Le ragioni del sentimento: filosofia e poesia in Maria Zambrano

a cura di Carlo Penati

(Maria Zambrano, Filosofia e poesia, Edizioni Pendragon, Bologna, 2010)

  1. Pensiero e poesia

Ci fu forse un tempo in cui sentire e pensare convissero nella stessa persona (per Aristotele il sapere scaturisce dallo stupore, il pensiero promana dalla meraviglia), ma oggi no. Con questo incipit Maria Zambrano ci porta nel cuore di un rapporto lungo e contrastato tra inevitabili amanti: la ragione che, cercando la verità, riduce e esclude e il sogno che, nulla cercando, tutto include.

E’ con la Repubblica di Platone che filosofia e poesia divergono radicalmente. La ragione prende il sopravvento per salvare gli uomini dalle rappresentazioni, dai sogni, dagli dei e ridare loro il controllo della società, attraverso la giustizia. Il pensiero si fa violenza e decide. Il sogno mendace dei poeti viene esiliato. La ricerca voluta dell’essenza che abita dietro le apparenze, dell’unità dell’essere, emargina il molteplice, l’inconcluso, l’accogliente sguardo che accarezza, nei versi dei poeti, il reale e il non reale. Perché entrambi hanno diritto di cittadinanza.

La poesia non è violenta, perché non cerca. “La poesia è incontro, dono, scoperta venuta dal cielo. La filosofia è ricerca, urgente domanda guidata da un metodo.” (p. 37)

Il filosofo volge la sua riflessione all’unità, un punto in cui tutto si spiega e che esclude necessariamente altri punti di vista. Il poeta li include tutti, la sua unità è l’eterogeneità.

“La cosa del poeta non è mai la cosa concettuale del pensiero, ma complessissima e reale, la cosa fantasmagorica e vagheggiata, quella inventata, quella che ci fu e che non ci sarà mai. Vuole la realtà, ma la realtà poetica non è solo quella che c’è, quella che è, ma anche quella che non è; abbraccia l’essere e il non essere in ammirevole giustizia caritativa, perché tutto, ma proprio tutto, ha diritto ad essere, finanche ciò che non ha mai potuto essere (…) Il poeta non teme il nulla.” (p. 45)

Mentre il filosofo, per la Zambrano, rifugge il nulla cercando, nella sua costruzione di pensiero, di riempire di senso l’insensato, di colmare il vuoto insostenibile dell’esistenza, di rivelarne i lati nascosti che la originano, di eviscerarne la verità.

  1. Poesia ed etica

La poesia non cerca la verità escludente, e quindi, per Platone, andando essa contro la verità, va contro la giustizia. E’ la menzogna perché può irridere l’essere, l’essere che allontana il nulla e la morte dando significato alla vita e alle cose.

“La poesia non accetta la ragione del morire, non accetta la ragione come mezzo per vincere la morte. Per la poesia niente vince la morte, se non, momentaneamente, l’amore. Solo l’amore. Ma l’amore disperato, l’amore che va anch’esso, in modo irremissibile, verso la morte.” (p. 54)

Filosofi e poeti usano entrambi il logos, ma in maniera scissa, perché la poesia, pur essendo parola, non è ragionevole.

“Il poeta (…) è posseduto dalla bellezza nel suo risplendere, dalla bellezza che brilla e risalta sopra ogni altra cosa. E sa, anzi è l’unico che non potrà mai dimenticarlo, che dovrà cessare di vederla, di godere del suo splendore. Il poeta si è, per propria sventura, votato a una divinità peritura, nel doppio senso del termine: in quanto la vedremo sparire davanti ai nostri occhi e anche noi svaniremo in quel luogo dove questa non sarà più. (…) Il poeta non fa altro: si mantiene all’erta fino allo struggimento di fronte ai mutamenti, ai tremendi e minimi mutamenti in cui le cose nascono, periscono, si consumano.” (p. 57)

Che modo diverso di atteggiarsi di fronte al mondo e a se stessi – inevitabilmente intrisi dal destino di morte - tra i due cultori della parola, i quali componendo e ricomponendo l’assente, ciò appunto che la parola richiama in vita, intessono un labile discorso.

“Il nodo vero è lì, nella morte. Il filosofo disdegna le apparenze in quanto le sa periture. Anche il poeta lo sa ed è il motivo per cui vi si aggrappa, le piange prima ancora che trascorrano, le possiede e già le piange, perché già nel possesso vive la perdita.” (p. 58)

Il filosofo diventa ascetico nella sua scelta di essere fedele all’unicità dell’essere, perché cercando l’essere trova se stesso e si pone così al riparo dalle intemperie del sogno e delle passioni, dalle sorprese e scuotimenti del dono, dal ricevere per grazia. Decidendo salva se stesso. Il poeta no. “Non si sente manchevole come il filosofo, anzi, in eccesso, carico, con un carico, è vero, che non comprende. E’ il motivo per cui lo deve esprimere, deve parlare “senza sapere quel che dice”, come gli viene rimproverato. E la sua gloria consiste nel non saperlo, perché, in tal modo, si rivela di molto superiore all’intelletto umano la parola che dalla sua bocca esce; in tal modo ci mostra che è più che umano quel che nel suo corpo abita.” (p. 61)

In ciò il poeta è irresponsabile e immorale, ma questa è anche la sua generosità nel darsi così come la parola lo ispira, nell’essere servo della parola e non proprietario dei pensieri che vuole imporre. Mentre il filosofo mira al possesso della parola, la piega ai suoi fini, il poeta ne è schiavo: “Vuole, vuole delirare, perché nel delirio la parola germoglia in tutta la sua purezza originaria.” (p. 62)

In questo anche il poeta ha una sua etica, l’etica del darsi fino al martirio, insensatamente solidale con ciò che la vita dà, totalmente disponibile a prendersi cura del mondo. Paradossalmente, perché in questa indecisione, in questa mancanza di giudizio – in questa in-giustizia – si appalesa apparentemente priva di moralità.

“Ha ragione Platone: poeta e poesia, poiché sono immorali, sono fuori dalla giustizia. Di fronte – e questi “di fronte” li vede il filosofo e non il poeta – all’unità scoperta dal pensiero, la poesia si aggrappa alla dispersione. Di fronte all’essere, cerca di fissare unicamente le apparenze. E di fronte alla ragione e alla legge, la forza irresistibile delle passioni, la frenesia. Di fronte al logos, il parlare delirante. Di fronte alla vigilanza della ragione, alla preoccupazione del filosofo, l’ubriachezza perenne. E di fronte a ciò che è atemporale, ciò che si intesse e si disfa nel tempo. Oblia ciò che il filosofo ricorda, ed è la memoria stessa di ciò che il filosofo oblia. Vagabondo, errante, non si decide mai, per lealtà ad oscure divinità, con le quali neppure lotta per scoprirne il volto. E la poesia non si dà in premio a coloro i quali metodicamente la cercano, ma accorre a darsi perfino a coloro i quali non l’hanno mai cercata; si dà a tutti ed è diversa per ciascuno. Certamente è immorale. E’ immorale come la carne stessa.” (p. 65)

III. Mistica e poesia

La poesia si immerge nella vita, o meglio accoglie la vita che le viene incontro, ne condivide disperatamente e amorevolmente la caducità, la vanità, l’esiziale volgere (perché in questa pietas riconosce forse la propria creaturalità, ama se stesso riconoscendosi parte dell’umanità). Maria Zambrano lo afferma con nettezza: “La poesia è stata, in tutti i tempi, vivere secondo la carne.” (p. 67) Pronta, si potrebbe aggiungere, a decadere con la carne.

Il filosofo è invece pronto alla morte proprio perché si separa dal corpo, dall’inganno delle ombre proiettate nella caverna, dalla follia della carne.

E qui, in questo risvolto contrastato di ragione/sentimento, la filosofa di Malaga apparenta il pensiero greco e il cristianesimo paolino, che danno vita, nel loro incontro, a una forma di ragione, di mistica della ragione, che a lungo intriderà la cultura occidentale. Ragione che è nella natura stessa dell’uomo, per cui attraverso di essa la filosofia realizza “l’incontro dell’anima con se stessa, la riscoperta della propria natura.” (p. 71)

In questa “mistica” del filosofo-teologo Platone si consuma il dissidio insanabile con la poesia. La filosofia vuole salvare la carne e l’anima lacerata dalle passioni, portando a unità attraverso la loro idealizzazione ciò che la poesia piange come inevitabile perdita e distruzione. “Perché la poesia – e soprattutto la poesia lirica – era in Grecia pianto, agonia dell’anima di fronte alla realtà amata che dilegua. Pianto di fronte a ogni cosa: di fronte al dolore, di fronte al piacere, di fronte all’amore, all’amore soprattutto. La questione vera è lì, nell’amore.” (p. 79)

La Zambrano colloca qui, nell’amore insensato, l’aspetto più alto del poeta il quale, a differenza del filosofo che si autodefinisce filo-sofo, non sa come definirsi e forse non lo desidera nemmeno. Come può infatti de-finirsi il poeta? “Perso nella luce, errante nella bellezza, povero per eccesso, folle per troppa ragione, peccatore in stato di grazia (…) il poeta nuota nell’abbondanza e nell’eccesso. Forse è proprio questa sovrabbondanza che gli impedisce di scegliere. Vivendo inondato di grazia non può raccogliersi in sé, cercare di essere se stesso e neanche sa di questo ‘se stesso’ che è invece l’ossessione del filosofo. Perso nella ricchezza, cieco nella luce, peccatore in stato di grazia, egli vive secondo la carne e la carità.” (p. 81)

Sapendo che il poeta è umile verso la vita e i suoi misteri e caritatevole verso i compagni di strada, lo proietta su un piano oltre-mondano: “Il poeta vive secondo la carne, anzi all’interno di essa. Ma la penetra a poco a poco, si insinua al suo interno, s’impadronisce dei suoi segreti e, rendendola trasparente, la spiritualizza. La conquista a vantaggio dell’uomo, poiché l’accoglie in sé assorbendola, eliminando l’estraneità. Poesia è, sì, lotta con la carne, relazione intima con essa, che da peccato – la ‘follia del corpo’ – conduce alla carità. Carità, amore per la carne propria e altrui. Carità che non può decidersi a recidere i legami che uniscono l’uomo con tutto ciò che è vivo, compagno d’origine e creazione.” (p.80)

Il pensiero di Platone giunge, per la Zambrano, alla soglia del pensiero cristiano, si incrocia con esso, anche se – sottolinea – il filosofo greco non pronuncia (gli è precluso) due parole chiave del cristianesimo: peccato e carità. “Siamo grati a Platone per il Simposio, per il Fedro. Grazie ad essi l’amore si è salvato dalla totale distruzione. Nell’ascetismo dominante che legò filosofia greca e religione cristiana, l’amore e il suo culto, la religione dell’amore, l’antica religione dell’amore, dei misteri, trovò un proprio luogo. Attraverso il pensiero platonico non solo si uniscono filosofia greca e cristianesimo, ma anche la religione dell’amore e dell’anima, che esisteva sotto diversi nomi, con il cristianesimo.” (p.84)

Su questo punto l’opinione di Maria Zambrano è precisa: “Senza questo pensiero mediatore, tale religione sarebbe stata annientata completamente, occultata e forse avrebbe prodotto gravi disordini attraverso inesplicabili apparizioni, parziali e disperate.” (p. 84) E’ grazie al platonismo che “l’amore ha potuto elevarsi a categoria intellettuale e sociale. Si è potuto amare senza che questo costituisse qualcosa di scandaloso.” (p. 85)

Tale consapevolezza apre la strada ad un incontro imprevisto: tra poesia e cristianesimo. “Grazie alla salvazione dell’amore, la poesia ha potuto sopravvivere all’interno della cultura ascetica del cristianesimo”. (p.85)

Le prime poesie a noi giunte incontrano la donna, la vergine, perché anch’essa, idealizzata, - e qui si rinvengono ascendenze platoniche - è stata salvata. La quintessenza della poesia ascetica, anzi la più poetica e platonica di tutta l’umana poesia, è contenuta – per la Zambrano - nel Cántico espirtual di Juan de la Cruz:

¡ Oh cristalina fuente,
si en esos tus semblantes plateados
formases de repente
los ojos deseados
que tengo en mis entrañas dibujados !

(Oh fonte cristallina,
se in quelle tue sembianze argentate
tu formassi d’un tratto
gli occhi desiderati
che nelle viscere porto disegnati!)

IV. Poesia e metafisica

Ciò che nella Repubblica è inconciliabile, sembra ricomporsi quindi nel Simposio e nel Fedro, ma non si tratta di un incontro felice, per quanto non privo, come si è visto, di feconde ricadute: la poesia viene ricompresa nel dominio della ragione.

Bisogna aspettare parecchi secoli, fino a Dante Alighieri, per ritrovare una piena riconciliazione tra i due versanti della parola, anzi tra sogno, pensiero e teologia. La Divina Commedia è una fusione irripetibile di filosofia, poesia, religione. E’ la grande stagione italiana della letteratura e dell’arte che prosegue fino a Leonardo, il genio di Vinci che Maria Zambrano definisce, non a caso, il più platonico dei pittori.

Ma l’armonia rinascimentale viene presto travolta dalla modernità, quando si affaccia una nuova speranza molto più prossima e afferrabile: questo mondo. “Avere in questo mondo tutto ciò che avevamo approntato per l’altro. Godere al di qua del tempo, delle cose che ci erano state così ragionevolmente promesse solo a condizione di attraversare la soglia della morte. Saltare quindi il lungo cammino dell’ascesi.” (p. 91)

E’ la stagione in cui si afferma l’individualità. La conoscenza trova il suo fondamento nell’individuo, nell’autonomia kantiana della coscienza. In quest’affermazione dell’autonomia della persona l’individuo si sente addirittura “creatore”.

“Questo era, a quanto sembra, il programma del pensiero; programma francamente religioso. La ragione procedeva nell’alveo di una smisurata ambizione religiosa. L’uomo voleva essere. Essere creatore e libero. E continuando: essere unico. Sono i passaggi, senza dubbio decisivi nella storia moderna, di ciò che chiamiamo Europa. E la sua angoscia e tragedia.” (p. 93)

La centralità dell’arte e del genio artistico ci porta nel cuore del Romanticismo, dove “filosofia e poesia si abbracciano, arrivando in alcuni momenti a fondersi con furia appassionata: come amanti da lungo tempo separati che s’incontrino presentendo che la loro unione non sarà duratura, si fondono con quella passione che precede la morte (…)”. (p. 94)

Tuttavia dopo Shelling, Victor Hugo, Novalis, H?lderlin si assiste, per la Zambrano, a un cambiamento di rotta. Con Baudelaire e Kierkegaard – non a caso pensatori-poeti – il poeta prende coscienza di sé, esprime una consapevolezza del proprio ruolo, una propria etica (stavolta esplicita, consapevole). La poesia, diventando essa stessa pensiero, non ha più bisogno della filosofia. Le due muse, ognuna bastante a se stessa, colme della propria ricerca, divergono di nuovo per non più congiungersi (almeno fino al 1939, quando Filosofia e poesia vede per la prima volta la luce).

Paul Valery rappresenta l’acme di questa nuova acquisizione delineando la “poesia pura”, che basta a se stessa. Una poesia che non perde la dimensione del sogno, ma che diventa cosciente del proprio delirio.

“La situazione è quindi completamente mutata, rispetto ai tempi della Grecia. Il poeta non è più fuori dalla ragione, né fuori dall’etica; ha la propria teoria e la propria etica, da lui stesso scoperte, non dal filosofo. Il poeta è, è tanto quanto chi fa metafisica. Entrambi fanno qualcosa di essenziale, che sembra essere sufficiente a se stesso”. (p. 99)

L’uomo, il filosofo, nel suo radicale voler essere, nell’intento di spiegare tutto scopre, avvolto su se stesso, l’angoscia, che – afferma la Zambrano – è la radice originaria della filosofia. La costruzione di un sistema di pensiero è la risposta (onnipotente?) all’angoscia del vivere e del morire.

Anche la poesia incontra l’angoscia, ma è l’angoscia della creazione, dello sforzo (“giustizia caritativa”) di far essere ciò che non è riuscita ad essere: “continuità della creazione”. (p.102) Il poeta si proietta così “oltre” l’uomo. “Non c’è pericolo nell’angoscia del poeta, né minaccia alcuna, ma soltanto timore, il ‘santo timore’ che ci viene dal sentirci obbligati a qualcosa che, sollevandoci al di sopra di noi stessi, ci condanna ad essere più che uomini”. (p. 103)

L’uscita dall’angoscia creativa, che svelando il cuore dell’uomo lo proietta in una dimensione ulteriore, può avvenire attraverso l’azione, la potenza, la violenza. Ma il poeta non corre questo pericolo, perché “è incatenato dall’incanto e non arriva alla concretizzazione del potere”; si porge piuttosto alla realizzazione dell’amore. L’angoscia risveglia il poeta dall’innocenza originaria e lo induce a creare il proprio oggetto con sguardo amorevole.

“Il poeta, poiché non vuole esistere senza altro, senza altro che lo oltrepassi, si volge verso quel luogo da cui proviene. La poesia vuole riconquistare il sogno originario, quando l’uomo non si era destato nella caduta; il sogno dell’innocenza anteriore alla pubertà. Poesia è reintegrazione, riconciliazione, abbraccio che serra in unità l’essere umano con il sogno da cui proviene, cancellando le distanze. La metafisica, invece, è un allontanamento costante da questo sogno originario. Il filosofo crede che solo allontanandosi, solo immergendosi nell’abisso della libertà, solo rimanendo fino alla fine se stesso, sarà salvato, sarà.” (p. 109).

La poesia canta l’innocenza eternizzandola, perché il suo scopo è “condividere il sogno, rendere comunicabile l’innocenza primigenia; condividere la solitudine disfacendo [deshaciendo1] la vita, percorrendo il tempo in senso contrario, disfacendo [deshaciendo] i passi; struggendosi [desviviéndosé].” (p. 110)

E la filosofia? Essa “è, in un certo senso, la vera storia: mostra quel che di veramente decisivo sia accaduto all’uomo. Ma la poesia manifesta ciò che l’uomo è, senza che nulla gli sia accaduto.” (p. 111)

V. Poesia

Se la filosofia passeggia nella storia e la poesia abita un presente inquieto con l’animo intriso delle origini, i poeti sembrano destinati a farsi carico non delle interpretazioni del mondo, dell’ermeneutica della vita, quanto piuttosto della cura del mondo, dell’adesione piena a un’avventura collettiva che si dispiega in una solidale comprensione di sé negli altri.

“La poesia è fuga e ricerca, bisogno e spavento; un andare e ritornare, un chiamare per fuggire; un’angoscia senza limiti e un amore esteso. Non può neanche concentrarsi sulle origini, perché ormai ama il mondo e le sue creature e non troverà riposo fin quando tutto con lui non si sarà reintegrato nelle origini. Amore di figlio, di amante. E amore anche di fratello. Non solo vuole ritornare alle vagheggiate origini, ma vuole, necessita di ritornarci con tutti, e potrà farlo solo in compagnia, tra i pellegrini il cui volto ha visto da vicino, il cui respiro ha sentito accanto al suo, nella fatica del cammino, e le cui labbra secche dalla sete ha voluto, senza riuscirvi, inumidire. Perché non vuole la propria individualità, ma la comunità. La totale reintegrazione; in definitiva: la pura vittoria dell’amore.” (p. 118)

La poesia è, per questa dimensione “ulteriore” e universale, assimilabile a una religione? Vi sono varie religioni, argomenta la Zambrano, e va segnalata “la differenza immensa che passa tra l’atteggiamento di chi vuole assediare la grazie divina, forzandola con atti sacrificali o con buone azioni deliberatamente compiute, e quell’atro atteggiamento, che è da innamorato, da amante che sa aspettare senza forzare il momento, senza porre in atto nessuno dei mezzi di cui dispone per obbligare la volontà onnipotente. Sempre onnipotente appare all’amante la volontà dell’amato. (…) E per questo il poeta si conserva vuoto, disponibile, sempre. (…) Il poeta ha da sempre saputo ciò che il filosofo ha ignorato, cioè che non è possibile possedersi da sé.” (p. 119)

Il pensiero poetante della filosofa spagnola indugia sulla soglia della contemplazione, un versante spirituale dai forti echi evangelici, da cui il poeta si affaccia sulla vita e, oltrepassandola, s’immerge, disappropriandosi, nella pienezza dell’amore, in una dimensione oblativa che apre a esperienze e conoscenze altrimenti inattingibili.

“Da sempre il poeta sapeva che avrebbe conseguito l’unità solo uscendo da sé, dandosi, obliandosi. “E non ho più greggi / né altro uffizio; / ormai solo in amore è il mio esercizio” [Juan de la Cruz, Cantico espiritual]. Solo nell’amore, nel darsi assoluto, senza alcuna riserva, senza che rimanga nulla per sé. La poesia è un aprirsi dell’essere verso dentro e verso fuori al tempo stesso. E’ un udire nel silenzio e un vedere nell’oscurità. ‘La musica silenziosa, la solitudine sonora’ [Juan de la Cruz, Cantico espiritual].” (p. 120)

E a questo punto la Zambrano sembra voler riequilibrare il ruolo della filosofia riavvicinandolo, in una dimensione e funzione sociale, a quello della poesia, perché “non tutti i filosofi, non tutte le filosofie hanno significato un simile tremendo affanno individualistico o personalistico (…) Al contrario, è costitutivo di una maniera della filosofia – la più venerabile – il riferirsi alla totalità delle cose, non per staccarsi da esse, ma per affermarle. Non per evadere dal mondo, ma per sostenerlo.” (p. 122)

E affida ai due versanti privilegiati del logos che più interagiscono con il sé e con il mondo, compiti diversi e irrinunciabili: di discernimento e “riduzione” la filosofia, di esperienza e avanscoperta con mappe bianche la poesia.

“La parola della filosofia per smania di precisione, perseguendo la sicurezza, ha tracciato un cammino che non può attraversare tale inesauribile ricchezza. La parola irrazionale della poesia, per fedeltà a ciò che ha trovato, non traccia percorsi. Va come persa. Le due parole hanno la loro radice e la loro ragione.” (p. 125)

Lo spaesamento del poeta, sola via alla creazione, alla sorpresa, al nutrimento dell’anima non può essere lineare, passa e ripassa su luoghi già toccati, è un ritorno continuo alla fonte, un andare restando, un restare sempre in viaggio. La saggia filosofia procede, ha una direzione, accumula tragitti e consolida sapere.

“La parola della ragione ha percorso un tratto maggiore, si è affaticata, ma ha mietuto sicurezze. Quella della poesia sembra trovarsi, nonostante tutte le tappe percorse, nello stesso luogo da cui era partita.” (p. 126)

Potranno di nuovo incontrarsi? Maria Zambrano, che argomenta da filosofo con l’anima di poeta, riafferma (auspica) l’inevitabile attrazione: la filosofia che riconosce la verità come parziale “si avvicina al terreno della poesia. E la poesia, attraverso il martirio della lucidità, si approssima alla ragione.” (p. 126)

1 [Il verbo deshacer, come il verbo desvivirse, compare nell’opera di Jan de la Cruz]