Necessità dell'illusione di Massimo Morasso

Massimo Morasso 

NECESSITA' DELL'ILLUSIONE

Appunti sulla metafisica dell'immagine

in Rainer Maria Rilke, Inge Müller e Günter Eich  
 

Per quanto il mondo rapido si muti

come alle nuvole la forma,

ogni cosa compiuta torna

al fondo dell'antico. 

I versi iniziali del diciannovesimo sonetto a Orfeo di Rainer Maria Rilke lo dicono a chiare lettere: nonostante il destino di impermanenza del mondo e delle forme che lo costituiscono, oltre il mutamento "ogni cosa compiuta" persiste in un'altra dimensione, in uno spazio-tempo che è posto ab origine, al principio, al "fondo dell'antico". Tuttavia, la capacità, o meglio, forse, il mandato di consacrazione e celebrazione del canto sulla terra che il poeta afferma nella chiusa celeberrima ("Solo il canto levato sulla terra / consacra e celebra"), non gli ha impedito, più indietro nel testo, di affermare che  

i dolori non li si è conosciuti,

l'amore non lo si è imparato,

e ciò che nella morte ci allontana 

non ha deposto il velo. 

Il dolore, l'amore, la morte, "l'allontanamento" di noi a noi stessi e ai nostri cari nella morte, i novissimi laici, cioè, di Rainer Maria Rilke come di qualsiasi altro uomo interrogante, restano avvolti in un enigma insondabile, nascosti dietro al velo di Maya che assedia l'ordine del mondo, e in, quell'ordine, inscrive il contorno esistenzialmente "negativo" della legge naturale della metamorfosi.

Si può aggirare quel velo: puntando coraggiosamente gli occhi al cielo, verso le stelle. Tentando di scorgere, oltre le nuvole, qualche linea di fuga che, una volta ricongiunta nel pensiero, consenta di aprire l'animo all'infinità che aleggia al di là della nostra umana non-conoscenza.

Le "costellazioni" di cui ci parla Rilke giunto al culmine della sua maturità espressiva, cosa sono, dopotutto, se non luoghi di rispecchiamento, forme cave del nostro volto nelle quali ci è dato di imprimere il sigillo di un'astrale nostalgia?

Il "Cavaliere", per esempio, che Rilke evoca all'inizio dell'undicesimo Sonetto e nella più oscura, forse, delle Elegie duinesi, l'ultima - quel lungo respiro meditante di struggente e quasi insopportabile bellezza. O, sempre nella decima Elegia, la chiara M risplendente "che significa le Madri" nominata al termine di un percorso interiore in cui martirio e spoliazione coincidono con una caduca, paradossale felicità.

Il tema della coincidentia oppositorium, così come in ogni cammino mistico, chiama alla comunione simbolica di ciò che è distante. Fra il cavaliere e il cavallo scolpiti in coppia in quel mirabile sonetto c'è una identità che, in realtà, è un'identità nella differenza, e che è il segno, dunque, di un'oltranza ontologicamente irriducibile. E' in questo abisso letteralmente sconfinato che ha luogo il dramma in cui si strema senza fine la tesa, anelante natura dell'essere: 

Via e svolta. Ma uno strattone li accorda.

Nuove vastità. E i due sono uno. 

Ma lo sono? O non pensano entrambi

solo alla via che percorrono insieme?

Già non ha nome il divario tra tavola e pastura. 

Anche l'unione delle stelle mente.

Ma ci rallegri almeno per un attimo

credere alla figura. E' sufficiente.  

Eppure, in questo accordo non sembra esserci nessuna verità: perché i due non sono per davvero uno, perché fra tavola e pastura esiste un vuoto senza nome, perché anche l'unione delle stelle è una menzogna. Di un'ipotesi di comunione metafisica non resta adesso, a ben vedere, che la dura realtà di un'accresciuta consapevolezza: la necessità, per noi, dell'illusione. Il che, stando al poeta, deve bastare, poiché "noi siamo da tanto" (il "so weit sind wirs" della seconda Elegia), e a noi è concesso di spingerci fin qui, non oltre: credere, anche soltanto per un attimo, al sogno sovrumano che siamo in grado di concepire quando osserviamo le cose con gli occhi di fuoco dell'imaginatio vera.

Qui come ovunque in Europa, l'esilio e lo sradicamento sono coessenziali alla poesia della trasfigurazione. Non si comprende molto di una tradizione altissima della poesia occidentale (né dell'esperienza interiore che la presuppone) se non si hanno sensi per capire che la percezione della bellezza fa tutt'uno con lo stupore e il trasognamento, e con il senso preciso dell'inattingibilità di quel sacro che, in ogni cosa, permea e custodisce l'intimità del reale. Per poter dire, il poeta deve diventare visione, come l'Atteone di Bruno che negli Eroici furori da cacciatore diventa egli stesso preda.

Questa è la stessa grammatica che detta anche il passo contronatura di Inge Müller, un passo d'angelo caduto, benjaminianamente postumo alle vicende della storia e vicinissimo, piuttosto, alla sur-realtà dello spirito: 

io non ho paese tranne uno

non ne ho

non ne vedo

un passo dietro l'altro verso il vuoto

metto il nulla saldamente sotto i piedi

vedo il mio paese dall'inizio: grande

da raccogliere tutte le fatiche

e sollevarle tutte verso l'ampio

e ancora più lontano.

E i miei occhi

mi vedono con i vostri. 

Ma è proprio a partire dalla caduta che inizia quel percorso di orientamento à rebour che consente il rendimento di grazie e avvicina al tempo del raccolto, quando tutte le fatiche sfuggono alla presa della ragione calcolante e lo sguardo può esporsi, a propria volta, come un oggetto della visione. Anche se la realtà viene prima della sua nominazione, anche se la vita è più forte dell'immaginazione - come ha scritto Rilke in una lettera tarda, che sembra, del resto, contraddirne tante altre almeno altrettanto "rilkiane" - anche se la storia dell'homo faber e dei suoi tentativi di trovare casa risponde a quel destino di Auflösung cui vanno incontro tutti gli enti nel mondo creato (l'incipit della poesia della Müller suona così: "I paesi prima che li si nomini / vengono edificati, occupati e rovinati"), anche se il vuoto e il nulla in questo nostro mondo sublunare si danno come il viatico necessario (ma niente affatto sufficiente) alla katastrophé, allo strattone che accorda in nuove vastità di cui parla l'undicesimo sonetto a Orfeo. Il vero paese, è il paese dell'inizio. Ed è un paese sconfinato, questa atavica Ur-Land, uno spazio di auto-riconoscimento grande a sufficienza da raccogliere tutte le fatiche umane, e sollevarle, dantescamente, nell'ampio e nell'altezza.

Altrove, neppure accanto al cielo capovolto del sogno c'è salvezza, poiché la visione, sia essa diurna, notturna o vespertina, chiede al veggente uno sguardo inflessibilmente verticale - lo chiama a quello scatto conoscitivo in grazia del quale è possibile bruciare l'assedio delle immagini traendo profitto, nello spirito, dal doppio incontro della natura e dell'uomo:

Uccelli, in cerca di mangime,

trattengono la tua immagine sulla retina.

La portano ai lupi nella macchia,

dove si prepara l'alta marea

e si riuniscono gli squali. 

La sera ti

rassicurano i tramonti

e la gentilezza

che accende le finestre.

Ma tu sai quali palpebre

si sono aperte oltre le luci verdi.

Le vie d'uscita sono sorvegliate. 

Giocalo a dadi, ora che sei circondato,

contalo sui rami davanti alla finestra,

leggilo nelle linee della mano:

chi ordina l'attacco

ha a cuore anche la tua salvezza. 

I lupi al mattino perdono le tue tracce nella neve. 

Con un'inversione dei termini consueti del rapporto di conoscenza fra uomo e animale, in questi versi di Günter Eich sono gli uccelli, e i lupi, a trattenere l'immagine dell'uomo, non viceversa. All'uomo, con un gesto che avvicina il disilluso, lucidissimo Eich-Atteone al giovane morto della decima elegia di Rilke, tocca, piuttosto, il difficile compito di prendere per intero su di sé il peso della minaccia che lo circonda. In Assedio (suona così, con un laconismo che dà i brividi, il titolo della poesia) il palcoscenico interiore non è, in fondo, che l'esecuzione di una riconciliazione. Esposto alla visione, l'osservatore è diventato infatti il campo e l'esecuzione di un processo trascendentale. Più precisamente, si è trasformato in scena dove la naturalizzazione dell'umano e l'umanizzazione del naturale avvengono davanti ai nostri occhi nell'incontro del poeta con l'altro, con il vivente selvaggio, con il disumano in sé e fuori di sé che percorre e alimenta anche il suo sangue - con l'orrido, dunque, che seguita a pullulare nel vivo dal rilkiano "fondo dell'antico" come un'inevitabile, suppurante eredità. Al di là del lascito di un'ansiogena, allucinata ipercoscienza ("Ma tu sai quali palpebre / si sono aperte oltre le luci verdi. / Le vie d'uscita sono sorvegliate"), in questa scena insieme umana e sub-umana non resta, dunque, che il gioco inevitabilmente in perdita dell'inseguimento degli indizi terrestri, l'opportunità / ossessione di leggere le linee della vita entro un disegno antinomico di senso:  

Giocalo a dadi, ora che sei circondato,

contalo sui rami davanti alla finestra,

leggilo nelle linee della mano:

chi ordina l'attacco

ha a cuore anche la tua salvezza.

Ancora una volta, negando la realtà dell'illusione si è negata l'apertura all'orizzonte di conoscibilità proprio dell'ordine simbolico della mente, preludio e dono esso stesso di ogni metafisica poetante. Questo scacco del simbolico rivela l'insanabile lacerazione denunciata per tutti da Benjamin, quando nel trapasso, appunto, tra "simbolo" e "allegoria" ci ha insegnato a leggere una dialettica eccentrica in cui è implicita una radicale perdita di senso, un decadimento insieme dell'umano e della storia. Riconosciuto, qui, l'impossibile dell'unitotalità che oltre "le vie di uscita" stringerebbe in uno cosa, linguaggio e significato, più che il piglio gnomico e sentenzioso, leggendo e rileggendo la chiusa si avverte allora la povertà creaturale dell'esistenza umana - la quale, arcanamente oltre che "fisicamente" accerchiata, ottiene un contorno possibile soltanto nelle cifre letteralmente aleatorie in cui, oltre le porte della notte, traspare la legge di una strana, contrastata sapienza salvifica:

Giocalo a dadi, ora che sei circondato,

contalo sui rami davanti alla finestra,

leggilo nelle linee della mano:

chi ordina l'attacco

ha a cuore anche la tua salvezza. 

I lupi al mattino perdono le tue tracce nella neve. 
 

Ma a noi, alla fine, cosa importa che le forze ricondotte alla sovranità diurna dell'io sospendano il gioco al massacro fra spirito e natura se il destino delle immagini sta nella nostra impossibilità di accedere, per rivelazione, a quel mistero del quotidiano in cui si cela il segreto della nostra stessa vita?

n.b. I testi tradotti (integralmente o solo parzialmente) in questo scritto sono tratti da Rainer Maria Rilke, Sonette an Orpheus, in Samtliche Werke, Insel, Frankfurt am Main, 1955 sgg.; Inge Müller, Wenn ich schon sterben muB, Luchterhand, Darmstadt und Neuwied, 1986; Günter Eich, Botschaften des Regens, Suhrkamp, Frankfurt am Main,1955.