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Biennale Anterem di Poesia: 15 novembre 2008 - V appuntamento

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In questo incontro, la poesia verrà a trovarsi al centro di un grande evento multimediale che coinvolge artisti, filosofi, musicisti e videoartisti

ore 14.15 - 19.00, Biblioteca Civica, Spazio Nervi

DISCORDANZE

Grammatiche del pensiero tra poesia e filosofia



I poeti selezionati dalla Giuria del Premio
per la sezione “Raccolta inedita - Biblioteca Civica di Verona”
leggono i loro testi

Premiazione di Paolo Ferrari, vincitore della sezione

Rassegna internazionale di videoart, a cura di Sirio Tommasoli

Premiazione di Michele Ranchetti,
vincitore della sezione “Opere scelte - Regione Veneto”

Lettura scenica di Massimo Totola su testi di Michele Ranchetti

Musiche originali di Francesco Bellomi
ispirate alle opere vincitrici e ad altre esperienze del dire poetico

Interventi teorici di Stefano Baratta, Giorgio Bonacini,
Marco Dotti, Flavio Ermini, Susanna Mati, Marco Pacioni

Intervento musicale di Stefano Baratta, con Stefano Benini e Andrea Tarozzi i

Biennale Anterem 2008: i videoart di sabato 15 novembre 2008

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And, when the higher sky opens
di Taron Petrosyan con musica di Bach Grieg

Armenia, 2007
7’40”

“And, when the higher sky opens
God forbid that I, being not used to savor the light,
Melt like a candle, dissolve till the end, and disappear,”

Grigor Narekatsi (poeta e teologo armeno del decimo secolo)

Il cielo è lo spazio della libertà, delle aspirazioni più alte, del volo. E qui per raggiungerlo, per lanciarsi in volo si percorre un rito di gesti, di azioni ripetute minuziosamente in bianco e nero.È una musica dolce e suadente che sembra diretta dal muoversi attento delle braccia e delle mani mentre guidano i piccoli aerei a confrontarsi con gli uccelli nei frame che s’improvvisano per pochi istanti a colori. Il ritmo diventa quello dei piedi che si agitano in una sorta di danza. Disegnano cerchi nell’aria e sulla terra, questi piedi e quelle braccia. Fino allo stordimento? Fino a perdersi nell’orizzonte? Forse fino ad annullare il peso della gravità come nei lanci violenti dei velivoli, come negli sguardi incantati che si abbandonano all’oltre.

And when the higher sky opens 1   
And when the higher sky opens 2   
And when the higher sky opens 3   
And when the higher sky opens 4   




Baby love
di Miguel Estima

Musica: Supremes

Produzione: Cine-Clube de Avana

Portogallo, 2007
1’35”

Il sogno erotico di un giovane prete che si abbandona alle carezze di innumerevoli mani di donna che lo insaponano pulendolo nel contempo di ogni colpa in un minuto e mezzo allegro e liberatorio di musica e sensazioni epidermiche.

Baby love 1   
Baby love 2   
Baby love 3   
Baby love 4   




Ideal disease

di Marie Magescas

Musica: Abel Moreno

Francia, 2007
6’54”

Una croce luminosa e inclinata, disegnata in corsivo, è la scrittura grafica di questo videoart che ha nell’oralità del testo il complemento sonoro al ripetersi ossessivo delle immagini immerse nella musicalità di una marcia festosa che mi ricorda Fellini. Il tema è la morte o, meglio, quegli aspetti rituali che seguono alla morte e appartengono da sempre alle donne di casa. Le donne che ti fanno nascere, ti crescono e, alla fine, con la medesima amorevolezza, ti compongono il corpo senza vita per conservargli la dignità di mostrarsi, di avere un ultimo rapporto sociale.

Ideal disease 1   
Ideal disease 2   
Ideal disease 3   
Ideal disease 4   

 

Carlo Penati: cronaca in versi della giornata

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DISCCORDANZE A VERONA
POEMA ISTANTANEO – 15 NOVEMBRE 2008 (14,30 – 17,30)
Carlo Penati

 

Inizia l’incontro di Anterem

il tempo precipita
e non sapevo prima del dirupo
il sapore del confine
la materia da mordere
così aspra e succosa
non avrei voluto vedere
precipitare la luce
ma così è accaduto
e non poteva essere altro che questo
il destino del giorno
amo l’ebbrezza della sera
e il lento comunicare tra fratelli


Le prime letture al femminile

parla la poetessa alla poesia
come figlia ribelle all’improvviso
da leggere forte, a consolare
l’abbandono a lungo nei cassetti
o nel vuoto siderale di un hard disk
che l’avrebbe forse rimandata
poi, quando l’affetto ritorna
all’abbraccio carezzevole della parola

La grammatica della psicoanalisi

mille parole devo uccidere
per pronunciarne una
superstite per una scelta oculata
o soltanto casuale
da un contrappunto dialogico profondo
o una semplice interpunzione
per prendere il tempo necessario
per altri interrotti omicidi

più prezioso il rito della  vita
così consuma la civiltà se stessa
quando non diviene più il proprio inconscio

PAROLA IN COPPIA
la psicoanalisi prepara lo spazio
perchè nasca la parola e curi


 Ascoltando il trio jazzistico

flauti in danza su letto di piano
il menù del concerto nutriente
che passeggia allegro tra le parole
poesia di musica in poesia di versi
che accarezzano l’intero arco dei suoni
veloci scale ascendenti e precipizi
e lento librare dei tasti obbedienti
nasce l’armonia come parto profondo
il jazz è un ampio dialogo plurale

Paolo Ferrari si presenta

ormeggi fermi oltre la scomparsa
solo l’assenza diventa pensiero e relazione
riconoscersi dal lontano affetto
quando il corpo finalmente smateria


Francesco Bellomi al piano sulle tracce di Paolo Ferrari

intervallo di terza trascinato
la dominante dirige vigile l’accordo
verso il fondo subitaneo dei bassi
alterna l’ariosa nostalgia del ri-suono
al discrepante vuoto della nuova invenzione
fino all’ultimo inesauribile silenzio:
un ritorno senza alcuna partenza


Ascoltando una poetessa

sognare di ricordare
è solo un ritorno senza sosta
verso il tutto già vissuto
e il nulla che troveremo alla fine
morbido al tatto della mente
senza fulgore alcuno
solo il tenue richiamo dello spudorato calicanto


in cui si muove alla cieca
-    inconsapevolmente
la parola che non ha un approdo
nel vento

Si commentano le poesie di Ranchetti

discordanze è lontananza di cuori
o il solo modo, nella cesura,
di riconoscersi in ciò che non si è,
Il pianista esegue Ofelia di John Cage scritta nel 1946 e pubblicata nel 1977

paziente la musica di Cage
trent’anni d’attesa al suono
che il piano fraseggia in sequenza
di pieni armonici e di pause dense
incantabile racconto di note
che adescano l’ascolto
ne bevono l’afflato nei mezzopiani
e nei fortissimi scagliati nella sala
come fruste morbide di sogni
in ritmo di fabbrica e natura
interazione di mondi e coscienza
rimando, eco, affastello, rimbombo
cadenza di lento sicuro abbandono
la musica alfine poeta

La giovinezza in poesia

la parola matura come l’uomo
diventa piena, sapiente, narrante
soltanto col tempo e il lungo lavoro
come acerbo il racconto poetico
 di un giovane così capace d’invenzione
quanto indeciso nella scelta
e tutto affastella nei versi!

Si susseguono le letture poetiche

il rapido gioco narrante
di giovane fanciulla divertita

il pesante trascinar di parole attente
da voce interpretante,devoto lento

Il raffinato comporsi di parola-suono,
corso fremente di ossimori rime assonanze,
lusinga la bocca che pronuncia
l’oralità spiccata della sua materia


Il critico commenta Paolo Ferrari

le tracce attraversano il poema
lo popolano di universi paralleli
di percorsi che presto s’accorciano
e incrociando infiniti tracciamenti
danno prova di essere presenza e assenza
un brano corale in battere e levare
che ognuno incontra e lascia senza sosta
l’estinzione ci appassiona più
che l’accumulo incessante
ciò che manca è il punto
la privazione discordante degli accordi mancanti


La recita in salsa siciliana

mitraglia di parole in cantilena dolce
mantra di assonanze rapide e intonate
le cifre dell’origine macinate indenni
nel tributo al suono, innocente la parola
resta implosa sotto traccia
piazzista senz’argine del proprio abile sapere
una scrittura indotta da un monologo
ansante e incontinente


Bellomi esegue la propria composizione sulla figura geometrica del triangolo

triangolo in musica è suono
che tutt’attorno preme
lungo tre lati solo immaginari
che niente se non il silenzio
in sé scrupolosamente accolgono


Flavio Ermini rimemora Montano

la poesia discorda inospitata
ricerca inutilmente l’inconscio
del vasto mondo concavo
che in basso guarda e così
ereticamente s’innalza
nominando una volta per tutte
l’inaccaduto circadiano
della notte inapparente
cammino incerto verso l’affetto?
solo così si dispiega la partitura
improtetta del verso?
tutto si compie, e nulla è compiuto per sempre
il poeta riposa nella tomba
e riverbera la sua anima nella sala
impronta che la parola letta
sempre ingenuamente insegue

Filosofia versus Poesia: Platone e i poeti di Susanna Mati

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Biennale di Poesia Anterem, Biblioteca Civica di Verona, 15 Novembre 2008 

  Questo testo conserva talvolta nella sintassi il carattere di traccia

   per l’esposizione orale alla quale era originariamente destinato. 

L’Altro per eccellenza rispetto alla Filosofia: la Poesia, vera ‘amica stellare’. Una lunga tradizione filosofica ci conduce a quest’identificazione dell’amica-nemica: da Platone fino a Heidegger, passando per Leopardi, Hölderlin, la tradizione idealistico-romantica, ecc. Vicinanza-lontananza philosophia-poiesis: poeta e pensatore (“custodi della dimora dell’essere”) abitano vicini su due alture separatissime - stanno su due vertici alla stessa altezza, ma divisi. Si tratta della grande lotta interna al dire umano, di un’insistente rivalità che persiste nel corso dei millenni tra le due più alte espressioni della vita umana, poesia e filosofia, le quali da sempre si contendono il primato dello spirito in rapporto al tentativo di esprimere una/la verità. Nessun facile irenismo (l’ovvietà che “ognuno esprime la verità, una parte di essa, a modo proprio, col proprio linguaggio”), bensì lotta, agonismo, rivendicazione di una supremazia (Platone: ribadire la supremazia della philo-sophia, in quanto ricerca, ovvero sapere senza contenuto, superiore alle forme artistiche, così come alle produzioni della techne).

Qui sta la radice del problema (leibniziano-borgesiano, ma anche, tra l’altro, givoniano): filosofia come romanzo? Il romanzo è erede della fabula mitologica, passando per la Sage? E la filosofia è solo una narrazione, cioè un romanzo inconsapevole? Quell’Altro, insomma, è forse lo Stesso, il Medesimo? 

In Platone la poesia (tragica) è la grande nemica; sorge qui, sul crinale della più decisiva delle crisi e degli agoni, la «palaia diaphora» (Resp. X, 607 b), l’antico dissidio, l’“antica inimicizia” tra philosophia e poiesis – analoga al “sacro sgomento” col quale Nietzsche stava davanti all’atavica contesa tra arte e verità. Inizia la grande lotta che porta alla cosiddetta “condanna dell’arte” (libri II, III, e, con motivazioni diverse, Resp. X). (Platone riguardo all’arte è molto più provocatorio, più attuale, più produttivo ad es. della Poetica di Aristotele).

Chi è il poeta in Platone? Il poeta è un mentitore, un essere policefalo, multiforme, sfuggente come Proteo, un hypokrites: un mimetes. Problema della mimesis (Resp. X) = non tanto imitazione, quanto ri-produzione, cioè ri-creazione (ex novo, di fatto). La somiglianza col sofista è evidente, anche nell’abuso che entrambi fanno della potenza di apate, l’inganno - la psicagogia (II-III Resp.), la teo-logia falsa del mito e dei poeti. Poeta e sofista si sottraggono alla decisione inequivoca per la verità, da una parte grazie ad un relativismo o pragmatismo, dall’altra per la necessità dell’elemento illusorio proprio della coscienza estetica. Mentre la verità non è equivoca, come la congerie mitico-tragica vorrebbe farci credere, bensì univoca, secondo Platone. Nulla esisteva di tanto sottratto al principio di non-contraddizione (e a quasi tutti i principi della logica) come il racconto mitico, la fabula; le varianti mitiche sono dei veri ‘compossibili’ (a-dogmatismo della mitologia, tolleranza).

Platone invece combatte, ‘contraddice’ apate, la dea Apate, l’Inganno archetipico – Schelling: dal quale ha origine la mitologia – figlia della nera Notte (Esiodo, Teogonia): Ate – Apate – Peithò.

Nel testo platonico si attua una vera e propria critica della coscienza estetica, come nota finemente Gadamer (Platone e i poeti). L’esperienza vissuta dal rapsodo, dal poeta, e in ultimo dallo spettatore è già in se stessa – senza aggiungervi necessariamente la menzogna esplicita del detto – corruttrice per l’anima, portatrice di una falsa morale, di un traviamento insano; l’oblio estetico di sé consegna alla facile psicagogia delle passioni squilibranti, fa prendere il sopravvento alla parte irrazionale dell’anima, sovverte le gerarchie conoscitive: perde, disperde l’individuum. La mimesis artistica rende l’uomo doppio e molteplice, introduce consapevolmente in un mondo di finzioni condivise, pretende che si rinunci al sacro potere dell’autocoscienza, della vigilanza. La coscienza estetica ci espropria, portandoci fuori di noi, in ekstasis – come avviene al poeta, l’ape delle Muse che per sorte divina (theia moira) è en-theos e ek-phron (Ione, 534 b-c): nel dio, e fuori dal senno. 

E tuttavia Platone non può appunto rinunciare alla concezione greca secondo la quale il poeta è anche un essere divino: nel Fedro la mania è un dono divino, ben superiore alla stessa sophrosyne. Nello Ione la ‘sapienza’ poetica è considerata più vicina alla specie mantica – e alla potenza magnetica. È una theia dynamis, una forza divina a spingere il poeta, come accade per la pietra chiamata magnete; la quale non solo attrae a sé gli anelli di ferro, ma infonde loro una potenza tale che permette di esercitare lo stesso potere, quindi di attrarre altri anelli, in modo da formare una lunga catena magnetica di elementi collegati, partecipanti del medesimo influsso, caduti sotto lo stesso potere. Tutti gli anelli stanno da ultimo appesi al monstruum della Musa, e non è forse questa l’ultima delle ragioni per cui la parola poetica può mandare in perdizione. La Musa è il Magnete originario che rende ispirati, che in primis possiede; la poesia si origina infatti dal dio, conferma Platone, per poi passare attraverso gli entheoi, i posseduti, gli invasati; essi attingono alle fonti del miele delle Muse, portando a noi questi doni come api. I poeti dicono la verità appunto perché sono fuori di sé, “esseri eterei, alati, sacri”, la cui mente si è svuotata per esser capace di accogliere il divino: «all’ho theos autos estin ho legon»: ma colui che parla attraverso di loro è il dio stesso. Il poeta è dunque ‘solo’ un hermeneus, un mediatore ermetico del dio, un vate, un recipiente il cui dono divino consiste nel conservarci le parole dette dagli dèi (Ione, 533 d–535 a).

Ermetismo puro è la calamita-calamità della poesia. Ione: finale in cui Socrate chiede al rapsodo Ione se vuol esser detto un uomo ingiusto (adikos, senza equilibrio nell’anima, squilibrato, scorretto), oppure un uomo divino. Questa ambiguità rimane sempre indecisa in Platone. Il poeta cioè ci custodisce e ci trasmette la Parola divina della Musa (cfr. Mario Luzi, altezza della nominazione): e tuttavia il poeta mente. Non solo mente, ma non sa nemmeno dove stia la verità. Paradosso di un uomo divino, e ingiusto allo stesso tempo. 

Disposizione estetica (ovvero sospensione del ‘principio di realtà’, disponibilità all’illusione, cospirazione nell’inganno) ed estatica (ovvero svuotamento di sé per far posto alla voce divina, che s’impadronisce dell’anima, del daimon): queste due condizioni spossessano l’autocoscienza e l’equilibrio della psyche, rimuovono momentaneamente la sophrosyne, e sono richieste fino all’ultimo anello. Si deve cedere all’enthousiasmos, cedere alla presenza/parola del dio, disfarsi della mortalità per vivere nel tempo degli immortali, congiunti all’eterno – o almeno per fingerselo, affabulandosi, trasfigurandosi.

E tuttavia: questo atteggiamento è giusto? Partecipa di Dike, è conforme all’ordine corretto? Platone non ha dubbi: per l’anima, l’atteggiamento estetico è ingiusto; in quanto parziale, squilibrato, transitorio, ambiguo. Quest’atteggiamento richiede l’ambiguità della mania, fa dell’uomo un burattino degli dèi (o, che è lo stesso, delle sue stesse finzioni).

Solo per breve tempo l’uomo sopporta la presenza divina; altrettanto poco dura l’inganno. La condizione del poeta divino è dunque effimera (estremamente inadatta, dannosa per la fondazione di una polis-psyche giusta, armonica, equilibrata: ecco la ‘condanna’ nella Repubblica). Perché mai svuotarsi della mortalità, dimenticare la sua peculiare condizione, i suoi tremendi, costanti bisogni di appiglio, di misura, di sicurezza? Dovremmo forse comportarci o parlare come dèi? Dovremmo forse perderci nell’informe, nell’indeterminato, nell’aorgico del divino – ins Ungebundene, nell’absolutus? E quale ordine di verità proclameremo, tramite le parole della poesia? Non saranno, queste parole, sempre in contrasto con gli ordini reali-razionali che l’uomo si sforza di creare intorno a sé? E d’altra parte non avranno preventivamente dimenticato l’esistenza di una verità ultima, non affabulabile, scevra da inganno, semplicissimamente intelligibile? 

In conclusione, per poter essere poeta, bisogna decidere in noi stessi il filosofo. Non bisogna cioè farsi guidare dalla ‘volontà di verità’, e dall’empietà disincantante che essa comporta, ma al contrario essere disposti a farsi ingannare, a vivere la fabula dell’illusione, a cedere al potere magnetico, calamitante dell’arte.

Ma come potrà conciliarsi questo atteggiamento di sospensione estetica con la quieta, trasparente unità dell’essere vero, dell’essenzialissimo monoeides, che non ha bisogno di inganni? È per colpa della poiesis che si è costretti ad affermare l’essere del non-essere, è a causa dell’instabilità che essa insinua che tutte le cose precipitano in uno stato di oscillazione, e che va di conseguenza compiuto il parricidio della dottrina parmenidea (Sofista). L’essere si rivela tragicamente inconciliato, l’armonia è il luogo che manca ai nostri discorsi, e che essi rincorrono come la loro ulteriorità puramente possibile. E nonostante ciò, il poeta è e rimane un essere divino («aner theios», Ione 542 a), per quanto egli sia sicuramente adikos.

Le ragioni della condanna dell’arte sono dunque di due ordini: non è solo l’inganno della mimesis che Platone condanna (verso l’alto, per così dire, per motivi ontologici); è anche, specularmente (e verso il basso), il fatto che il sapere poetico è inadatto alla polis, alla sua fondazione, al suo realistico mantenimento. 

Il tragico è sicuramente la chiave del rapporto tra poesia e filosofia; non è infatti anche quella della filosofia una decisione tragica? Platone lo confessa apertamente: è per poter proseguire nel ragionamento (Rep. X, 608 a), per salvare la potenza razionale del logos (che è forma, ordinamento, distanza, salute), è per far questo che occorre bandire il poeta dalla polis. La sua, quella del filosofo, è la più tragica krisis, la più sconcertante rinuncia, la decisione più cruciale. Per non essere doppio, egli toglie-via, de-cide, rinuncia alla poesia. E la decide in se stesso. È dalla polis della psyche che Platone bandisce il poeta (tutta l’argomentazione della Repubblica è basata infatti sulla stretta e puntuale analogia tra città e anima): ma dopo averne assorbito tutte le capacità, dopo averne bevuto il nettare inebriante fino all’ultima goccia. (Il giovanissimo Platone, il miglior figlio dell’Esperia, bruciò tutte le tragedie da lui composte per poter convertirsi alla filosofia). Ed è con coscienza affilatissima che Platone non vuole più essere poeta.

Platone si strappa un pezzo d’anima. Decidere il poeta in se stesso pare dunque essere la tragica condizione per diventare filosofo.  

Tuttavia, nonostante la decisione di Platone, poesia e filosofia rimangono sorelle, e continuano lifelong a sorvegliarsi. Non a caso entrambe si emancipano, mediante un faticoso procedimento di chiarificazione, dalla radice comune del mythos – radice con cui i conti non saranno mai chiusi – dalla quale divergono già da sempre, discostandosene con l’atto stesso del loro sorgere, in un momento senza memoria, separandosi alla nascita. Poesia e filosofia, da Pindaro ai tragici a Eraclito o Pitagora, iniziano entrambe con una critica al mito (critica che prosegue in Platone, accentuata dalle motivazioni relative alla paideia), o meglio con un tentativo parallelo di catarsi di ciò che nel mito era inaccettabile. La poesia pretende di essere il vero mito, così come il mito è l’anima della tragedia.

Anche la filosofia, in un altro senso, pretende di essere il vero mito. Platone ‘mitologizza’ nel costruire la sua città – il suo è uno Stato nei discorsi, la cui possibilità è data dalla filosofia stessa, dall’ulteriorità possibile che questa indica. Per tacere ovviamente dell’uso esplicito dei miti

Se mythos è parola-racconto-discorso, origine muta di tutte le parole, allora entrambe ne partecipano come modi eccellenti di creazione, e le loro parole potranno ‘rispecchiare’ creativamente quell’indicibile, quell’originale mancante: entrambe funzioneranno cioè per mimesis, per ‘imitazione’ poietica, per ri-creazione, ri-produzione: entrambe saranno arti mimetico-tragiche, nelle quali la parola vola più alta possibile. Il poeta non potrà più parlare la parola della Musa, il filosofo non si appellerà a nessun fondamento. Tragico è l’(im)possibile ulteriore della poesia, non meno tragico è l’(im)possibile ulteriore della filosofia. 

E tuttavia: saranno per questo solidali, o addirittura simili? Sarà placata con così poco la loro rivalità? Al di là delle facili e apparenti sintonie tra poesia e filosofia, qui ci si gioca il dominio sulla parte più sublime dell’anima umana: e chi non è straziato dall’aut aut, ma anche dall’insondabile, misteriosissima solidarietà degli opposti, non è degno di esser detto né poeta né filosofo. È questa, scrive Leopardi, la “nemicizia giurata e mortale” tra poesia e filosofia, che ci rende insieme freddissimi ragionatori e ardentissimi poeti, in un’alternanza drammatica di incantesimo per via d’illusione e disincanto.

Per questo motivo, pensa il divino Platone, noi filosofi, quando giungeranno in città poeti tragici, i figli delle tenere Muse, gli ‘esseri divini’, riconosceremo tramite i loro espedienti i nostri antitechnoi, in loro stessi i nostri antagonistai nell’immane dramma della parola, e diremo loro: 

«Ottimi ospiti, noi stessi siamo poeti di una tragedia (hemeis esmen tragodias autoi poietai) che, nei limiti del possibile, è la più bella e la più nobile; tutta la nostra costituzione non è che imitazione della vita migliore e più bella (mimesis tou kallistou kai aristou biou), il che per noi costituisce in realtà la tragedia più vera (tragodian ten alethestaten). Voi siete poeti, e anche noi siamo poeti del medesimo genere, vostri rivali nell’arte, vostri antagonisti nella composizione del più bello dei drammi (Poietai men oun hymeis, poietai de kai hemeis esmen ton auton, hymin antitechnoi te kai antagonistai tou kallistou dramatos), che solo la vera legge (nomos) può condurre a compimento, secondo la nostra speranza (elpis)» (Leggi VII, 817 b).

  Susanna Mati
  • anno 2008: Dire la vita 1
  • Flavio Ermini

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