Olografia dell’erranza
Parlare di erranza quando, a partire dal titolo, l’opera Tavole e stanze di Ivan Schiavone ci conduce a immagini circoscritte sul foglio e nella realtà, potrebbe apparire incongruo. D’altro canto l’errare e il dimorare si mostrano, nella raccolta, quali polarità della condizione umana, in cui «randagio sotto il sole della mutazione va l’uomo» e le delimitazioni di rendono necessarie come «argine al nulla». Mappe etiche per affrontare la ferocia del presente storico, stanze esistenziali per assaporare l’abitare nell’altro. Dove non si smorza però la percezione dell’erranza, dell’estraneità esistenziale. E dove il linguaggio «è orma in cui l’uomo nominando incede / quale estraneo nella sua propria casa a cui la lingua non nasconde, ruba».
Quali tavole, quali stanze spalancano i versi? L’apertura delle tavole, da un atlante multiforme, illumina un quadro di assenza, scissione e sradicamento. E, insieme, un bisogno di riparazione, come in Giappone l’uso dell’oro per colmare le crepe di un vaso. Tavole e stanze preziose, allora. Riparatrici e riverberanti. Tavole e stanze del mondo. Del visibile e dell’oltre. Dell’uno, del mistero. Come della barbarie e della corruzione. Anche tavole e stanze interiori. A segnare la divisione dell’uomo dall’uno e il suo riflettersi nell’alterità. E ancora tavole e stanze della lingua, dove la parola veicola assenze e, «nel miraggio della totalità, veicola il proprio essere riflesso».
Il riflesso crea dislocamenti continui, riverberando una realtà a più dimensioni. Quasi fosse il fascio di raggi laser di un’olografia e, insieme, il suo riflesso speculare. Che la raccolta appaia simile ad un’olografia, come, del resto, dal suo etimo, diviene interpretabile fin dall’accento iniziale: «tutto nel tutto s’intrica e compenetra». Anche se poi la totalità è un miraggio e del reale non si conosce tutto, «soltanto gli istmi e i margini del nostro linguaggio / all’interno del quale solo accadono verità ente ed evento». Il fascio di luce appare allora essere la parola poetica. Nelle tavole e nelle stanze della lingua, nel loro montaggio labirintico, «attraverso la maieutica del discorso caotico», la parola di Ivan Schiavone mostra i suoi riverberi. Non solo riflessi però. La parola appare propriamente l’oro che, sul piano poetico, illumina. E, sul piano etico, ripara.
Da: postulati e apostasie
tutto nel tutto s’intrica e compenetra, dalla brama d’inerte della macchina
alle rotazioni lungo le ellittiche, mosso e irretito in una sola legge
l’infinitesimale e l’infinito, animato da un palpito, da un soffio
lo spirare manifesto nel verso di una bestia, nella lingua che traccia
un perimetro in cui la nostra psiche edifica, schermo al reale, il mondo
lucerna effimera per scarno lume contro le ampie volte della notte
***
non possiamo che trovare rifugio nell’immaginario e in esso abitare
poiché di tutto ciò che è a noi più prossimo la contemplazione ci annienterebbe
della realtà conosciamo soltanto gli istmi e i margini del nostro linguaggio
all’interno del quale solo accadono verità ente ed evento, ed il mondo
la disponibilità assoluta, è orma in cui l’uomo nominando incede
quale estraneo nella sua propria casa a cui la lingua non nasconde, ruba
Da: tavole da un atlante
dall’assenza, dalle scissioni, dall’anestesia, dai deradicamenti,
dall’ibrido; talmente fragili
che ogni passaggio di intensità minima — quando un vaso si rompe,
in Giappone, connettono le crepe con dell’oro
riparandolo
chiamano questa pratica kintsugi — come dopo forzata apnea il respiro
come quando comparsa l’ascia a un cavaliere
lasciate le redini
rimessosi all’istinto del cavallo
estinta la volontà
affidato a — tre gocce di sangue stillò sulla neve lo squarcio dell’oca ferita dal falco
il rosso ed il bianco (mysterium coniunctionis) —
per nostalgia della sposa perduta
di una fanciulla smarrita
che non impresse mai traccia sulla pelle del mondo
in cerca di un corpo
reale
e interiore al contempo
su cui verificare il collimare del riflesso — all’alba, attoniti, per stordimento
per il disparire lento dei fantasmi
all’acuminarsi dei raggi
tra le feritoie dei cumulonembi — per nostalgia di un futuro terso
ci siamo consegnati a vicenda testimonianze d’orrore
di dolore
quasi — sino al punto più estremo del viaggio
il ritorno
lì dove sorge la nostra casa
e a noi la nostra immagine assomiglia
***
a Adriano Padua
non sappiamo più nominare il fuoco
per non essere noi da tempo prossimi
al fuoco — o
per troppa prossimità al domestico
all’addomesticato — o per la vanità
uno dei modi della fame
uno dei modi della ferocia che dilania questo tempo
in cui agape è lo scandalo
aggressione l’abitudine — o come il giardiniere
che al ritmo circadiano della cura
contrasta con la forma il naturale — astro assurdo
sordo all’urlo
mezzato da un balcone
da un fiore in controluce — indugiando tra le crepe
tra le tracce materiali del conflitto
non tra crolli ma tra moniti ad occuparsi della statica
— e formiche che si agitano
tra i decori floreali di tovaglie impressionate
dalle cene e dagli avanzi — prestasti ascolto al suono e il mondo scruti
di quel dolore avendo pena
per compassione
all’ascesa rinunciasti — quando tra le navate di una fabbrica
l’empatia tra i bassi, l’alba e le sostanze assunte
disegnava le mappe chimiche dell’estasi — riposando in te sereno
in te radiosa tra i gesti minimi
di un quotidiano che la fame estingue
— nella convalescenza del cielo e dei suoi influssi
Da: variazioni artiche
da moto impercettibile i lembi discosti, frammenti
frammisti percorsi da fremiti tra il vasto ed il vano
pianissimo, poi piano si spaia
il bianco coeso, una linea affilata che si staglia
a orizzonte, scissura in cui filtra una luce da strozza
che scucendo riduce il paesaggio ad un raggio introflesso
a mosse menomate che alternano soste e latenze
al passo di una lenta carrozza
avvolta dall’alone soffuso emanato da un vano
nel piano elemento isolato che impressiona un tracciato
sull’elitra esile del ghiaccio
Da: cantico piano
soltanto per celare la dimora che a me fu disvelata dal tuo sguardo
la quiete in sé vibrò, per risonanza, e fu la luce, fu, dal cosmo all’atomo
la legge che sorregge la meccanica perfetta del reale, fu splendore
soltanto perché sia in stella binaria il nostro centro, i nostri fuochi e l’orbita
***
trasfigurato hai in iconostasi dei quotidiani oggetti la presenza
l’acqua, il tavolo, il letto, gli indumenti compresi nella luce per te acuita
che non adombra usata consuetudine di scale anzi rischiara, sino al limite
il punto a cui s’arresta la domanda e il dimorare è quiete ed evidenza
Ivan Schiavone (Roma, 1983) ha pubblicato : Enuegz ( Onyx, Roma 2010 e, in versione ebook, 2014), Strutture ( O èdi pus, Salerno/Milano 2011), Cassandra, un paesaggio ( O èdi pus, Salerno/Milano 2014), Tavole e stanze ( O èdi pus, Salerno/Milano 2019). Ha curato diverse rassegne letterarie tra cui Giardini d’inverno e Generazione y – poesia italiana ultima (da cui il documentario omonimo realizzato da Rai5); ha diretto, con la poetessa Sara Davidovics, la collana di materiali verbali Ex[t]ratione per le edizioni Polìmata. Dal 2016 dirige per la casa editrice O èdi pus la collana di poesia Croma k.