritmo del tempo che vive

di quel ritrovarsi soli e insicuri sulla carta

tra l'antico sale e la sua immagine di pietra

nello sguardo la storia di una ferita aperta
 

si scrive Fenice notturna velata sull' acqua

vita di passioni e visioni di pesci volanti

di quell'odore denso, misto di nascita e morte

luci di corpi abbracciati che cercano il senso

di parole dai bordi umidi, liberate nell'aria

con ago e fili d’oro ricuci la ferita del cielo.
 

Nei loro occhi di ragazzi un deserto buio

nuove costellazioni mescolate alle vele

di quel vuoto che riflette i pensieri freddi

nel disperdersi sabbia, sulle parole ferme

tra il nuovo Dio e la loro prima ferita vera

venuta dal nulla, figlia della sospensione

luce tremolante di una lacrima trasparente,

Idra caduta nel silenzio di un punto bianco

osso lucido al sole: antica memoria di carne
 

in superficie la cerchi tra le pieghe del dire

immagini la forma del suo essere corpo

stendersi nel divenire, misura dell'abitare

la senti vicina dalla luce che precede ogni

nascita, senza conoscere le sembianze di chi

ormai trasformata, si cela tra le ombre mute

bestia ferma, sospesa tra le crepe del muro,

Lucertola dalla coda a metà, malata d'amore

attesa piegata dal sole che le muore dentro.
 

Tra i corpi di pietra si allunga Cassiopea

sofferta si nasconde la regina sfigurata

maschera di notte offesa che scivola via

la trama gravida di silenzi primordiali

apre le labbra di carta, lascia l'impronta

di un procedere nella carne viva del testo

striscia tra le statue amputate di memoria

in fondo l'urlo finale prima del giorno

profumo di bianco, colore di sole parole
 

la sua carne lacerata, dimòra e figura

di una sembianza che ti lascia di nuovo

disperso tra gli amanti del solo andare

procedere a tentoni, a cogliere i segni

di quel vivere a misura del suo passo,

Orione che si fa luce e rinascita rosa

rincorsa e presa sulle labbra, pronuncia

il nome di quel perdersi e incontrarsi

dove l'anima sente ancora il soffio vivo.


Massimo Rizza è nato a Sesto San Giovanni e vive a Segrate (Mi). E’ laureato in pedagogia e ha operato nel campo dell’istruzione in qualità di dirigente scolastico. E’ condirettore della rivista letteraria Il Segnale. Ha pubblicato la raccolta poetica Il veliero capovolto, Ed. Anterem (2016).
Nel 2017 ha vinto il Premio Letterario Interferenze, Bologna in lettere, per la sezione poesie inedite. Suoi testi narrativi sono pubblicati in antologie e on line sul sito della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Testi di poesia, critica e saggistica sono apparsi su riviste letterarie italiane, tra le quali: “Anterem”, “Capoverso”, “Erba D'Arno”, “Il Segnale”,“ l’immaginazione”, “ Pagine”, “Scibbolet”,

Lia Rossi, poesia inedita "Principio di Rivoluzione. Poesia in otto tempi", nota di Flavio Ermini

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Il canto che intona Lia Rossi ha la melodia irrequieta delle cose liberate dall’ombra. Richiama antiche voci, intese come forze primordiali e come ambiti di uno spazio terrestre che riunisce l’alto e il basso, il cielo e la terra.

Lia Rossi chiede alla poesia cose che solo dalla poesia è dato di sapere. Perché solo la poesia sa in quale rapporto l’essere umano si pone verso il principio e verso la fine.

L’autrice traccia una partizione netta, precisa tra la scrittura essoterica (che immaginiamo a tutti destinata) e la scrittura esoterica (rivolta solo a chi è disposto a prepararvisi adeguatamene). Per raggiungere queste due modalità di espressione e per darne conto sulla pagina, Lia Rossi evidenzia in ognuno degli otto tempi una cesura, uno spazio bianco, verticale; forse una forma di silenzio che in sé trattiene l’urlo arcaico.

Il suo regno è un regno di parole che abbraccia le profondità dei mondi abissali, dei culti misterici di stirpi ormai estinte. È un altrove che impone una domanda di verità e di senso.

Avviene qui qualcosa di molto simile a quello di cui ci parla il rapporto amoroso, rapporto che impone agli innamorati di mettersi in gioco attraverso una terza figura che è l’amore: l’amore come sogno, come impossibile fusione.

In "Principio di rivoluzione" sono da Lia Rossi raccolti i frammenti di un insistente tumulto, di un costante discettare; tanto da indurci a fare i conti con le mille schegge dell’interminabile dilaniarsi di un’anima così vasta da assomigliare all’infinito.
 

I

La leggenda                  del patto di fame

del pane della brocca del tetto della casa

danno chiaroveggenza                le catene

impetuosa                                eloquenza

verso il coronamento              di emozioni

corso maestoso                           di rivolte

per l’essenza                               del pane

prima                                    la sommossa

dai       fabbricanti         di carte da parati

e in fabbriche                            di salnitro

all’ombra                              di un mistero

avevano avuto origine         i diritti feudali

 

II

Diritto esclusivo di caccia di pesca di colombaia

bannalità di mulino        di frantoio       di forno

la proprietà eminente                       dei terreni

sulle terre                           il diritto di giustizia

il diritto di suite                                   sui servi

sui soggetti                                alla manomorta

al tramonto del secolo                      ai contadini

gravami regi                        gravami ecclesiastici

la decima                         sui quattro grani grossi

avena      segale      grano                             orzo

il diritto                                      di seconda erba

di spigolatura                                       di stoppia


 

III

Non v’è borgo o città           immune

dal contagio      dell’empietà eterna

e          da ogni fatale ineguaglianza

la chimera                di manifatture

di cotone                     nei   castelli

compie                        in abito nero

con mantello                        di seta

e cravatta                        di batista

l’effetto sublime        delle filosofie

la sovranità nazionale        si stende

sugli       assolutismi            vigorosi

il sale del dovere            e la saliera
 

 

IV

I ferrai forgiano picche       i delitti

immaginari secolari            l’eresia

la lesa maestà            si aboliscono

non si congela           il libero gioco

sul voto                  non prevedibile

della sospensione                   regia

la  grande     memoria della collera

divide                   il vecchio ordine

disordine nel canto     dalle officine

sui cappelli              rami di quercia

ha un solo cuore                il ricordo

e                                   una felicità

 

V

Ha gli orecchini  di lancia                  lei

presa all’amo della fedeltà  e della virtù

scivola  la chioma            sotto un panno

a tre colori      le labbra    dei punti rossi

di pittura    la gonna ruota   sulle gambe

madreperle illuminate               evocate

adorate                            messe a fuoco

nei riflessi   di  gocce                     di blu

il desiderio di guardare riscrive l’illusione

le convinzioni e                 le fonti di luce

sguardi fulminati seguaci        si muovono

amanti dei diritti               e delle libertà

 

VI

“Non  sono un leone alato che dorme

i simboli nel momento  d’oro crollano

le figure non incatenate        si rifanno

branco di gazzelle                     in corsa

nella grazia                   dell’idillio civile

una lettera                               un corpo

tra braccia                             conosciute

corrispondenza                            egregia

la memoria                      sventa il futuro

custodisce             nel calare delle storie

dei fogli di mare salato            nelle spire

delle conchiglie                        ritrovate”


 

VII

“Non voglio mai più negare                    il  volto

il canto di gloria trovato                     nel sangue

nelle onde profonde                         nella cenere

nei bordi lampanti dei cuori                nella legge

di linee lontane                       delle ali mai sorte

le viole vicine le lezioni delle acque e delle terre

attraversano      piedi   costati                     occhi

le parole su parole                  come rame infilato

cherubini                                verso la redenzione

della corte dei savi                   estraggono l’anima

a distinguere il bene dal male               al principio

e alla fine nell’immagine       dell’ordine perfetto”

 

VIII

“Hai le labbra chiare come arancia            in spicchi

singolarmente vera   intinta nell’argento e  nel ferro

parliamo in gran segreto            dell’amore più forte

sulla bocca di tutti               ridiamo dei capelli fulvi

che  sfiorano      la schiena             alzati come raggi

gli anelli fermi nella mano guerriera  serpi di bronzo

 

non si sospende la pace                     con le bandiere

velluto                  rosso canone rilucente di bellezza

fanfara  luce tenera                    demone confidente

speciale autoritratto                 liberamente di fuoco

anello eterno sfaccettato      grande  rubino la poesia

innamorata                    rivoluzione ti ho conquistata”


Lia Rossi, insegnante di lingue e letterature straniere, vive a Reggio Emilia. Ha partecipato a rassegne internazionali di poesia visiva e fonetica.

Le sue poesie sono state pubblicate su riviste letterarie, quali Tam Tam, Steve, Squero, O/E, e nell’Antologia Geiger. E’ coautrice dei cortometraggi sperimentali Una scena da rifare (1980) , E’ colpa di Sara(1983) e Au revoir le langage (2016)

Ha pubblicato Versare con garbo (Ed. Tracce, ), Mail-non mail (Ed.Zona, 2013), Verso il gabbiano (Ed.Tecnograf, 2014), La stanza nella stanza (Ed.Tecnograf, 2015) .

Libri d’artista :Gioconda, 2016, Terno dei castelli, 2016 (per i gioielli-spilla di Elisa Pellacani), L’idea del drago, 2017(stampato sui torchi a mano presso il lab.Manfredi con incisioni di Stefano Grasselli), Carta Luna, 2018 (stampato sui torchi a mano presso il lab.Manfredi con incisioni di Elisa Pellacani).

Le opere Mail-non mail, Verso il gabbiano, Stanza nella stanza sono state premiate nell’ambito del Premio Lorenzo Montano 2012 , 2013, 2014, indetto dalla Rivista di Ricerca Letteraria Anterem.

Gianni Ruscio, "Proliferazioni", Eretica, 2017, nota di Flavio Ermini

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Gianni Ruscio ci intima di riporre le armi, consapevole com’è che lo sconfinamento, la migrazione, la diaspora, l’esilio, l’esplorazione mediante percorsi impensati caratterizzano la poesia.

Non è certamente la significazione univoca a definirla.

Non è la regola, con le sue armi, a definirla.

La poesia cerca un altrove e un altrimenti effettivi; aspira a ciò che è radicalmente altro.

La creazione poetica è la voce terrena di una creatura che non può liberarsi dalla struttura interrogante dell’esistere umano, attraverso un ascolto in cui è impegnata ogni parte del nostro corpo. Inesauribilmente.

 

***

Il dorso del corpo del tempo sia

il raccolto del nostro intrecciare. Rispettiamo

questa narrazione - slacciata e riallacciata

da stralci di noi nel cordone spaziale,

e riponiamo le armi. Ripuliamo il corso

della superficie che da cardini antichi ci sorregge

in questa carne del luogo, angolo senza destino.

 

***

Pelle spiegata a ridosso del tempio,

tempo gemello, e in fronte il colore del vento.

Sensibile crosta di premonizione, sei sotto la pelle

di questa risonanza il motivo

della lotta, il colombo nel nido

che si accovaccia nel vento. E nel vento

tinge un sospiro, placa il suo alito,

riprende fiato, sterminato rinfresco.

 

***

Fammi la tua verità. Fammi inorganico. Rendimi

opaco. Cieco. Sei tu la sconfitta

dei miei occhi. L’unica. Sconfitta che genera

ritorsione del nulla dentro al nulla... unico sbocco

che in me vede senza guardare. Guardami,

guadami e per i tuoi demoni fammi libro

e costellazione.

 

***

Corri a ritroso per ritornare

verso la fine di ogni sedimento,

di ogni rottura. Sii finalmente lo scempio

della ruota. Del singhiozzo

il confine ultimo prima del dirupo.


Gianni Ruscio nasce a Roma il 7 dicembre 1984, dove vive tuttora. Ama Anna, Jago, il buon cibo, l’arrampicata e la vela. Pubblica il suo primo libro di poesie nel 2008, a 23 anni. Continua la sua ricerca e nel 2011 esce il canzoniere Nostra opera è mescolare intimità per le edizioni Tempo al Libro. Nel 2014 esce Hai bussato? per le edizioni Alter Ego, con prefazione di Roberto Gigliucci. Nel 2016 pubblica con la casa editrice Ensemble Respira, che si aggiudica una menzione al Premio Lorenzo Montano XXX edizione, e vince il premio di poesia italiana indetto dall’editrice Laura Capone. Interioranna, pubblicato dalla casa editrice Algra nel 2017, è la sua quinta pubblicazione, con prefazione di Gabriella Montanari. Il libro viene premiato con segnalazione al Premio Lorenzo Montano 2017. Proliferazioni, Eretica edizioni, è la sua sesta opera edita.

Patrizia Sardisco, prosa inedita "Disdire", premessa di Mara Cini

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Una telefonata. Un filo lega due donne. Un flusso di pensieri uguali e contrari scorre da un capo all’altro, dal mondo senza saliva della madre ai lunghi corridoi vuoti nella testa della figlia. E’ il cordone ombelicale delle consuetudini, delle relazioni famigliari. E’ una comunicazione che ripete giorno dopo giorno il non detto.

Ci sono due monologhi che non riescono a farsi dialogo.

Nel pensiero un po’ inerte della figlia, si intravede la possibilità nascente di piccole energie (tiro su la cornetta…mi tiro su i pantaloni…tiro su col naso) innescate dalle richieste materne di cura e attenzione, da un innegabile “discorso amoroso”. Ma presto tutto è ricacciato, tirato giù, nella stagnante terra del non so più che dirle.

Dall’altra parte c’è una donna che si svuota… della sua voce in prevedibili ma inquietanti fiotti d’acqua fredda. Che dice e disdice. Ma il disdire del titolo a cosa si riferisce? Quegli accenni a un suicidio presunto (credo che morirò) sembrano ritrattati con motivazioni che rimandano alle parole di Dorothy Parker (autrice di un memorabile racconto che si intitola appunto “Una telefonata”): I rasoi fanno male; i fiumi sono freddi; l’acido macchia; i farmaci danno i crampi. (…) Tanto vale vivere.

 

 

Disdire

Lo so che è lei dal primo squillo lo so che è lei squilla da un altro mondo senza saliva quando chiama mia madre mi tiro su dal divano e penso che so che è lei e che è assurdo che mi prenda il panico però è così e non so che dirle non so più che dirle da quando mio padre se ne è andato in quel modo un pomeriggio di gennaio di una sfarinata di secoli fa una sfarinata di secoli fradici fa e infatti nemmeno oggi so cosa dirle oggi che potrei dirle semplicemente buon natale Catia anzi forse oggi è persino peggio è peggio perché so che oggi avrei dovuto telefonarle io avrei potuto telefonare io chiamare per dire anche soltanto ciao Catia ciao ma’ oggi è natale ma’ e io non vengo no ma’ non ce la faccio a passare e allora niente buon natale e poi cose del tipo cosa mangi oggi la fai una tombola con gli altri vecchi mia sorella è venuta a trovarti con i bambini c’era quel cazzone di suo marito o altre cose così cose da figlio ma il fatto è che io non mi ricordo che è natale cioè sì mi ricordo che è natale ma non ho nessuna voglia di accorgermi che me lo ricordo che è natale e nessuna voglia di accorgermi che non ho voglia di parlare con te ma’ però la tiro su la cornetta e l’appoggio precaria e fredda tra la faccia e la spalla e con le mani mi tiro su i pantaloni e non dico niente tiro su col naso e non dico niente aspetto in un angolo buio in uno dei lunghi corridoi vuoti che ho dentro la testa aspetto che la voce di mia madre cada come sempre come un capotto fradicio di neve perché lei si svuota sempre così della sua voce sempre così mia madre gelata e fradicia gravida come la madre di tutti i sensi di colpa l’ha sempre mollata così la sua voce dove capita come un pestaggio al buio e se non smette di nevicare in questo modo credo che morirò dice mia madre lei non dice mai pronto lei non si annuncia mia madre è un fiotto d’acqua fredda che aspetta l’apertura della valvola dice credo che morirò mia madre mi stendo con un flacone di pillole e buonanotte ma poi aggiunge buon natale mia madre e il tono è uguale dice buon natale con lo stesso tono che usa quando deve dirmi che le fa di nuovo male la gamba lo stesso di quando dice che perde di nuovo il cesso in quel cesso di posto dove è costretta a stare lo stesso con cui sta dicendomi che lo sapeva che non andavo a trovarla neanche oggi e almeno oggi una telefonata sì almeno oggi è vero? gliela potevo fare


Patrizia Sardisco è nata a Monreale, dove vive. Laureata in Psicologia, specializzata in Didattica Speciale, lavora in un Liceo di Palermo. Scrive in lingua italiana e in dialetto siciliano. Sue liriche e alcuni racconti brevi compaiono in antologie, riviste e blog letterari. Nel 2016 è stata pubblicata la sua raccolta poetica Crivu, prima classificata al premio “Città di Marineo”. Nel 2018 si è classificata al 2° posto al Premio città di Ischitella – Pietro Giannone con la raccolta inedita di poesie in dialetto Ferri vruricati (arnesi sepolti). Ha inoltre pubblicato Eu-nuca (Edizioni Cofine, 2018) e Autism spectrum (Arcipelago Itaca, 2019), entrambi con prefazione di Anna Maria Curci.

Ambra Simeone, prosa inedita "Provare a salvarsi", premessa di Mara Cini

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Scrittura vs vita, è la costante che troviamo, palese o sottotraccia, nel lavoro letterario femminile. Abbiamo gli esempi laceranti e altissimi di Woolf, Cvetaeva, Plath…e gli esempi non pervenuti di tutte quelle pagine mai scritte, quando per partorire un racconto non c’è tempo.

Anche per le giovani donne dei nostri giorni si tratta spesso di scegliere se investire nei sogni o nella vita. La creatività richiede tempo e spazi e cervello libero. Dopo una giornata dedicata ai “normali” impegni famigliari ci si addormenta sulle pagine di un libro o davanti alla televisione, svuotate di ogni energia. L’ autostima sembra dover attraversare prima di tutto le necessità e i luoghi comuni della quotidianità: lavoro, casa, famiglia, cura dell’aspetto fisico…soldi, cibo, vestiti.

Siamo forse noi stesse a dirci vabbé i racconti non sono riusciti a farmi sentire migliore.

Ma provare a salvarsi è talvolta necessario, se non sarà letteratura sarà almeno un ritaglio d’autenticità.

 

Provare a salvarsi

scrivere aveva avuto la sua importanza, ora non più, non c’entra il blocco dello scrittore, ci sono altre cose che entrano in ballo, quando devi fare da cucinare, devi spolverare casa, la polvere, che non c’è da scherzare con l’allergia, dopo i trent’anni, dopo il trasloco è stata tutta una discesa con l’allergia, e non c’è più la mamma a impiattare la cena, a tenere casa pulita, ci sono altre cose che entrano in ballo, e ballare per scrivere è fuori discussione, no, non c’entra il blocco dello scrittore, devi pensare a fare la spesa, vedere il tuo conto in banca che scende a fine mese, e poi che si rialza, un pochino alla volta, non dobbiamo far prendere il sopravvento all’allergia, bisogna pensare a cosa fare di questa vita, che così come gira con un lavoro part-time a seicento euro al mese, proprio rischia di non girare più, eppure una volta scrivere aveva avuto la sua importanza.

adesso voi direte, una donna potrebbe fare tutto, siamo le wonder woman del nuovo millennio, lo dicono in tv, siamo tutte lavoro, passioni, palestra, stress da psicoterapeuta, un giorno forse figli, e mani che si allungano in qualunque direzione, afferrano, accarezzano, ammoniscono, addolciscono i visi, mentre poi c’è chi se ne sta a vegetare sul divano, senza motivo, ferma come un broccolo a pensare che forse sono sei mesi che non riesce a scrivere una parola, se non l’elenco della spesa sui post-it, cercare la calma, un solo attimo di pausa, adesso è meglio conservare le energie per qualcosa che ne valga la pena, tipo: soldi, cibo, vestiti, una casa decente senza muffa sulle pareti per sei mesi all’anno e senza polvere che entra sotto le porte per i restanti sei mesi, un lavoro decente, e poi crescere, crescere, crescere, finalmente, adesso, assolutamente, non puoi pensare al critico letterario che deve analizzare il tuo ultimo libro, non c’è da pensare all’editore che non ti pubblicherà mai il prossimo, ammesso che tu lo scriva veramente, un altro libro.

noi abbiamo le bollette da pagare, che partorire un nuovo racconto e sperare che si classifichi ad un concorso, non c’è tempo, non c’è più tempo, ora è il tempo di centrare la tua vita per qualcosa di vero, non la stupenda, magnifica finzione che vai digitando sul computer, hai la tua nuova raccolta pronta in pdf. e non hai ancora trovato qualcuno che speri in te, e perché dovrebbero farlo, ci sei già tu che non speri neppure più in qualcosa in cui credevi, è un ricordo vago, e allora ti aggrappi a tutto il resto, nella costante attesa che prima o poi non ne avrai più bisogno, forse non avrai più bisogno di sognare, che adesso abbiamo da pagare l’affitto di una casa rispettabile, tra sei mesi trovar- si un nuovo lavoro e poi perderlo e poi ritrovarlo, è una gran guerra, a dire la verità, ma chi ci pensa alla tua raccolta poetica, cresci una buona volta, c’è chi investe nei sogni, perché non investi nella tua vita, si tratta di una questione di scelta, questione di scelte.

io a non sapere neppure se questa storia ho voglia di raccontarla, invece meglio liberarsi, piuttosto iniziarla di punto in bianco e non sa- pere dove andare a parare, finirla non mi sembrerebbe giusto, forse sarebbe ora di fare un figlio, proprio adesso, prima che scada il contratto con il padre eterno, prima che l’utero ti dica no, noi a non sapere come va a finire questa storia, figuriamoci a capire la tua vita o a rendersi conto che il tempo sta per scadere, come sarebbe a dire, rinunciare a lottare è diventata la scommessa della tua vita, e intanto i quiz in tv non si fermano mai, non dai mai le giuste risposte o meglio hai imparato a non darle, perché non ti interessa di vincere, né di perdere, sei lì a chiederti se domani convenga comprare il ferro da stiro per le camicie, quelle non puoi proprio metterle addosso così stropicciate, neppure se le asciughi con l’asciugatrice, ma forse piuttosto che comprare il ferro da stiro, piuttosto che stirare, butto via tutte le camicie, faccio un repulisti, lancio l’assedio all’armadio, metto a morte il guardaroba, nuovo look all’outlet che con poco te la cavi, cambiare, cambiare, cambiare sempre, non è questo il motto del momento?

sì, scrivere poteva aver avuto la sua importanza, avere abbastanza ore che sembravano comunque poche, ora sono perfettamente distribuite, così tante, così perfettamente ordinate e pulite: colazione al mattino (10 min), chiacchierata col barista (15 min), spesa al supermercato (3 quarti d’ora), pranzo (dai 20 a 30 min) compresa la digestione, dai 5 a 10 per il lavaggio piatti, 5 min in macchina per arrivare in ufficio, 4 ore che diventano 6 per il turno part-time che durerà ancora per poco, cena come per il pranzo compreso il lavaggio dei piatti, 3 quarti d’ora in palestra, amici e socializzazione 15 min, doccia 10 min e poi tv fino allo svenimento, eccola lì, un’altra giornata senza aver scritto neppure una frase di senso compiuto.

quando l’io diventa noi, c’è poco da fare, il ballo a passo doppio costa a tutti, ma guadagni una ventata di sesso, soddisfazione, apprezzamento, sostegno, dolore, amore, un prezzo alto a cui non puoi rinunciare, voi mi direte, sarà solo il blocco dello scrittore, vedrai, ma poi a bloccarla lì per qualche anno, tutta quella finzione, tutto quel sogno, dove farla galoppare tutta quella fantasia, attendere magari che un’altra vita sia per essere vissuta meglio, quella che hai abbandonato prevedeva solo parole messe in fila che nessuno avrebbe mai letto, non vuoi certamente finire come quei depressi, quei maniaci, che stanno lì a contare quante copie del loro libro hanno venduto o a tenere corsi in scuole di scrittura creativa, come la maggior parte di quelli che hai avuto il coraggio di leggere e la fortuna di non conoscere, davvero non sarà la tua fine, ecco il problema è sempre stato quello, non avere in mente un finale migliore, adesso effettivamente, non ave- re un piano B è da stupidi, non c’è nulla di geniale, questo è un consiglio da chiedere a qualcuno, prima o poi, un giorno, dato che a noi stessi non ci riesce facile una risposta, che ci rimane lì in canna d’esofago e pur venendo su dallo stomaco, ti lascia solo l’acido in bocca.

altro che depressione, ve la farò vedere, venderò caro il mio talento, lasciate che io scelga le parole adatte per tenere una conversazione al bar, che quella vale più di mille racconti, e poi ad accorgersene solo nei momenti in cui non vorresti neppure alzarti dal letto, scambiare due chiacchiere con uno sconosciuto ti è stato più utile di quei mille racconti non scritti, che ne sarà di critici ed editori, ora che di libri non se ne leggono più, sono rimasti solo quelli che li scrivono allo stile di Calvino, Bukowski, Fante, a chi vuoi che interessi, a me non di certo, neppure quando spreco i miei quindici minuti al giorno a leggere la home di facebook, ti propongono poesie su facebook, ce ne sono in gran quantità, loro che se ne stanno lì a leggere, invece di stare in mezzo alla gente durante la movida del sabato sera, resistenza annunciata, resistere e non comprare niente, resistere e non far finta di non essere su una passerella, resistere in mezzo a tutta quella gente con tutta quella roba addosso, che a vederla dall’alto sembrano formiche con un sacco pieno di niente sulla schiena, tutte intente a portare le loro malinconie in giro per le strade, altro che mille racconti, altro che ottomila caratteri su un foglio bianco, sì, è vero, scrivere aveva avuto la sua importanza, ma non eccessivamente.

altro che sogni, niente racconti, non sono stati mica loro a consolarmi, quando per la prima volta ho guardato un padre e una madre negli occhi, il giorno che l’ho scoperto che anche loro possono morire, anche loro un giorno non ci sorrideranno più, la realtà è una donna che dovrebbe riuscire a fare tante cose, la società che te lo chiede, dovrebbe portare i pantaloni, mascherarsi, fare figli, lavorare, occuparsi della casa e magari di tanto in tanto fingere di fare l’amore per non dimenticarsi di essere viva, per evitare che il compagno la rimpiazzi troppo facilmente, invece di scrivere, puah, a tutti critici letterari, a tutti gli editori, a quei lettori invisibili, non sono stati i libri, né i racconti, né le poesie a farmi andare avanti, non sono certo serviti, quando li ho cercati, non mi hanno asciugato le lacrime nei giorni bui, niente consolazione da parte loro, quella la ricevi solo dalle persone, i racconti non sono riusciti a farmi sentire migliore... e allora adesso, perché piangi, stupida?


Ambra Simeone si è laureata in Lettere Moderne e specializzata in Filologia Moderna con il linguista Giuseppe Antonelli e una tesi dal titolo Lingua e varianti in “Ritorno a Planaval” di Stefano Dal Bianco. Ha pubblicato: Lingue Cattive, Come John Fante... prima di addormentarmi, Ho qualcosa da dirti - quasi poesie. È co-curatore con Ivan Pozzoni de Il Gustatore - quaderni Neon-Avanguardisti. Ha curato il volume antologico Scrivere un punto interrogativo. Suoi testi sono apparsi su riviste letterarie nazionali e internazionali: Kuq e Zi, Il caffè, Italian Poetry Review. Sue poesie sono apparse su antologie tra le quali: Il Quadernario Blu a cura di Giampiero Neri e Il rumore delle parole a cura di Giorgio Linguaglossa. Sono stati pubblicati saggi brevi tratti dalla sua tesi di laurea specialistica su riviste letterarie e in volumi: Rassegna storiografica decennale II e Frammenti di filosofia contemporanea XXII. La sua ultima raccolta è Opinionistica con prefazione di Claudio Damiani. Ha vinto il premio italo-russo Raduga come giovane narratore italiano. Sta lavorando ad una serie di saggi su Charles Bukowski.

Carlo Tosetti, dalla raccolta inedita "Parigi e tempi altri", nota di Laura Caccia

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Lo splendore del vero

Poliedriche e rammemoranti, eterogenee e in sé concluse, ciascuna sospesa nella sua dimensione naturale o letteraria, le visioni che emergono dalla raccolta Parigi e altri tempi di Carlo Tosetti paiono somigliare ad una raccolta di inquadrature diversificate, fotogrammi fermati nel loro spazio-tempo, quasi un museo personale dell’autore.

Simili a quegli oggetti, quadri, fotografie, tra cui frugare nelle bancarelle del Marché di Paris, come nella poesia che dà titolo alla raccolta: “Poi che cerchi? / Dove frughi passate / le gravi meraviglie / dei musei ed incontri …?”. Simili anche a fondali, vari e disparati, che vengono di volta in volta scelti e illuminati con tocchi spesso pittorici, nel riverbero stratificato di echi di spazi e tempi lontani.

Sono spazi che richiamano luoghi naturali e urbani: ciascuno descritto nei suoi forti richiami alla presenza umana e, insieme, al pensiero che vi si affaccia. E sono tempi che costituiscono un richiamo a quanto il passato ha lasciato depositare e arricchire, rispetto alla “bolla d&#39;inerte / presente dove attorno / procombe ed insorge / nuovamente ogni cosa”, come scrive l’autore, nel suo stile senza artifici e lontano dalla retorica, attraverso sguardi nitidi sulle cose e richiami pensosi alle presenze umane.

Gli spazi e i tempi richiamati nei testi non restano in tale modo neutri contenitori, ma si colorano di incontri, presenti e passati, reali e letterari. Sono filosofi, registi, scrittori e poeti a cui l’autore dedica i suoi versi o di cui richiama i luoghi scelti per le loro sceneggiature.

Come le piscine termali di Bagno Vignoni, sulle quali aleggia lo spirito di Andreij Tarkovskij “il respiro suo, / l’assimilare il genio / delle Naiadi che spande / il fumo vaporoso e guaritore”, oppure il parco parigino des Buttes-Chaumont, scelto dalla regia di Éric Rohmer “che vi pinse gli acquerelli / della lieve nouvelle vague”, o ancora il luogo immaginario della fortezza di Dino Buzzati nella poesia ispirata a Il deserto dei Tartari che conclude la raccolta, dove luoghi e tempi si rarefanno nell’attesa, in quell’indugio “palesato dal nulla lontano, / dal siderale niente remoto”.

La nostalgia, lo sguardo, l’attesa: quadri, anch’essi, come i testi che Carlo Tosetti delinea via via, nel tentativo, forse, di far emergere quello splendore del vero, indicato da Jean-Luc Godard come elemento caratterizzante la cinematografia della Nouvelle Vague.

Accostando visioni delineate nelle loro precise dimensioni spazio-temporali a elementi di partecipazione umana e di riflessione, dove la parola agisce da macchina da presa in grado di mettere a fuoco simultaneamente i campi lunghi e i primissimi piani. Quasi un effetto straniante, in una poesia che si fa luogo di raccolta di paesaggi e momenti dello stupore e della riflessione, della meraviglia e del quotidiano.


 

Due cimiteri militari
 

I
 

Si apre sconfinata,

dei gusci la distesa

di bivalvi scardinati:

il caos, le cappelunghe,

alcune le inquadra

in laconiche righe,

l’omaggio minerale

al cimitero americano.

 

L’altre che i gorghi

dell'onde l’incrocia,

infinite, frantumate,

creano giustapposte

orazioni del mare,

a mezzo miglio dalla costa

risucchiato per prodigio

e planetaria congiuntura.


 

Al Glicine

 

Figuro tutti bambini,

nella bolla d'inerte

presente dove attorno

procombe ed insorge

nuovamente ogni cosa,

ma sempre indifferenti,

a sfiatare noi s'andava

su per la china, al Glicine fino,

ansando per succhiare

l'ambito ghiacciolo.

A lasciare che affacci l'idea

(di sotto romba la Bova)

che poco ne abbasti

e ci soffochi un rivo,

s'opponeva il tritone,

che viscido sguscia

dalla mano nell'acqua

e poi, fluttuando, si posa.


 

Tarkovskij

 

A ristorarci nella Piazza

delle Sorgenti gustammo

vino rosso e pici,

e meglio avremmo fatto

credo ad emulare

non le penitenze

di Santa Caterina

ma il respiro suo,

l’assimilare il genio

delle Naiadi che spande

il fumo vaporoso e guaritore;

immobili e cotti,

nella piscina rispettosi

del voto al matto di Gorčakov.
 


Carlo Tosetti (Milano, 1969), vive a Brivio (LC).

Ha pubblicato le raccolte: Le stelle intorno ad Halley (LibroItaliano, 2000), Mus Norvegicus (Aletti, 2004), Wunderkammer (Pietre Vive, 2016).

Suoi scritti e recensioni sono presenti su:

Nazione Indiana, Poetarum Silva, Larosainpiu, Paroledichina, Words Social Forum, Versante Ripido, elvioceci.net, Il Convivio, Lankenauta, Interno Poesia, www.giovannicecchinato.it, Poesiaultracontemporanea; Atelier.

È stato ospite della trasmissione Percorsi PerVersi, in onda sulle frequenze di Radio Popolare, il 30/01/2017.

Collabora con Poetarum Silva.

Blog personale: musnorvegicus.it

Luca Vaglio, "Il mondo nel cerchio di cinque metri", Marco Saya Edizioni, 2018, nota di Flavio Ermini

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Quando un essere umano nasce, con lui nasce un mondo. Esordisce un paesaggio entro il quale l’uomo e la donna vivono senza consapevolezza.

Nel corso della nostra breve storia evolutiva non abbiamo ancora imparato a pensare.

Si va dall’ininterrotto al balbettio della vita di tutti i giorni.

Entriamo nel perimetro della nostra esistenza come dentro un paesaggio dipinto, un paesaggio artificiale.

Eppure anche là dove la natura si fa apparente, più avventuroso e sofferto diventa l’esistere nel mondo; in particolar modo nello sperimentare il proprio corpo; nel sentire noi stessi; nel rapporto con l’altro, che è rapporto con la parola e con il tempo.


 

***

considera sempre il commiato

le persone al tempo dell’addio

quello che succede, che cosa fanno

prima di fare a meno di te


 

***

si comprende una città soltanto

quando non si ha nulla da fare


 

***

alla radice dei pensieri

dentro il segreto interno

dietro la materia che si vede

si vive sempre

come in attesa

prima dell’inverno

fuori dall’inferno

nell’infanzia delle cose


 

***

molto più di quello che dici

sulle grandi cose del mondo

conta per me l’uomo che sei

nel cerchio di cinque metri

se e come mi saluti e come

mi sento a pochi passi da te


 

***

guardare la luce degli altri

e niente volere rubare

nulla distruggere mai

alla fine non uccidere

essere appena parte lontana

osmosi di una sola passione

è sempre qui il tutto

che dice, il significato

la rivolta, l’etimologia

della rivoluzione


Luca Vaglio vive a Milano, dove lavora come giornalista. Il mondo nel cerchio di cinque metri è il suo terzo libro di poesia. In precedenza, ha pubblicato Milano dalle finestre dei bar (Marco Saya Edizioni, 2013), La memoria della felicità (Zona, 2008), il saggio-inchiesta Cercando la poesia perduta (Marco Saya Edizioni, 2016) e il racconto In riva al Lario (Lite Editions, 2013). La sua ultima pubblicazione è il romanzo Il vuoto (Morellini Editore, 2019).

Ultima pagina: Aida M. Zoppetti, due libri, frammenti critici e biografia

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Dalla prefazione di Massimo Gualtieri a “Una coltivazione di forme”:

[…] “Una coltivazione di forme” fa parlare, o meglio, è parlata, da tutto un catalogo di enti minori, di marginali assenti. Qui, più che leggere, siamo letti: facciamo esperienza. Fare esperienza di un libro di poesie – coltivarne, appunto, le forme – comporta un agire e implica dei rischi. A questo insieme di asimmetriche aiuolette va rigorosamente anteposto il verbo praticare. Perché questo non innocuo paesaggio necessità sì di una certa attrezzatura, ma soprattutto sta a indicare quanto laboriosa e meticolosa sia ogni trasformazione del fare. La poesia si dà nel fare, gli è contemporanea. Fare esperienza di una poesia che si dà nel fare è già un ritorno all’originario contenuto delle parole greche logos e legein , quando non significavano ancora discorso, dire, e le parole non avevano alcun immediato rapporto con il linguaggio. Logos e legein sono parole care ad Heiddeger che, richiamandosi ad Eraclito, ridarà ad esse un senso molto particolare, un senso che abbiamo già ritrovato: quello di “raccogliere”, di “porre a fianco”, di “mettere in ordine”. La coltivazione, insomma. […]

 

Aida M. Zoppetti è nata a Bergamo, dove risiede. Alla fine degli anni ’70 ha fondato e diretto con Massimo Gualtieri e Ugo Pitozzi la rivista di poesia e sperimentazione visiva “North”. E’ apparsa in numerose antologie di letteratura contemporanea. Suoi testi figurano in Tracce, Tam Tam, Lettera, Anterem, Aperti in squarci, Salvo Imprevisti, Théâtre du silence, El Bagatt, L’area di Broca, Thesis, Risvolti, Il Verri.

Ha pubblicato “Una coltivazione di forme” e “Di Lama e di Luna” per Anterem, “Generation of Vipers” per Signum Edizioni d’Arte, la plaquette: “Piume, poesie visive e volatili” per Dialogo Libri, “Messieurs, mettez du blanc dans l’ombre” e “Blu biscotto” per le Edizioni “Alla pasticceria del pesce” dirette da Claudio Granaroli, “Ora che tutto il tempo è notte” per la raccolta “Lavoro dopo” della CGIL. Ha illustrato “Frisbees della vecchiaia” per Giulia Niccolai.

In questo momento si dedica alla poesia visiva.

ps Le note contrassegnate dai numeri 3 e 5 sono di Tiziano Salari


 

Aida M. Zoppetti, due libri, frammenti critici e biografia

Aida M. Zoppetti, due libri, frammenti critici e biografia

Aida M. Zoppetti, due libri, frammenti critici e biografia

Aida M. Zoppetti, due libri, frammenti critici e biografia

Aida M. Zoppetti, due libri, frammenti critici e biografia

Aida M. Zoppetti, due libri, frammenti critici e biografia

  • Novembre 2019, anno XVI numero 44
  • Ranieri Teti

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a cura di Mario Varini
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agg. 27/08/2010


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