Non ancora corpi
della bestia amavi quel suo attendere tra le righe, sfuggire alla morsa del testo
quella forma che si aggira non è corpo e non è volto, è soffio e tensione di vita
nascondersi tra le sembianze dell’esserci e lacerare coi denti quella carne viva
pulsa per pochi istanti, sparsa nella grafite ai piedi del foglio, ferma nel verso
prima che il nome recida il cordone di una parola ferita, attesa di un divenire
tra filamenti e nervature, il segno impedisce di scorgere il filo appeso alle fibre
cosa muta, carezza e tremore dove il respiro è scrittura dell'essere incanto
corpo di argilla impastato con la saliva del tempo e lo sguardo fisso nell’aria,
soffio di musica nella mano, dove pensiero e vita scorrono via, e si penetrano
grido soffocato e silenzio dell’astinenza, sabbia trasparente svela il disegno
parola chiara ti svesti insicura in quel corpo non tuo, dipingi il volto ferito
chiuso tra le pieghe sanguinanti del mistero che lega il tempo all’eternità
alla pietra serena, al suo freddo esistere senza labbra e senza parole, essere
muto sguardo che avvolge e protegge, ti guida nella grotta dell’urlo iniziale
che spunta tra le nuvole e si affaccia sulla scena, sole femmina, opera rotonda
pancia di cielo, nel fango di quell'essere ancora informe, mani aperte bianche
sulla pietra scolpita, scavata nel nulla, di quello che fuori non ha ancora nome
antica misura di un essere informe, essere solo pensato, essenza di un sé salvato,
anima nuda sofferta che sale, procede lenta e piegata, arretra e cade, sollevata
prende corpo, si fa volto e impronta di un procedere senza lamenti, ferma nel cielo
luna maschio, schiena della notte, urla parole prima che sul sogno cali il sipario
dire favola femmina, dire ascoltare rotondo maschio, assecondare il corso
allentare le parole e attendere che tornino bianche, velami di vita nell'aria,
strisciare, dire strisciare con le pance e ruotare con i fianchi sui sassi piatti
espellere uova parola, albume femmina imbianca l'acqua, dire cicatrizza
imbuto maschio non permette di entrare, occlude il desiderio con il dito,
tralasciare si appiccica al senso corrente, ferma il suo movimento, avvolge
pulsare, per un solo attimo hai tenuto il pensiero libero dal non essere nato
si ritrae, non esce nel fuori, si lascia toccare non presa dal dire
chiamata si affloscia sollecitata a salire nel momento senza tempo
si raggomitola nell'esteso dell'innominabile luogo, si erge sospesa
finita nell'orizzontale apre di nuovo al possibile guardare, ripresa
sollecitata a salire si riempie di niente, espelle l'indicazione verso
non pronuncia il nome avvolge il senso nel ritirarsi dentro, piegata
avverte di essere sul punto di scorrere via, uscire dal testo inviolata
di nuovo in cammino, il passo è quello di sempre insicuro e sospeso
speranza e calore ancora di quel soffio, certo di un pulsare animale
parola tam-tam, parola urlo, cosa recisa sanguinante di puro senso
nascondersi dove il dire dorme tra le pietre, dove il nome è fuggito
velata nudità di un sogno, di un divenire carne, di un tramutarsi solo
sfuggire alla voce che invoca, nascondersi dove il verso è fuoco vivo
vegliare la morte e stendersi tra le parole tremanti, non ancora corpi.
Laura Caccia per Massimo Rizza
Ha la forza del risalire la corrente il dire poetico di Massimo Rizza. Immerso tra gli anfratti di un impasto primordiale in cui le parole non sono ancora voci,“non ancora corpi”. Dove, tra mistero e desiderio, è un tendere inesausto e insieme un ritrarsi, l’affacciarsi in una forma e subito spogliarsene. Un incessante passaggio tra fisicità e parola, corporeità e scrittura. Verso una nudità del dire che attende di essere portata alla luce e nello stesso tempo esige di rimanere occulta, nutrita da una tensione che insieme musica e lacera.
Quasi una contesa tra forze in opposizione: da un lato, il finito prevaricante del testo, dall’altro, “un pulsare animale /parola tam-tam, parola urlo” che sfugge e resiste. Dove il pulsare è soffio, tensione vitale infuocata e desiderante. Qualcosa di più, però, del solo portare in superficie il contrasto tra incorporeità e sembianze, essere informe e forme costituite. Qualcosa che piuttosto richiede di immergersi completamente nell’informe, colmo di sangue e di fango, saturo di assenza di nome e di senso, assumendo il contrasto come costitutivo dell’esserci e dello scrivere.
Qualcosa che esige di trattenerne il respiro, in un pensiero senza nascita, in una parola senza nome, e, nello stesso tempo, di renderlo possibile per sé, nella propria corporeità così come nella scrittura. Tra parole insieme incorporee e desideranti, residui dell’ardere muto, in attesa “dell’urlo iniziale”. In un processo, vitale e poetico, che tenta, tra gli anfratti dell’esistere e del dire, anche onirici e inconsci, di risalire fino al prima della parola, nel gorgo muto e infuocato, misterioso e lacerante che ne precorre il parto. Ancora prima di quella precedenza temporale che O. Mandel'stam attribuiva al sussurro rispetto alle labbra. Qui ancora prima. Prima della corporeità e del dire. Un prima radicale: un pre-dire “senza labbra e senza parole”.
Adelio Fusé per Massimo Rizza
Chi non ha ancora un corpo è, anzitutto, la parola prima di essere scritta. Eppure, quando acquisisce un corpo, lei, la parola, manifesta disagio ("parola chiara ti svesti insicura in quel corpo non tuo"); muovendo poi verso il senso delle cose, lei, che "si riempie di niente", si sottrae (la parola "avvolge il senso nel ritirarsi dentro").
A non avere un corpo è anche l'autore quando non scrive e attende "un pulsare animale / parola tam tam", la parola che si propaga e viene condivisa (sottintendendo il lettore, figura qui taciuta ma certo presente). La mano che scrive e la parola che pulsa sono un unico corpo. O, meglio, sono la ricerca di un corpo mai trovato come definitivo.
La parola è la protagonista di una storia inevitabilmente sempre in corso. Si acquatta, si manifesta, non si lascia imbrigliare ("della bestia amavi quel suo attendere fra le righe"). E siccome l'autore non è un predatore ma qualcuno che vuole capire, dopo averla attesa e provvisoriamente incontrata, sa di perderla fino al prossimo appuntamento.
La scelta del verso lungo con una inclinazione alla prosa (benché il testo sia in tutto e per tutto un testo poetico) si traduce in un andamento ipnotico costruito con perizia, di tempo moderato (tempo, qui, in senso musicale), che mescola i due versanti della realtà e del sogno. Del resto la parola, nel suo dire fuggevole, appartiene all'una e all'altro.
Massimo Rizza è nato a Sesto San Giovanni e vive a Segrate (Mi). E’ laureato in pedagogia e ha operato nel campo dell’istruzione in qualità di dirigente scolastico. E’ condirettore della rivista letteraria Il Segnale. Ha pubblicato la raccolta poetica Il veliero capovolto, Ed. Anterem (2016).
Nel 2017 ha vinto il Premio Letterario Interferenze, Bologna in lettere, per la sezione poesie inedite.
Suoi testi narrativi sono pubblicati in antologie e on line sul sito della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Testi di poesia, critica e saggistica sono apparsi su riviste letterarie italiane, tra le quali: “Anterem”, “Capoverso”, “Erba D'Arno”, “Il Segnale”, “l’immaginazione”, “Pagine”, “Scibbolet”.