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Aprile 2019, anno XVI, numero 43

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RIVISTA DI RICERCA LETTERARIA
 

Aprile 2019, anno XVI, numero 43

Prosegue in questo nuovo numero la pubblicazione degli autori che hanno caratterizzato l’edizione 2018 del Premio Lorenzo Montano, tutti presentati dall’intera redazione di “Anterem”: una bellissima istantanea scattata a una significativa parte di recente poesia italiana.

Il lavoro del Premio intorno alla poesia e alla prosa, attraverso opere edite e inedite, pone un’altra pietra nell’edificazione di uno spazio che continuerà a rimanere disponibile e aperto a tutti: la sua dimensione, in continua evoluzione, è testimoniata dall’ultima pagina di questo numero di “Carte nel vento”.

Andiamo avanti, con la 33^ edizione del “Montano” che scade il 15 aprile: scarica il bando

In copertina: Giorgio G. Adami, a sinistra “Astract”, a destra “Pittura paesaggio”; olio e smalti su carta.

(leggi tutto)

Viola Amarelli, da “Il cadavere felice”, Edizioni Sartoria Utopia, 2017, nota di Flavio Ermini

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L’impossibilità di mettere a fuoco le cose, e definirne i contorni e i particolari, si rivela come luogo d’incontro con il sé.

Si esplicita in un peculiare gioco di specchi e di cornici mobili. Impone al lettore di abbandonare lo stato d’immobilità e di lanciarsi in avanti, perché la chiave del pensiero va sempre trovata nella fluidità dell’erranza.

Quella che Viola Amarelli propone è una poetica che ha trovato la sua filosofia in quelle forme che, proprio per la loro indeterminatezza, richiedono parole assolutamente precise.

Sono parole su cui si fonda un poema scandito in due momenti: uno sguardo sull’esterno che preannuncia lo sguardo verso il proprio interno; e uno sguardo sull’estraneo che anticipa lo sguardo sul familiare.

 

 

Dalla sezione “Cronache”

 

*** 

le belle parole

le giuste

le sufficienti

quelle necessarie

finiscono nello stesso

punto dove nascono.

il silenzio – sipario


 

Dalla sezione “Dèmoni”

 

***

vi vedo dietro il vetro,

non vi tocco, un lucido delirio

l’urlo muto, pesci:

chi è il morto

morto morto morto

fare il morto sull’acqua

vivo

passa il sale

sale le scale avvolge il suono

emette e squaglia

gioia

per poco

siate siate

gioiosi

l’intento tenace
 

non s’ulcera più

lo sbrego, diruto
 

l’io spiritato,

arso, scomparso


 

***

aveva cuore, il sufficiente

ma l’anima, oh
quella, era venduta
e ne avvertivi

perfino in bocca

perfino tra le cosce

pallida l’evanescenza,

ammalorata.


 

***

uno sciame di mediocrità

ronzanti sulla polpa - quel che resta –

sull’osso, ma

il cadavere - dicono - felice
 


Viola Amarelli, campana, ha esordito con la raccolta di poesie “Fuorigioco” (2007, Joker), seguita dal monologo “Morgana” (2008, Vico Acitillo e-book), dal poemetto “Notizie dalla Pizia” (2009, Lietocolle), “Le nudecrudecose e altre faccende” (2011, L’arcolaio), i racconti di “Cartografie” (2013, Zona), le poesie di “L’ambasciatrice” (2015, autoprodotto) e di “Il cadavere felice” (2017, Sartoria Utopia), le prose in prosa di “Singoli plurali “(2016, Terra d’ulivi) e, in veste di co-autrice, “La deriva del continente” (2014, Transeuropa) e “La disarmata”(2014, CFR). È presente in numerose antologie, riviste cartacee e on line, suoi testi sono stati tradotti in Germania.

Daniele Barbieri, dalla raccolta inedita “cuore amore dolore”, nota di Giorgio Bonacini

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La poesia e l’amore da sempre intrecciano i loro cammini e si potrebbe anche pensare che siano nati insieme: quando la parola ha sentito che quel sommovimento psicofisico ha avuto necessità di dirsi. E da qui, il sovvertimento del comune senso di intelletto ed emozione, verso una trasformazione mai fissata e spesso sfuggente, si è legato alla sua pronuncia significante. Così, leggere in queste pagine versi come “voglio restare acquattato/nelle pieghe del tuo amore” come una mistica tenia/che si nutre di dolore”, non può non far scattare nella mente del lettore, la sensazione di essere dentro una meravigliosa turbolenza. Nella scrittura di Daniele Barbieri il dibattersi dei turbamenti produce un andamento ritmico punteggiato da scansioni sillabiche che risuonano al ritmo di un’ondulazione, che si inarca verso se stessa e allo stesso modo dentro una dissoluzione del senso, non mortificante ma rigenerante in “nome dell’amore”. La lingua poetica è gesto vocale fatto di una sostanza che, nella dimensione del sentimento, si fa materia: esistenza che configura lo stupore anche nella perdita d’amore, con una tensione netta, lì dove “il cuore piange nero grida bianco”. Dunque nessun sentimentalismo, neanche il più lucido o freddo. L’autore muove i suoi testi dentro un reale divorante: esattamente così com’è. Non tutto però, nell’impeto d’amore, può dirsi. C’è una pronuncia che resta lì, chiusa, nemmeno balbettante, più che muta. Per poi improvvisamente esplodere e trascinare con sé la trappola della passione: con una versificazione stringente, battente a rima alternata, in un galoppo fluido e spedito. Fino al paradosso più doloroso, dove “l’assenza di qualsiasi patire/è il patire più vero”.

 

 

Dalla sezione “Fiore”

 

è quello che voglio dire

è quello che voglio fare

è così che voglio incidere

è così che voglio amare

come un silenzio che grida

voglio entrare nel tuo cuore

come un grido nel rumore

voglio restarci invisibile

voglio restare acquattato

nelle pieghe del tuo amore

come una mistica tenia

che si nutre di dolore


 

Dalla sezione “Calore”

 

niente magia niente fate in questa storia, solo un grande

deus-ex-machina a sancire questa impossibilità

di separarli, e la tragica necessità di unirli

nel loro ultimo viaggio, ma, santo dio, e se avessero

continuato da lontano a vagheggiarsi, e lungo tempo ancora,

non sarebbe stato meglio, o è proprio l’amore quello

che consuma sino in fondo?


 

Dalla sezione “Rumore”


il frastuono della moto entra in mezzo alle note di

John Coltrane, passi giganti e le mie cose preferite,


quasi i Pink Floyd della madre atomo cuore, non l’ascolto

quasi la musica forse quasi la guardo composta


com’è di frammenti di memoria, frammenti di cose

che si chiamano tra loro, o si chiamano come me


hanno il mio nome, lo giocano in mezzo alle note di

qualsiasi musica, come un modulato ritornello


dove i fatti della vita sono voci di una fuga

di cui il pianista da molto tempo ha perduto il controllo



Daniele Barbieri vive quasi da sempre a Bologna, pur essendo nato non molto lontano, e insegna presso l’Accademia di Belle Arti.

Ha pubblicato, oltre a tanti articoli, diversi libri di carattere teorico sulla semiotica, sul fumetto e la comunicazione visiva, sulla musica e anche sulla poesia: Valvoforme valvocolori (Idea Books 1990), I linguaggi del fumetto (Bompiani 1991), Questioni di ritmo. L’analisi tensiva dei testi televisivi (Eri/Rai 1996), Nel corso del testo. Una teoria della tensione e del ritmo (Bompiani 2004), Tensioni, interpretazione, protonarratività (a cura di, numero monografico di VS, 98-99, 2004), L’ascolto musicale. Condotte, pratiche, grammatiche (a cura di, LIM 2008), Breve storia della letteratura a fumetti (Carocci 2009), Il pensiero disegnato. Saggi sulla letteratura a fumetti europea (Coniglio 2010), Guardare e leggere. La comunicazione visiva dalla pittura alla tipografia (Carocci 2011), Il linguaggio della poesia (Bompiani 2011), Maestri del fumetto (Tunuè 2012), Semiotica del fumetto (Carocci 2017). Ha pubblicato due raccolte di poesie: La nostra vita, e altro (Campanotto 2004) e Distonia (Kurumuny, 2018). Un’altra silloge, Canzonette, è apparsa nel volume collettivo Emozioni in marcia (Fara Editore 2015). Le sue poesie si possono leggere settimanalmente sul blog ancoraunaltrome.wordpress.com.

Altre info su di lui, e sue riflessioni sul mondo, all’indirizzo www.guardareleggere.net.

Simone Burratti, da “Progetto per S.”, Nuova Editrice Magenta, 2017, nota di Flavio Ermini

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Questo libro rappresenta un uscire sbattendo la porta. Un piegare con la forza i propri pensieri nel tempo e nel luogo della poesia, così distante dall’autismo omologato che caratterizza l’età moderna fin dal suo inizio.

È necessario un sempre più vigile senso di responsabilità nei confronti dell’essere umano.

Ma, attenzione, da questo lavoro non nasce un’astratta opera concettuale, bensì una casa imponente che consente un abitare che tanto assomiglia a un vivere poetico; un’acquisizione che non pone termine a una ricerca, ma al contrario le dà un senso e un impulso nuovi: descrivere quelle modalità della vita che rendono vivibile il nostro percorso terreno.


 

Quarti della notte

 

1.
Il cielo deve essere nuvoloso. Per il resto, può accadere in un momento qualsiasi della giornata. Lo sguardo si fissa su un punto imprecisato e le voci non sono piú importanti.

Allora c’è un salto nel tempo, e ci si ritrova già lungo la strada. Il passo è solenne e trascinato. Si procede a testa bassa, sotto un cielo minaccioso, nascondendosi il lampo negli occhi.

2.
In camera, sulla scrivania, il cervello si espande. Sotto la lampada si esibiscono le mani bianche. I polpastrelli provano il vetro del bicchiere, punto di ancoraggio di tutto il corpo; gli occhi si stringono con una sofferenza.

Ogni qualche minuto lo si porta alle labbra con la giusta, calibrata trascuratezza. Il liquido scivola lungo il sangue, fa rovesciare la testa all’indietro: in questo modo è possibile stiracchiare il collo e, nello stesso tempo, interrogare il soffitto.

3.
Voglia di uscire a cercare la notte. L’inquadratura si allontana, rivelando una spalla contro la colonna, mentre si resta attoniti col naso all’insú: il cielo si è liberato.

L’odore degli alberi, le stelle fisse: tutto torna a significare qualcosa. Ci si sente di nuovo bambini e si immaginano cose.


 

In a Landscape

 

Il cielo si trasforma sotto gli occhi di chi guarda,

è piú veloce degli alberi che crescono,

piú lento dello sguardo che lo passa in rassegna

cercando qualcos’altro, ma che sia sempre al di qua,

da questa parte concava del cielo,

e quindi facce, progetti, ombre, ricordi

di appuntamenti persi con il tempo, e ancora sagome,

aerei, dita puntate, sogni, proiezioni – nuvole:

la piú insulsa forma d’intrattenimento,

perché il cielo si trasforma continuamente,

e si spegne, di regola, e delude

come sempre le cose che si amano.


 

True Ending

 

È una mattina dopo un temporale senza tracce – un balcone troppo in basso, un’incapacità di intenti, una catastrofe avvertita e mai avvenuta. O forse qualcosa è avvenuto ma solo una mattina dopo l’altra, dietro le tapparelle degli occhi, lo stesso di quando i piedi hanno sentito il materasso troppo corto, e poi troppo usurato, e poi nessuna mamma o donna è piú comparsa sulla soglia della stanza, come un presentimento che si avvera. Comunque c’è il sole. Fili invisibili si tracciano e riflettono nella luce entro il paesaggio di una casa, un cortile, un appartamento residenziale collocato al limite con la campagna. L’uomo sorride con disinvoltura. In certi momenti la sua vita è stata come una cascata, adesso i lineamenti sono rilassati e netti, espressioni trattenute sul viso molto a lungo. Nessuna sensazione, nessuna paura umana, soltanto una presenza fuoricampo. Fuoco: una di quelle cose di cui non sente la mancanza. L’azione perduta di chi non rientra nell’inquadratura, di chi è già andato altrove, eclissando la memoria, senza lasciare altro che un’espressione di rimando, una storia o un’immagine. Nessuna sensazione, nessuna paura umana, soltanto una mancanza fuoricampo. C’è il sole, co- me se niente fosse. S. lo nasconde con l’icona del Cestino.
 


Simone Burratti (1990) studia e vive a Padova. È stato redattore del sito formavera. Sue poesie e traduzioni dall’inglese sono uscite su vari blog e riviste. Questa è la sua Opera Prima.

Rinaldo Caddeo, una prosa inedita “Il silenzio dei deportati”, nota di Davide Campi

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Quando il poeta entra nella storia, da poeta, con tutti i sensi aperti, con tutte le parole portatrici di pensiero, con la conoscenza, riesce in un sussurro penetrante a dire con forza di tremendi silenzi.

Quasi sottovoce, in un lascito testamentario.

All’attenzione di questo coinvolgente saggio breve c’è il silenzio, qui analizzato e sviscerato come effetto del contatto con il puro male dell’esistenza. A questo proposito Rinaldo Caddeo inizia e chiude il suo testo con riferimento alle drammatiche testimonianze di Liliana Segre; e ne coglie inedite analogie (letterarie) e differenze (storiche, antropologiche, morali) con i versi inerenti Ugolino della Divina Commedia dantesca e con quelli delle poesie del periodo bellico di Ungaretti.

 

 

Il silenzio dei deportati

 

È dagli anni ‘90 che Liliana Segre fornisce una testimonianza orale della persecuzione degli ebrei (dopo l’emanazione delle leggi razziali fasciste) e dell’internamento nei lager nazisti dopo l’8 settembre ’43. Nel 2018 questa testimonianza ha trovato un’articolazione biografica scritta con La memoria rende liberi (BUR) e con Fino a quando la mia stella brillerà (PIEMME).

Fin da subito la sua testimonianza di tredicenne sopravvissuta ad Auschwitz risulta nitida e puntuale, aderente a un vissuto unico ed esemplare. Sul numero del 4-5-94 del quotidiano La Repubblica, nella rubrica milanese la città della memoria (p.VII), questa testimonianza offre un angolo visuale interno su di una fase, la deportazione, di solito trascurata.

Dice nell’intervista: “I vagoni vennero sprangati e piombati. Ci guardammo intorno, c' era solo un po' di paglia per terra e un secchio per gli escrementi, che ben presto si riempì debordando. All'inizio si sentiva piangere, gridare, alcuni chiedevano aiuto, i più fortunati pregavano. Nei giorni seguenti, invece, ci fu un silenzio solenne, si sentiva soltanto il rumore del treno, che implacabile ci avvicinava all' inferno a cui eravamo destinati e che ci allontanava sempre di più dalle nostre vite. Io e mio padre trovammo un angolino di parete a cui appoggiarci e, stretti una all'altro, non avevamo più bisogno di parlare: fu silenzio per sei giorni, gli ultimi della nostra vita insieme.

La mattina del 6 febbraio, il treno si fermò definitivamente alla rampa di arrivo di Auschwitz”.

Consegnata a Dante e a noi da Ugolino stesso, la "straordinaria umanità ed inumanità della storia di Ugolino", (Attilio Momigliano), non ha perso di intensità. Anzi, dopo sette secoli, riverbera un nuovo stigma euristico paradigmatico.

Entrambi i testi scandiscono le tappe di un viaggio nell’aldilà nella dimensione di una discesa agli inferi. Sia nella narrazione dantesca, sia in quella di Segre, si possono riconoscere quattro fasi: 1) l’atto della reclusione definitiva, 2) lo sguardo della fine, 3) il pianto, 4) il silenzio:

1) l'atto di una separazione ermetica e reclusione definitiva dal consorzio umano civile. In Segre: "i vagoni vennero sprangati e piombati".

In Ugolino: "e io senti' chiavar l'uscio di sotto/ a l'orribile torre".

2) L'atto di un guardare-guardarsi che identifica l’irreparabile.

In Segre: "Ci guardammo intorno".

In Ugolino: "ond' io guardai/ nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto".

3) il pianto della disperazione, l'invocazione dell'aiuto:

In Segre: "All'inizio si sentiva piangere, gridare, alcuni chiedevano aiuto, i più fortunati pregavano."

In Ugolino: "Io non piangea, sì dentro impetrai:/ piangevan elli”.

4) il silenzio. In Segre: "Nei giorni seguenti, invece, ci fu un silenzio solenne, si sentiva soltanto il rumore del treno, che implacabile ci avvicinava all'inferno a cui eravamo destinati e che ci allontanava sempre di più dalle nostre vite."
In Ugolino: "Queta'mi allor per non farli più tristi;/ lo dì e l'altro stemmo tutti muti;/ Ahi dura terra, perché non t'apristi?"

Silenzio sillabato dal rintocco meccanico delle rotaie nel carcere mobile del vagone piombato. Scandito, nella torre della muda, dall'alternarsi impassibile del giorno e della notte. Non è soltanto un silenzio provocato dall'esaurimento delle forze, c’è un silenzio più profondo. Un silenzio abissale che avvolge tutto e tutti. Un silenzio che toglie l'ultima parola rimasta in gola. Il silenzio dell'implacabile. Dante, con la bocca di Ugolino, dice: stemmo tutti muti. Nel mutismo c'è il sigillo di una chiusura senza scampo. Nella testimonianza della Segre il silenzio assume un senso ulteriore, che apre un'altra possibilità: “Io e mio padre trovammo un angolino di parete a cui appoggiarci e, stretti una all'altro, non avevamo più bisogno di parlare: fu silenzio per sei giorni, gli ultimi della nostra vita insieme”. Un silenzio ambivalente. Quando tutto diventa segno di morte e annuncia morte, ogni grido o parola consumati, non resta che la rinuncia a ogni segnale, il ritrarsi in un guscio interiore, in un ultimo, concavo, ricettacolo di sopravvivenza: il silenzio di un risparmio vitale, avvolto da un tutto fatto di morte, ultimo barlume di speranza. Silenzio della soglia tra vita e morte. Sigillo dell'assoluto, da salvaguardare nello scrigno più remoto e profondo di sé. Silenzio solenne, lo definisce la Segre. Silenzio auto-difensivo e sacro-rituale, rito di passaggio da un mondo a un altro mondo, con altre regole, altre segnaletiche, altri significati. Ne parla anche De Benedetti: "Il treno si mosse alle 14. Una giovane che veniva da Milano per raggiungere i suoi parenti a Roma, racconta che a Fara Sabina (ma più probabilmente a Orte) incrociò il «treno piombato», da cui uscivano voci di purgatorio. Di là dalla grata di uno dei carri, le parve di riconoscere il viso di una bambina sua parente. Tentò di chiamarla, ma un altro viso si avvicinò alla grata, e le accennò di tacere. Questo invito al silenzio, a non tentare più di rimetterli nel consorzio umano, è l'ultima parola, l'ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro." (Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, Sellerio, Pa. 1993, p.63).

 

Di silenzio ci parlano altri capitoli della testimonianza di Liliana Segre sia in La memoria rende liberi, sia in Fino a quando la mia stella brillerà. C’è il silenzio dell’indifferenza degli spettatori, di chi si volta dall’altra parte, c’è il silenzio dell’angoscia senza scampo degli internati nei lager. È il silenzio nullificante degli uomini fantasma di cui si parla nel film Shoah di Claude Lanzmann e di cui parla Levi, all’arrivo ad Auschwitz: “Tutto era silenzioso come in un acquario e come in certe scene di sogni. “ (Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, To. 1958, p.26).

C’è il silenzio, dopo la fine della guerra, di chi non vuole più sentir parlare di atrocità.

C’è il silenzio dell’ebreo errante come un tacere, di cui Celan in Conversazione nella montagna dice: “nessuna parola è stata soppressa e nessuna frase, è semplicemente una pausa, è una lacuna di parole, è un vuoto, tu vedi tutte le sillabe sparse intorno” (Paul Celan, La verità della poesia, Einaudi, To. 1993, p.43).

C’è il silenzio di Ungaretti.

Poesia: "[...] Quando io trovo/ in questo mio silenzio/ una parola/ scavata è nella mia vita/ come un abisso". Veglia: "Un'intera nottata/ buttato vicino/ a un compagno/ massacrato/ con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio/ con la congestione/ delle sue mani/ penetrata/ nel mio silenzio/ ho scritto/ lettere piene d' amore// Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita": è nel silenzio interiore che la parola poetica attinge nuova linfa di amore e vita.

 

Ugolino è un personaggio della Commedia, collocato da Dante-autore nel lago di Cocito dei traditori a divorare per l’eternità il cranio del suo carnefice, l'arcivescovo Ruggieri. Davanti al Dante-attore del viaggio nell' oltretomba, Ugolino racconta, mosso da pietà e da vendetta, la sua storia che termina con l’ambiguo endecasillabo: "poscia, più che 'l dolor, potè 'l digiuno”. La vivida testimonianza di Liliana Segre, invece, risarcisce anni e anni di silenzio, con carità, senza spirito di vendetta.

 


Rinaldo Caddeo ha pubblicato quattro raccolte di poesie (Le fionde del gioco e del vuoto, Narciso, Calendario di sabbia, Dialogo con l’ombra), una raccolta di racconti (La lingua del camaleonte) e una di aforismi (Etimologie del caos). Ha inoltre pubblicato Siren’s Song, selected poetry and prose 1989-2009, una raccolta antologica di testi in italiano con testo a fronte in inglese.

I suoi aforismi sono apparsi sulle antologie: Nuove declinazioni (2005) e, tradotti in inglese con testo a fronte, The new italian aphorists (2013).

Ha pubblicato saggi critici, recensioni, racconti, aforismi, traduzioni e poesie su diverse riviste.

I suoi due saggi più lunghi sono stati Ombre e impronte intertestuali in Buzzati e Gli animali e il mimetismo in Giampiero Neri, apparsi in due volumi di critica: L’attesa e l’ignoto su Buzzati, e Memoria, mimetismo e informazione su Neri.

Maria Grazia Calandrone, da “Il bene morale”, Crocetti, 2017, nota di Rosa Pierno

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Un ago che serra i bordi di cose distanti come il “cuore molto bianco che in realtà rimanda alla nostra mente” lavora alacremente nei testi poetici di Maria Grazia Calandrone per ricondurre ciò che è sparso disordinatamente in un medesimo insieme. L’unione è nel cuore delle cose, ecco dunque che bisogna cercare l’essenza di ogni oggetto naturale per trapassare, tramite analogia, al corpo umano e in tal modo inserirlo - non più dunque visto come corpo estraneo alla natura - nel ritmo pulsante di un onnicomprensivo elemento. La ruggine diviene “scia emorragica”, “l’arancione” diviene sole, alla ricerca dell’unità perduta. Per tale via il corpo stesso diviene altro, si fa ombra, “un minerale bianco” o, ancora, “superficie”. La Calandrone cerca dovunque l’unità, anche nei forni crematori, a Fukushima, a L’Aquila: cerca ovunque vi sia dolore, poiché l’unità non ne viene distrutta, ma anzi insegna a reclamare ancora più fortemente il bene.


 

Le metafore dell’amor perduto

 

Io avevo solo detto: tagliami i rovi e quello mi ha buttato davanti alla casa tutti quei tronchi decapitati, una scena di muscoli combusti, l’ossario nero e contorto dell’abbandono. Ma ogni volta tutto il mondo va a capo dopo la morte, è cosí che succede.


 

1. Frutti dell’abbandono

 

Questo è il mio corpo

un minerale bianco

illuminato – vera

misericordia della materia

accesa come un cero

che ricorda soltanto la tua bocca.
 

Questa è la luce cieca del frutto

una esalazione di particelle

indispensabili alle sequenze di sole

su ovari bianchi.
 

La materia celeste della scomparsa

tra i fiori del giardino.

Qui tutto è colmo di benevolenza e le turbine

ronzano a mezzacosta.
 

Questa è la vigna delle mie ossa

la colonna che torna

alla calma iniziale,

ma uno sguardo

non ha ancora la pace della maceria,

nell’oggetto qualcosa si apre: un filo

di silenzio, una passione, l’ultima

esitazione.


 

L’idiozia o lo splendore della bellezza

 

Adesso credo necessario un ottuso atto di fiducia nella bellezza. Agire come non fossimo mai stati. Come non fossimo mai stati traditi. Come se non avessimo visto i nostri cari morire. Agire come se fosse la prima volta. Con la stessa innocenza di Cristo. Con la medesima mortalità elettiva. Abbandoniamo tutta la speranza e tutta la sapienza come il Cristo di Hans Holbein – radice appunto immaginaria de L’idiota dostoevskiano – che nemmeno ha interesse a risorgere, che non ha piú interesse a essere divino. Che non ha piú interesse. Ma che, compiuto il dovere di riaprire una strada a suo modo esemplare tra i rovi del mondo, abbandona se stesso – non il suo corpo: se stesso – alla manomissione che una morte completamente umana farà della sua carne. Diventiamo la bellezza perfetta del dio morto, perché solo la fine è infinita e su di essa sola la bellezza si accampa. Assumiamo la bellezza campale del dio morto. Ovvero del perfetto idiota dostoevskiano, che non ha piú la ferita e la nostalgia del risorto di Rilke per l’esperienza regale della finitudine che, nonostante tutto, costruisce imperi di parole. L’idiota agisce come agirà il Cavaliere di Hughes. Egli è il suo stendardo e di quello stracci. Essere stracci della propria gloria. Essere coscienziosamente carne. Carne mortale. Niente. Dante che sviene continuamente. Mostrare la bellezza di una fine che non scavalca e non trascende se stessa. Carne fatta serena come pietra. Carne completa. L’idiozia della pietra e dell’osso, l’idiozia della cosa, ovvero la piú acuta tra le intelligenze, la piú radicale bellezza e la bontà piú radiante, la bontà idiota che Dostoevskij definiva appunto attraverso la parola prekrasnyj, a dire “lo splendore della bellezza”.

luglio 2011
 


Maria Grazia Calandrone (Milano, 1964) vive a Roma. Poe- tessa, drammaturga, artista visiva, autrice e conduttrice per RaiRadio3, scrive per “Corriere della Sera” e cura una rubrica di inediti per il mensile internazionale “Poesia”. Tiene labora- tori di poesia in scuole, carceri, DSM, con i migranti e presta servizio volontario nella scuola di lettura per ragazzi “Piccoli Maestri”. Libri: La scimmia randagia (Crocetti 2003, premio Pasolini Opera Prima), Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier 2005), La macchina responsabile (Crocetti 2007), Sul- la bocca di tutti (Crocetti 2010, premio Napoli), Atto di vita nascente (LietoColle 2010), L’infinito mélo, pseudoromanzo con Vivavox, cd di sue letture (sossella 2011), La vita chiara (transeuropa 2011), Serie fossile (Crocetti 2015, premi Marazza e Tassoni, rosa Viareggio), Per voce sola (ChiPiúNeArt 2016), raccolta di monologhi teatrali, disegni e fotografie, con cd allegato di Sonia Bergamasco e Gli Scomparsi – storie da “Chi l’ha visto?” (pordenonelegge 2016, premio Dessì); è in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi 2012). Dal 2009 porta in scena in Europa il videoconcerto Senza bagaglio. Nel 2012 vince il premio “Haiku in Italia” dell’Istituto Giapponese di Cultura e nel 2017 è nel docufilm di Donatella Baglivo “Il futuro in una poesia” e nel progetto “Poems With a View” del regista israeliano Omri Lior. Ha collaborato con Rai Letteratura e Cult Book. Sue sillogi compaiono in antologie e riviste di nu- merosi Paesi. Il suo sito è www.mariagraziacalandrone.it.

Riccardo Deiana, dalla raccolta inedita “La bellissima fanciulla”, nota di Laura Caccia

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A distanza d’amore

 

Si muovono tra la leggerezza e il dolore i versi della raccolta La bellissima fanciulla e altre poesie di Riccardo Deiana. Tra armonia e ustione, incanto e strazio, bellezza e pena.

Sono versi interlocutori, la maggior parte rivolti alla persona cara, menomata dall’infermità, racchiusi tra i due testi riflessivi di apertura e di chiusura, in cui la parola si fa interrogante sul senso del vivere e del dire, come a contenere, nella distanza emotiva, tutta la sofferenza che viene invece, all’interno della raccolta, sempre più ravvicinata, in una lenta e inesorabile messa a fuoco sulla malattia “osservata per non morire, / e per la forza che da sola è venuta”.

Una leggerezza inattesa muove ogni verso: nel trattare una materia dolorosa, l’autore si pone, da un lato, a distanza, come a osservare dall’alto e a spostarsi lontano nel tempo, dall’altro, invece, vicinissimo alla sofferenza, alla rabbia e alla fatica quotidiana, in entrambi i casi proteso a far sbocciare motivi di tenerezza e di incanto.

E in tale lievità emergono figure potenti, che non riusciamo a considerare solo metafore: la madre che del frutto ha “la grandezza / la misura / per stare nel palmo aperto di un figlio”, il pupazzo di neve dal sorriso storto, simile a quello deturpato dalla malattia, da raddrizzare poiché “ridere allinea la bocca, / fa vivere di più la felicità”.

Una lievità che riguarda anche il buio, accolto nel suo respiro universale, nel battito che affratella: “Non è il buio il colore del dubbio / perché di notte è uno il respiro di tutti / più del giorno… / Il colore del dubbio è il colore del mondo”. E, se il mondo riserva crudeltà e amarezze, vi è altro in cui cercare note di pacificazione e di vero: “Sei: in attesa che volgano le stelle a inverare / tutto, come solo si può: / a puntini / dal buio”.

E in tutto questo la parola? Come può riuscire a sorvolare il dolore per avere uno sguardo più ampio e, nello stesso tempo, a immergersi profondamente in esso, toccarne il respiro?

La distanza, evocata più volte dall’autore, appare come il desiderio personale di trovare, attraverso una visione più ampia, i contatti con le cose e con le vicende terrene, attraverso una parola in grado di mostrare ciò che non si palesa facilmente.

Una visione utile soprattutto a creare vicinanza e cura, per la terra e per le sue creature, per la persona cara e per l’umanità, e che, da un punto di vista sociale, si pone come esigenza di osservare con più lucidità il mondo e la vita e di farne oggetto di condivisione: “perché laggiù distanti, così distanti dalla riva / (sono molte miglia in / miglia, ma neppure un anno luce in anni / luce) / sussurreremo agli amici che si vede il mondo, / la nostra natura dissolta”, come scrive Riccardo Deiana. Che, come poeta, si sente emarginato da chi non tiene conto del valore dei versi, ma eticamente chiamato, insieme alla comunità dei poeti, a invitare tutti, anche chi inganna, anche chi commette atrocità, a confrontarsi sul senso e sull’enigma del vivere.

 

 

- L'armonia -

 

... Certo, lo capisco il discorso

dell'equilibrio eterno dei classici,

ma solo al modo in cui sette stelle appaiono

all'occhio seminudo uno scorpione;

ho un dubbio di precedenze, un cruccio

di forma, e zodiacale: è frutto

l'animale del tuo mitico indicare che illumina

in questa notte spudorata la figura,

o è da prima nella mente ma timido a brillare?

(L'armonia ce la inculcano a scuola

e mai un delatore che ne spifferi l'anima storica:

non è innocuo, abbiamo le ustioni

dei loro freddi alari,

abbiamo storpiato i ventanni a furia di imitare,

senza inventare mai formine

per la nostra dismisura).
 

Come si può dimenticare l'uncino velenoso

che limita la costellazione e

sbucando furtivo becca intimorisce uccide?

Se puoi, non girare le pagine con l'indice ma

lascia che il vento le sbrighi,

e quando non ti verranno la voglia le parole

santifica il giorno come la pasqua o il natale,

e dopo

soltanto dopo torna a allineare le stelle.
 

Ci assomiglieremo

soltanto nel giorno in cui ci vedremo diversi,

finalmente, tutti,

ghignando in un pieno di pietà.


 

XI.

 

Guardatemi tutta, pensavi

ché tutta sono

anche se una spalla mi pende come avessi uno zaino,

anche se il mio saluto è sempre a metà

se striscio le scarpe.

Tutta, vi dico, guardatela
 

come di notte dall’alto l’autostrada di Orte:

dove le macchine sono

un unico fluido che luccica bianco

luccica forte.


Riccardo Deiana, etrusco del 1988, si è laureato a pieni voti e con diritto di pubblicazione all’Università di Torino nel novembre del 2016 con una tesi di ricerca sulla storia delle pubblicazioni di poesia dell’Einaudi dal 1938 al 1964. I suoi interessi sono rivolti principalmente alla poesia italiana contemporanea e alla storia dell’editoria. Si è occupato di Vincenzo Cardarelli e di Amelia Rosselli. Nel 2017 ha partecipato in qualità di relatore ai convegni «Franco Fortini: leggere e scrivere poesia (1917-2017)» tenuto all’Università degli Studi di Torino e «Sandro Penna (1977-2017): quarant’anni dopo» tenuto all’Università degli Studi di Perugia (presto il suo intervento verrà pubblicato da San Marco dei Giustiniani). Suoi articoli sono usciti sulla rivista viterbese «Biblioteca & Società» e sull’ «Indice dei Libri». Contemporaneamente all’attività letteraria, ha lavorato con i disabili, come corriere in bicicletta e come operatore notturno presso un dormitorio per senza tetto. Si diletta come cantautore.

Sono in preparazione dei suoi studi sull’attività di Franco Fortini e di Angelo Maria Ripellino come consulenti dell’Einaudi.

Lella De Marchi, dalla raccolta inedita “Bianca”, nota di Giorgio Bonacini

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Se il bianco è il colore che li contiene tutti, allora il nome eponimo che agisce in queste pagine, non può non contenere in sé tutte le moltitudini di senso che la poesia riverbera in una voce. Infatti, nella dichiarazione di poetica che apre il poemetto, Lella De Marchi ci informa su tutto ciò che Bianca è e non è, riassumendo ogni metamorfosi nel progetto e nel desiderio di un’opera che “parla come parla un’intenzione, al fondo di tutto le cose, prima di tutte le cose”. Ecco, una lingua che dà corpo al suo significato, non con un movimento o una direzione stabiliti da un principio, ma costruendo con la sua vocalità una struttura mossa, dalle fondamenta foniche, sempre imprevedibili. Perché la parola dell’autrice svolge i suoi tratti distintivi nel mare di una sonorità concreta che fa della poesia una materia fluente, che scava se stessa con lacerazione o accarezza il sentimento del reale e del vero. Lì dove non basta trasgredire norme consumate, ordinarietà comunicative svuotate di significanza “se poi il mondo/ non lo inventi”, scrive con un cenno di giusto ammonimento. Bianca smonta le consuetudini con una scrittura che dice come sia inafferrabile e molteplice la natura della poesia: che è natura umana intonata in una melodia. Anche nell’errore, anche nel dolore il centro propulsivo deve sviare dal conforme, fino all’estremo della dissomiglianza verso ciò da cui prende o dà vita: “il mio cuore è/l’unica cosa che non mi assomiglia”. Così parla Bianca: dal fondo della sua presenza di corpo in essere, quale libertà e unicità di poesia con poesia. Perché questo è il passo, distorto ma necessario e incomparabile, del poema che oltrepassando se stesso e la pagina bianca si avvia prima dell’inizio per terminare dopo la fine.

 

 

Incipit

 

Bianca è la pagina bianca, che fa paura e che seduce chi sa che deve o che può provare a riempirla, chi si trova a giocare o lottare col vuoto, senza bucarlo o ferirlo.

Bianca è la somma di tutti i colori, il colore che non esiste che non vedi ma c’è, prima di ogni colore. Bianca è un’aspirazione al contrario, il sentimento in ogni contrario.

Bianca non ha una forma predefinita, è un po’ dappertutto è in tutte le cose, Bianca ha la forma che nel mondo hanno le cose, prima di tutte le forme prima di tutte le pose.

Bianca non è una donna perché il suo nome finisce per a.

Bianca, se la trovi, la trovi soltanto ad Ibiza, in questa terra c’è solo una terra che possiamo che dobbiamo abitare, che sia solo la nostra, che ci concede il diritto di cittadinanza, nel breve spazio tra l’inizio e la fine.

Bianca non è una poesia, non è un romanzo, non è una canzone, Bianca è un’intenzione, e parla come parla un’intenzione, al fondo di tutte le cose, prima di tutte le cose.

Bianca non sono io.

 

 

Bianca non è un santo, non lo è stato

 

Bianca non è un santo non lo è stato,

Bianca fa l’amore o forse sesso un po’

con tutti, Bianca è tipo-indipendente,

un po’ ricordi di classe operaia un po’

aperitivo trendy post-lavoro, un po’

nullafacente un po’ sé stessa-facente,

Bianca non è un santo non lo è

stato, Bianca fa l’amore o forse sesso

un po’ con tutti e pensa, Bianca

pensa che un cuore solo non ha occhi per

vedere e gli occhi non hanno un

cuore solo per vedere la nostalgia

 

 

Bianca volentieri cederebbe alla tentazione di parlare senza dire niente

 

Bianca pensa che in ogni tempo volentieri

cederebbe alla tentazione di ritrovarsi

immutata superando l’effetto serra e

il tempo più ostinato, Bianca

pensa che in ogni tempo volentieri

cederebbe alla tentazione di riuscire a

non pensare per poter parlare senza

dire niente, senza aggiungere

al rumore altro rumore, senza

diventare una spiegazione, senza

diventare necessaria, necessaria

come una spiegazione

 


Lella De Marchi è poeta, scrittrice, performer.

E' laureata in Lettere Moderne indirizzo storia dell'arte contemporanea all'Università di Bologna. Ha seguito laboratori di scrittura creativa e sceneggiatura cinematografica con Andrea Camilleri, Ugo Pirro, Tonino Guerra, corsi di lettura ad alta voce e teatro. E' diplomata al CET, la scuola di Mogol, come autrice di testi.

Ha pubblicato tre libri di poesia: "La spugna" (Raffaelli, 2010, prefazione di Renato Martinoni, "Stati d'Amnesia" (LietoColle, 2013) con un saggio di Enzo Campi, "Paesaggio con ossa" (Arcipelago Itaca, 2017) postfazione di Caterina Davinio e finalista al Premio Pagliarani 2016 ed un libro di racconti "Tutte le cose sono uno" (Prospettiva Editrice, 2015), vincitore del Premio Braingnu 2013.

Ha ottenuto molteplici riconoscimenti, nazionali ed internazionali, sia con l'edito che con l'inedito. Suoi testi compaiono in antologie di poesia contemporanea, riviste e blog su internet.

Unisce alla scrittura un'intensa attività performativa, partecipando con suoi testi e come attrice a festival, reading, poetry slam, eventi teatrali, in collaborazione con poeti, artisti, musicisti.

Collabora come recensionista di libri di poesia contemporanea con la rivista "Versante Ripido".

Raffaele Floris, dalla raccolta inedita “Senza margini d’azzurro”, nota di Laura Caccia

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Il profumo dell’ombra

 

Se potessimo sospendere il tempo, di fronte alle perdite di stagioni e di affetti, quando mancano le leggerezze che in passato spalancavano la vita in una profusione di profumi e colori, potremmo tentare di fare delle parole il cielo che manca, seguendo Raffaele Floris in Senza margini d’azzurro.

Sia nei temi che nell’attenzione formale, lungo i versi che si distendono nei loro endecasillabi, la raccolta appare mossa dall’esigenza di ritrovare quei margini spaziali e temporali, confinati ora nella lontananza, che hanno segnato il vissuto dell’autore.

Sono margini di cielo, legati all’infanzia e alla presenza degli affetti familiari, che mancano. E sono margini di un tempo che resta come sospeso, trattenuto nel tentativo di far permanere e rivivere quanto è stato emotivamente significativo ed ha cessato di esistere.

Nel chiedersi “Che ne sarà di noi, del nostro cielo? / Non ci è rimasto niente fra le dita”, nell’ombra che pervade ogni cosa e nel buio dell’assenza della persona cara, l’autore è consapevole che non si tratti tanto di ritornare indietro nel tempo, seguendo le tracce della memoria, quanto di percorrere dolorosamente la strada della mancanza che si è spalancata; così, scrive, ripensare “non è sfogliare il libro dei ricordi / ma spingere anche il cuore in fondo al nulla”.

Così in fondo che il dolore ne viene quasi deterso, purificato: simile ad un bucato fatto con la cenere, anche la scrittura ne esce come mondata, dopo il contatto con il fuoco della sofferenza e con i residui di ciò che prima ardeva. Riuscendo, in questo modo, a mantenerne intatta una parte, a trattenere qualcosa, a profumare l’ombra rimasta: “Il paradiso / dei lini ripiegati nei cassetti / racconta di un giardino che non muore”.

Restano così memorie sensoriali, soprattutto olfattive, legate dell’assenza: profumi di bucato e di teli negli armadi, di fiori e di giardini, di mirto e di rugiada: “Lenzuola che profumano i cortili / gonfie di primavera. A mani piene / lavanda per il lino dei bauli, / e la cenere spenta è come neve”.

E come tra il bucato appeso ai fili l’autore fa comparire la persona cara scomparsa a cui si rivolge, “Vorrei vederti, quel giorno, tra i panni / stesi in cortile”, così ci rammentano visivamente i panni stesi anche le due serie di haiku, ispirati ad opere artistiche, che separano e chiudono le parti della raccolta e che sembrano costituire, nei loro lampi di ombra e di luce, un modo per trattenere e lasciare vagare in essi l’assenza. I teli come le pagine sono impregnati di ciò che manca: come in quel “Conserva un foglio bianco: / ti lascio l’ombra delle mie parole”, con cui Raffaele Floris ci ricorda che anche le parole possono vivere d’ombra. E che l’assenza è il cuore pulsante della poesia.

 

La porta

“Signore: è tempo. Grande era l’arsura.

deponi l’ombra sulle meridiane,

libera il vento sopra la pianura”.

(Rainer Maria Rilke, Giorno d’autunno)

 

Le tenebre mai più, non più l’abisso
dell’ora nona e il cielo che si oscura:
la porta è spalancata e sulla soglia
la luce irrompe ai margini del tempo.
Marchio potente, vita che ha bruciato
il sudario, spezzando le catene
della notte. La porta è spalancata:
libera il vento che ravviva il fuoco.

 

 

XXII maggio

 

Nel solaio dei giorni ho rovistato

a lungo: oggi cercavo una rosa.

Era nei Malavoglia! Tra le pagine

gonfie di spine e l’ombra del silenzio,

polvere amara che ha graffiato il tempo.

L’incenso di una sera. Poi l’estate

nel bicchiere, e la fragranza svaniva

tra le pagine e i roghi di novembre.

 

 

Haiku ispirati alle opere artistiche di Mario Fallini (1947, Alessandria)

 

(Sempre)

 

mesi e stagioni

nel vortice del tempo:

sempre è per sempre.

 

(La quinta stagione)

 

stagione amara

scoria di un tempo ostile,

vita non-vita.

 

(Corda d’arco e di lira)

 

tenebre e luce

nell’arco che dispensa

l’arte e la guerra.

 


Raffaele Floris. Pubblicazioni: Il tempo è slavina, ed. Lo Faro (Roma) 1991 – silloge poetica; L’ultima chiusa, ed. Joker (Novi Ligure) 2007 – silloge poetica; La croce di Malta, puntoacapo ed. (Novi Ligure) 2013 – romanzo breve; L’òm, l’aşi e ‘r pulóu, PiM ediz. 2016 – detti, proverbi e filastrocche in dialetto pontecuronese; Mattoni a vista, puntoacapo ed. (Novi Ligure) 2017 – silloge poetica

Adelio Fusé, una prosa inedita “La parola è l’immagine che si stacca dalle cose”, nota di Mara Cini

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La parola è l’immagine che si stacca dalle cose vere.

La parola è essa stessa una cosa, naturalmente. Il segno alfabetico, con la sua pelle di grafite, d’inchiostro, di pixel, ha una sua storia in ambito estetico. Tutte quelle modalità di lavoro sulla parola che si riappropriano del circuito mano-pensiero (o voce-pensiero) trovano le loro motivazioni nella consapevolezza che la parola è luogo privilegiato della produzione ideologica e simbolica ma consiste anche di autonomi valori visuali o fonetici.

Fusé si sofferma sull’ambiguità dei significati: la parola designa, la parola allude, la parola “osserva”. E quando nella sosta osserva e indugia lo scarto cresce.

Fusé dice che si può scrivere (di qualcosa) dopo molto, quando le cose sono ombre.

O molto prima, quando ancora fa buio. Come Emily Dickinson possiamo scrivere Buongiorno – Mezzanotte.

 

 

La parola è l'immagine che si stacca dalle cose

(dai Taccuini di Aldous Canti)

 

Talvolta penso di sopprimerla. Lei sa quello che mi passa per la testa. è la prima a saperlo. Rinuncia allora a inseguirsi. Si arresta e contempla le poche parole, sue consanguinee, sparse fra buffi segni che non coprono mai abbastanza. Il misfatto non si cancella.

Lei – la parola – simula la vittima che nel gioco implora il carnefice. Ne ha uno tutto personale. E lo sfida in una terra esposta ai venti, dal clima mutevole. Cerca una via di fuga e si camuffa, forse meschina, forse scaltra. Tutto questo per salvarsi la pelle. “Ma quanto vale la tua pelle?” le chiedo. “E la tua?” mi fa lei, pronta. L'autore è in sua balia.

Desiderare le prove peggiori pur di avere materia prima per la mano che sgrezza e tritura. Sei cinica, o parola. Insensibile alle ragioni. Perché raccontare questi avvenimenti e non altri? Qui o là, io o un altro. Non ti curi delle differenze. Qualità alta o melmosa, personaggi virtuosi o assassini, autore zelante o inaffidabile. Il tuo stomaco ospita qualunque cosa e chiunque e il suo contrario. Lì dentro ha casa la coincidenza degli opposti. Affamata come sei, reclami nutrimento. Il resto è chiacchiera, neppure da servire come stuzzichino.

La parola che si fa scrittura è porto franco o discarica?

Ma con quali parole sfamare – sfamarmi? La mia dispensa è senza provviste. Sì, c’è scatolame, poca roba, quasi niente. Cristo, siamo oltre la soglia del consumo. Cibo alla partenza già deprezzato, ora avariato.

 

Sempre la domanda, oziosa: “Che ne è delle cose?” Le cose sono laggiù, lontane. Fingo di non sapere e proseguo. La regola del gioco è questa e io la rispetto. Ma la scrittura, lei, viaggia separata dalle cose. E quando nella sosta osserva e indugia lo scarto cresce.

La parola è l'immagine che si stacca dalle cose vere.

Dovrei raccontare. Il racconto come dovere n. 16.790 (non ridete: ho conteggiato con scrupolo). Le parole, narcise onaniste, aprono la bocca e si divorano. Sanno come mangiarsi. In mancanza di cibo la bocca si fa cibo.

Fare presto. Le cose si scrivono hic et nunc o partono con il loro saluto (bye-bye: vedi – proprio tu, che sei l'autore –, come agitano delicate manine e candidi fazzoletti?). Anzi, neppure ti inviano un segnale. Non ne hanno il tempo. E tu alzi le spalle. Che sia pure così. Sai che puoi poco. Si perdono comunque, le cose. Forse che ritornano? Andiamo, signore e signori, siamo gente di mondo. Il nostro uovo si è schiuso parecchio tempo fa, e parecchio tempo fa la nostra testolina, chiedendo al collo lo sforzo massimo, ha fatto la sua capatina fuori. Come recuperare la prima occasione? Non recuperandola. Non ci sono macchine del tempo. Le occasioni svanite hanno il sesso degli angeli. E le parole, soverchiate dal mistero, annaspano spente.

Puoi odiare l’orologio, caro autore. Non curartene. Non possederne uno. Metterlo fuori uso. Spedirlo alla gogna. Quello ha modelli simili: fratelli, cugini, un largo parentado. Puoi fare incetta di ogni modello in commercio, distruggere tutti i depositi, tutte le fabbriche. Avrai pur sempre l’orologio che è il tuo corpo. In forma di segnatempo interiore o bene in vista sulla tua pelle. (Anche noi abbiamo i nostri anelli, come gli alberi.) O In forma di mano che scrive, certo. C’è sempre una lancetta che scatta in avanti, anche se il tuo orologio susperstite non la prevede. In ogni caso il tempo balza in là. E a ogni suo balzo, visibile oppure occulto, tu rimani al palo. Scrivi, presto, se non vuoi regredire all’alba del mondo, mentre il mondo va oltre. Oh, si può scrivere dopo molto, quando le cose sono ombre. Ma come restituire spessore, sapore? La polvere compromette la visione e ti fa tossire. Croste sommate a croste e il tuo raschiare che non si arrende. Quando ti spiani la strada, risaltano le cicatrici. E le residue parti ancora intatte sono spaiate: i compagni di vita sono ormai di morte. Nessuna sostanza per il gusto, solo i danni del rimpianto.

 


Adelio Fusé (1958) vive a Milano e lavora nell’editoria. Ha pubblicato saggi su Sade, Kafka, Sartre, Handke, Eno (Materiali Sonori-Auditorium, 1999), i romanzi North Rocks (Campanotto, 2001) e L'astrazione non è la mia passione principale (Manni, 2018), i libri di poesia Il boomerang non torna, Orizzonti della clessidra distesa, Canti dello specchio bifronte, L’obliqua scacchiera (Book Editore, 2003, 2005, 2009, 2012, segnalati al Premio “Lorenzo Montano”), La veglia del sonnambulo(Book Editore, 2016; candidato al Premio “Camaiore” e finalista al Premio “Lorenzo Montano”, 2016). Scritti critici, testi in prosa e in versi sono apparsi su riviste (“alfabeta”, “auditorium”, “Atelier”, “Il Segnale”, “La Ginestra”, “Legenda”, “Lengua”, “Sonus”, “Tratti”) e online in siti letterari (“Carte nel Vento/Anterem”, “Poetarum Silva”, “Vico Acitillo 124-Poetry Wave”). Ha fatto parte della direzione di “Legenda” (Tranchida, 1988-1995). Collabora con artisti e musicisti.  Ha ottenuto un riconoscimento al Premio “Riccione per il teatro” (1981). Cura una rubrica di musica e poesia sul sito altremusiche.it. 

 

Carmen Gallo, da “Appartamenti o stanze”, Edizioni D’if, 2016, nota di Rosa Pierno

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Apparentemente una narrazione oggettiva, asettica, se non fosse per alcuni segnali che aprono squarci nella carena poetica. Azioni spesso compiute da personaggi silenziosi, che hanno il raggiungimento della staticità come scopo: i personaggi sono non in attesa, ma volontariamente isolati, ritagliano in realtà uno spazio impenetrabile intorno a loro. A volte, le azioni risultano paradossali: "donne si infilano lettere" una a una "nella bocca", sollevano il soffitto. Ma sempre c'è la misurazione della distanza tra i rispettivi vuoti. Irrompono però i ricordi a rompere la continuità spaziale con salti temporali. Nello spazio, il tempo va avanti e indietro, ma il soggetto è capace anche di diventare "incrostazioni sull'intonaco". A dimostrazione che nulla può essere mai veramente oggettivo.


 

***

La donna bianca annuisce o trema.
Vista di profilo annuncia
tempesta, giudizio, concordanza
difficile della parola al senso.
Le donne si alzano e la guardano.
Si appannano vetri dietro respiri.
Noi spegniamo la luce perché ora è notte.

 

*** 

L'uomo si sveglia sul balcone
e preferisce non guardare
dietro i vetri che gli fanno da schienale.
Il buio intorno è alto. L'uomo si tiene le ginocchia
misura con gli occhi la resistenza all'urto
in base alla distanza.
La donna nella parete di fronte dorme.
Solo le labbra continuano a guardarci e a domandare.

 

*** 

L'uomo in tangenziale fissa il vuoto
e l'auto rovesciata. La gente intorno
è agitata. Le donne sono arrivate
a raccogliere le sue cose.
Ogni tanto qualcuna è stanca
si ferma e fuma, seduta sul guardrail.

 

*** 

L'uomo in tangenziale si guarda intorno
e comincia a camminare. Fa pochi passi
barcolla, si stende sull'asfalto.
Le donne intorno all'auto adesso
dimenano le braccia, fanno cenni
ai fanali inchiodati. Noi ci mettiamo in fila
con gli occhi degli altri a guardare.
 

*** 

Da quando siamo finiti nella stanza più lontana abbiamo
cominciato a sparire, uno a uno. Se non possiamo guardarla
non siamo più sicuri di esistere. Alcuni non ce la fanno, hanno
paura, scompaiono. L'uomo che vive con lei ogni tanto apre la
porta e prova a farci uscire. Ci chiede di nascosto di tornare, ma
noi siamo soltanto incrostazioni nell'intonaco e non sappiamo
come fare. Se lei non viene qui scompariremo. Ad aspettarla
siamo rimasti solo in due. Non so se ci siamo scelti, so soltanto
che mi somiglia. L'altro sente quello che sento io, vede quello
che vedo io. Presto diventeremo una cosa sola e spariremo.
 


Carmen Gallo vive a Napoli dove insegna Letteratura inglese. Nel 2014 ha pubblicato Paura degli occhi, per L'Arcolaio, Forlì, tradotto in parte in francese da Clement Lévy per Remue.net, già finalista Premio Montano 2015. Nel 2016 è uscito Appartamenti o stanze (Edizioni D'If), una parte del quale sarà tradotto in Germania nell'ambito del progetto "Poesie der Nachbarn. Poets translated by poets" diretto da Hans Thill. Alcuni testi e sue traduzioni sono stati pubblicati su blog (tra gli altri Poetarum Silva, Formavera, Nazione Indiana, Nuovi Argomenti, Leparoleelecose ), in antologie e su rivista (Argo, Smerilliana, L'Ulisse).

Dal 2015 cura, con altri colleghi, il Seminario di poesia comparata presso l'Università di Napoli "Federico II", e nel 2016 ha partecipato al Laboratorio di poesia in carcere promosso dalla Fondazione Premio Napoli. Ha curato la nuova edizione e traduzione di Tutto è vero, o Enrico Vili di Shakespeare e Fletcher (Bompiani 2017) e ha da poco pubblicato un saggio dedicato ai poeti metafisici inglesi, L'altra natura. Eucarestia e poesia nel primo seicento inglese (ETS 2018).

 

Vincenzo Mascolo, da “Q. e l’allodola”, Mursia, 2018, nota di Rosa Pierno

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È la poesia, il soggetto dell’ultimo libro di Vincenzo Mascolo Q. e l’allodola, Mursia, 2018. Mascolo, tra versi e prosa poetica, delinea il campo assordante delle pretese e delle aspettative che rendono la contemporaneità una sorta di Moloch a cui sacrificare il proprio impulso o le proprie scelte poetiche. Il problema resta non il modo di versificare, ma il manifestarsi stesso della poesia. Vi è, dunque, la necessità di liberarsi da quelle pastoie che finiscono con il depositare un velo, per cogliere alfine nuovamente, quasi fosse una nuova prospettiva, il dono della poesia. Dono che non può ottenersi senza l’esercizio dello stile e della tradizione.

Tuttavia, non solo stile, non solo dato esistenziale, non solo bellezza, la poesia per Mascolo attinge a fonti di ben altra natura, di metafisica portanza. La poesia deve travolgere il sé profondo, deve essere esperienza di vita che avvicini all’uno, al creato, che sia cioè quell’unico sentire in grado di forgiare e di trasformare, rendendo inique tutte le mere questioni che non abbiano a che vedere con questa verità, deve essere poesia-salvezza, l’unica che abbia un senso. Persino la ricerca della bellezza diventa una chimera, infatti, se non ci si approssima alla verità del proprio cuore, a quel canto che è la purezza sorgiva dell’origine.

 

 

***

 

Oh, Queneau

non basta più esercitarsi nello stile

come tu sapevi fare inanellando

notations, hellenismes, le contre-pettéries

e tutte le altre tue diavolerie

che aprivi come nuove fioriture

nelle terre inaridite che solcavo

con strumenti quasi umani zolla a zolla

per offrire a Cerere il raccolto

generato in primavera dai miei semi.


 

***

 

Oh, Queneau

Queneau

parlavo seriamente della bile

perché stanno esaurendosi le scorte

delle anime ridotte al lumicino

e per nutrire ancora una speranza

che adesso si fa sempre più sottile

ai poeti non resta che affilare

parole sulla pietra per raschiare

il fondo limaccioso del barile.


 

***

 

Oh, lo so

Queneau, lo so

potresti allora dirmi che il reale

per i poeti è cosa ben diversa

da questo affaccendarsi quotidiano

che loro riconoscono i confini

dell’anima costretta nella forma

che muta, evolve, vira

si trasforma

cambiando il punto dell’osservazione.

 


Vincenzo Mascolo è nato a Salerno e risiede a Roma. Ha pubblicato Il pensiero originale che ho commesso (Edizioni Angolo Manzoni, 2004), Scovando l’uovo (appunti di bioetica) (LietoColle, 2009), Q e l’allodola (Mursia, 2018). Per la casa editrice LietoColle ha curato le antologie: Stagioni (con Stefania Crema e Anna Toscano), La poesia è un bambino, Quadernario – Venticinque poeti d’oggi (con Giampiero Neri). Dal 2006 è il direttore artistico di Ritratti di poesia, manifestazione promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo.

Francesca Monnetti, una poesia inedita “(s)onde”, nota di Ranieri Teti

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C’è una realtà che si disfa a poco a poco, verso dopo verso, senza riparo, nel poemetto di Francesca Monnetti.

Già il titolo anima una dissoluzione, in “sonde” si attenua la S, posta tra parentesi, lasciando le onde fluttuare nel vuoto. Come foglie che danzano “nel lessico del vento”. Come un corpo che diventa “carne in fuga”. Fino alla fine si perdono tracce, tutto si dissolve e allo stesso tempo si radica nel linguaggio che ben rappresenta la compostezza formale dell’autrice.

Il testo si incide nelle rime interne, nelle consonanze di uno “(s)finito gridare”, in una limpida e strenua esattezza.

 

 

Precipitati

la caduta dei gravi

 

polvere e roccia glabra il mondo

grama la linea di sola terra

per i messi a nudo

i raminghi corposi

 

in piena luce

senza un riparo

 

assorbita dal peso dei passi

all’ombra della forma

del peccato… della sostanza

s’è persa la traccia

 

vuoto di consistenza

… il corpo s’è fatto

carne in fuga

che esonda, che suda

 

del tutto adatto

al proprio carnale calvario

 

premeditazione

innocenza presunta

gesto inconsulto

ravvedimento

menzogna

espiazione

vergogna

fittizio… reale

senso doloso

rimosso… senso di colpa

 

fa fatica

(s)fugge in fretta

si confonde

l’impronta

vagare è grave

fuori dall’eden

 

tra candore

tentazione

e caduta

 

sul suolo brullo

senza una fronda

il segno resta

del danno… del reato

dell’onta

 

a distanza d’azzurro

in assenza di foglia

 

la coscienza s’annebbia

muta s’adonta

si fa… monda

 

impresso

un malcelato sudario

 

orbite livide

incise sul volto

…madida e calva

la testa… si piega

all’indietro

 

ex virgo

venus impudica

con la mano

il sesso comprime

il sesso nasconde

 

a lato

il primo uomo

con le dita

s’occulta il volto

curvo… s’inarca il busto

 

in lui

il sesso si fa forte

il sesso si scopre

 

cava e pesta

sgomenta

resta aperta

la bocca

 

afono e devastato

il suo (s)finito gridare.

 


Da sempre io, Francesca Monnetti, vivo a Sant'Ellero, una frazione in provincia di Firenze, città dove sono nata e dove ho studiato Filosofia. Da venti anni insegno nella scuola primaria e da altrettanti, più o meno, scrivo poesie. Al 2009 risale la pubblicazione del mio primo volume di poesie, In-solite movenze (Cierre Grafica, Verona, collana "Opera Prima", diretta da Flavio Ermini); tale raccolta è risultata opera finalista nell'edizione 2008 del "Premio di Poesia e Prosa Lorenzo Montano", sezione "Raccolta inedita". Nel 2017 è stata pubblicata la mia seconda raccolta di poesie, Pen-insul-aria (Edizioni Helicon, Arezzo), che, in una versione ridotta, era giunta finalista in occasione della I edizione del Concorso di Poesia e Narrativa "L'Erudita", i cui membri di giuria erano Cristiano Armati, Paolo Febbraro, Giorgio Manacorda, Walter Mauro, Matteo Lefèvre, Giorgio Nisini, Cinzia Tani. Nel 2010 una mia silloge ha vinto la IV edizione del "Premio Letterario Sergio De Risio" dedicato al pensiero poetante, la cui giuria era composta da Renato Minore (presidente), Flavio Ermini, Filippo Maria Ferro, Giuseppe Langella, Cesare Milanese, Giancarlo Quiriconi, Maria Cristina Ricciardi, Jacquelin Risset, Marco Tornar e Raffaele Saraceni. Una mia poesia singola inedita (contenuta in Pen-insul-aria) è stata premiata come vincitrice nella sezione omonima della I edizione del Concorso di Poesia e Narrativa "L'Erudita" ed appare nel volume antologico dedicato al Premio (Giulio Perrone Editore, Roma, marzo 2012). Nel 2018 una mia silloge inedita, Secondo-genitura, ha conseguito il primo premio nell'ambito della XVIII edizione del Premio Letterario Castelfiorentino, sezione inediti. Nel 2016 una mia raccolta inedita, (S)oggetti a (s)comparsa, è stata inclusa nella rosa dei dieci finalisti della seconda edizione del Premio nazionale editoriale di poesia "Arcipelago itaca". Quattro poemetti inediti sono giunti in finale in edizioni diverse del "Premio di Poesia e Prosa Lorenzo Montano" (2012, 2015, 2016 e 2017). Miei testi poetici, finalisti e segnalati in edizioni precedenti e recenti del Premio Montano e in occasione della seconda edizione del Premio editoriale di poesia "Arcipelago itaca", compaiono on-line sul sito della rivista di ricerca letteraria "Anterem", su "Blanc de ta nuque" di Stefano Guglielmin e sul blo-mag "Arcipelago itaca" di Danilo Mandolini. In seguito a segnalazioni, con altre poesie sono presente in volumi antologici e siti legati a concorsi organizzati in Toscana: Premio Firenze, Premio Internazionale di Poesia San Domenichino, Premio Arno Fiume di Pensiero, Premio Letterario Castelfiorentino - edizioni 2011, 2014 e 2018 -, Premio Alpi Apuane 2014, Premio Casentino 2015 (doppia segnalazione), 2016 e 2018 (segnalazione con menzione d'onore), Premio Nazionale di Poesia Borgognoni 2016. Sulla mia poesia hanno scritto Mauro Barbetti, Giorgio Bonacini, Lia Bronzi, Silvia Ferrari, Marco Furia, Giancarlo Quiriconi, le giurie del premio "L'Erudita", del "Premio Letterario Castelfiorentino" e del "Premio Casentino", presiedute rispettivamente dal compianto Walter Mauro, da Marco Marchi e da Silvio Ramat.

Daniela Pericone, da “Distratte le mani”, Coupd’idée, 2017, nota di Rosa Pierno

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Strategie di avvicinamento sostenute da un’attrezzatura razionale, a tratti geometrica, non prive di lusinghieri inviti a una realtà che già si sa essere menzognera, vengono a tessere la trama poetica di Daniela Pericone. Ogni cosa viene localizzata, misurata, se ne coglie la distanza rispetto al sé, mentre ci si ripete la lista di precauzioni a cui attenersi per evitare spiacevoli conseguenze: “Non cedere a lusinghe / di paesaggi, / sciogliere nodi / è mestiere da penelopi / la tentazione è nelle forbici”. Una giusta distanza fa valutare ciò che è nel campo visivo e dà il tempo di elaborare l’azione necessaria. Ma è anche testimonianza di un’attitudine allo sguardo non priva di passione che inevitabilmente brucia le distanze, rendendo sonanti le parole e fusi il soggetto percipiente e il referente. Ma di questo ci aveva dato già certo indizio l’uso di un’aggettivazione sensuale e mobilissima.

 

 

Dalla sezione “Lucori”

 

2.

Davanti a voi sospesi

d’inerzia e dolenti

traveggo un guado alle cime

d’assalto cavalco un volo

un calco di volto

in assolo.

 

11.

Scrivere accresce lontananza

da mani disutili e nomi inceneriti

- inesperta di vanità che distoglie.

Nostro soltanto è conoscere

e non dirne vanto o privilegio.

Non turbare la luce che covi,

forgia un accordo di fuochi.

Verrà il torchio dei dolori

del corpo e in quelli adoprarsi

per non dare la resa o invelenire.

Se c’è un rivolo, un cielo uguale

ai deserti, accogline l’empito

la vampa improvvisa

nel cavo del gelo.

 

 

Dalla sezione “Disertori”

 

4.

È ora che suono

si plachi a scuotere via

ogni eccesso un gesto

in levare un lavare le scorie

osso d’un tempo a scucire

vertigine di varianti.

 

14.

Da temperamento

ed esperienza nasce dirittura

di viaggio, incisa fisionomia.

Non stupire se insorge deviazione,

la mente duttile non teme incoerenze

respira affetti, riconosce occhiali e mani

sul cuore, avanza d’alta ebbrezza

l’agire, l’eresia.
 


Daniela Pericone è nata nel 1961 a Reggio Calabria, dove vive. Ha pubblicato i libri di poesia Passo di giaguaro (Edizioni Il Gabbiano, 2000, con una nota di Adele Cambria), Aria di ventura (Book Editore, 2005, prefazione di Giusi Verbaro), Il caso e la ragione (Book Editore, 2010), L’inciampo (L’arcolaio, 2015, prefazione di Gianluca D’Andrea e nota di Elio Grasso). Cura, con enti e associazioni, eventi e incontri culturali.

Alfredo Rienzi, una poesia inedita “Qui i verbi rinunciano, i presagi non dicono”, nota di Ranieri Teti

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Cosa resta, quando anche i verbi rinunciano e i presagi non dicono?

Per fortuna rimane una figura, vigile anche se colta in un passo simile a uno smarrimento, in un passo che affonda.

L’atto di resistenza poetica è memoria del sottosuolo, terra estrema, fertile per un seme o per un rizoma che si diffonderà.

Il valore della parola vive nella poesia, che registra, oltre le apparenze, il vero.

Alfredo Rienzi infatti resiste con alcuni verbi fossili, criticamente e con lucidità resiste senza cedere all’idea di catastrofe. Nel silenzio, nell’anfratto dove la storia ha deportato le idee, in questa notte nera, le parole necessarie per ridefinire il mondo saranno portate da chi può nominarle.

 

 

Qui i verbi rinunciano, i presagi non dicono

 

Dicono questi versi

di nulla che succede,

non descrivono fatti.

Resiste qualche raro verbo fossile:

sta, aspetta, disperde.

 

Questo vuole l’ebbra superficie:

al troppo dire, al morso dei ragni

opporre silenzî di arenili

boccheggii di meduse.

 

Sotto, dentro, diffidiamo delle albe:

ci serve notte, ancora

di radice e di seme

ci serve buio, dentro,

la sua morente schiera.

 

Qui, in superficie, i verbi rinunciano

 

i presagi non dicono.

 


Alfredo Rienzi, nato a Venosa nel 1959, risiede dal 1963 a Torino, dove esercita la professione di Medico.

Poeta e saggista. Nel 1993 ha pubblicato Contemplando segni, silloge poetica vincitrice del X Premio “Montale”, in Sette poeti del Premio Montale, (Scheiwiller, 1993); i successivi volumi sono Oltrelinee (Dell’Orso, 1994) e Simmetrie, Pref. di F. Pappalardo La Rosa, (Joker, 2000), entrambi segnalati al Premio Montale sez. Editi, eCustodi ed invasori(Mimesis-Hebenon, 2005). I volumi citati sono in parte confluiti ne La parola postuma. Antologia e inediti, pubblicata da Puntoacapo Ed., Novi L., 2011, in quanto opera vincitrice del Premio Fiera dell’Editoria di Poesia (con pref. di G. Linguaglossa e postfazione di M. Marchisio).L’ultimo volume in versi è Notizie dal 72° parallelo (Joker Ed., 2015, con pref. di D. Gigli e postfazione di S. Montalto), Premio Civitella-Pelagatti, tradotto in alfabeto Braille, e Premio Metropoli di Torino.

Ha all’attivo collaborazioni e/o contributi creativi e critici con numerose riviste e siti di poesia e letteratura nazionali ed è inserito in varie Antologie critiche sulla poesia contemporanea (tra cui: G. Linguaglossa, La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte, 2002, e La nuova poesia modernista italiana, EdiLet, Roma, 2010; S. Montalto, Tradizione e ricerca nella poesia contemporanea, 2008; L. Benassi, Rivi strozzati – Poeti italiani negli Anni Duemila, 2010; G. Lucini, Poeti e poetiche-I, 2012; G. Linguaglossa, Critica della Ragione Sufficiente, 2018).

Ha partecipato alla traduzione di OEvrepoétiquedi L. S. Senghor, in Nuit d’Afrique ma nuitnoire – Notte d’Africa mia notte nera, Harmattan Italia, Torino-Paris, 2004, a cura di A. Emina. Suoi testi sono tradotti in rumeno ed in inglese.

Come saggista ha pubblicato Del qui e dell’altrove nella poesia italiana moderna e contemporanea, Dell’Orso, 2011, Finalista al Premio Soldati-Pannunzio 2016 e Premio per la saggistica Metropoli di Torino 2016.

Attualmente collabora con i comitati di redazione delle collane di poesia di Joker Editore. È tra i collaboratori e sostenitori di Amado mio, foglio letterario torinese fondato nel 2014 da Marcello Croce e Luca Borrione.

Francesco Vasarri, dalla raccolta inedita “Rerum Creatarum Pavanae”, nota di Giorgio Bonacini

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Leggendo queste pagine la prima osservazione è quanto, in queste poesie, lingua e suono siano soggetto e oggetto, selezione e combinazione, paradigma e sintagma intrecciati in un unico significante che include la natura in un ritmo e il ritmo in natura. La parola poetica si carica di materia organica in osservazione concreta, quasi primordiale. Cantare larve bastevoli disfatte e arse può sembrare un azzardo sperimentale, ma è invece una necessità sostanziale che nasce dalle cose che ci sono e che nel loro movimento devono essere dette. Vasarri, in questo modo, porta la scrittura fin dentro il corpo della nominazione, dove la carne spoglia respira e ne sente l’odore. Perché solo una lingua poetica che si sviluppa e si insinua in un reale pastoso e contorto, è capace di tanto. Il senso che ne emerge è un rivolgimento continuo, alla ricerca del vero che sta nel poco: nella incommensurabile e fondante povertà della voce iniziale: ouverture creaturale al di qua e al di là del principio. Il fare di questi testi sembra così scaturire da un conglomerato di segni che vanno sciogliendosi in musica: un canto vocalico che rimescola la distinzione tra fonia e grafia, andando a prendere ciò che sconcerta; non per stupire il lettore, ma per dare nuova riconoscibilità alla “crosta muta”, al suo generarsi in un dire quasi fosse “un ultimo soffio di fiato”. E questa è la conseguenza estrema in cui la poesia può riprendersi ciò che le spetta: fossero anche solo “poche sillabe”, o una larva di senso in proteiforme materia, in tensione oltre se stessa affinché “avanzi la vita”.

 

 

Falso esergo del lupo

 

Non c’è.

Non l’abbiamo

mai visto.

Confitto

nella lisca del male.

Per generosa confisca.

 

[E anche se ce l’avessimo…

o se lo fossimo noi…

correi, rodendone l’osso…

Domesticarlo. Mai.]

 

 

Da “Fioretti e variazioni”

 

Tutto quel gergo di anime.

 

Almeno servisse a qualcosa.

Almeno potesse decidersi

che dopo le spine,

la rosa.

 

 

 

Da “Diminuendo”

 

***

 

Consèrvati dovunque

levigato in miriade,

scheggia, spina e prepuzio.

 

Per tornare a chiudere il cerchio,

a riattizzare l’inizio.

 

[Ma quanto perdi, mantice fioco, fiato.

 

Come non s’è infuocato, non prende fiamma

nella sua solitudine il rovo.]

 

 

***

 

Io c’ero. In culto. In fissità d’immagine.

Lacrima d’io, voce travolta, fronda

contro la quale battere in rivolta.

E con che diligenza vi battevo.

Decisamente io vi andavo a sbattere,

vi ci sbattevo, sì, io lì sbattevami.

 

Che dio manchi in vertigine.

E faccia fuoco vergine.

 


Francesco Vasarri è nato a Bagno a Ripoli (FI) nel 1987. Vive a Firenze, in Oltrarno. Dottorando in italianistica presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi dedicata all’entomologia nella letteratura italiana contemporanea, ha pubblicato, su rivista, in atti di convegno e per volumi collettanei, diversi saggi sulla poesia del secondo Novecento (Caproni, Cavalli, Lamarque, Merini, Parronchi, Valduga, Zanzotto). Ha tenuto, nell’ambito dei corsi universitari di Anna Dolfi ed Ernestina Pellegrini, lezioni di didattica integrativa sulle poetesse del secondo Novecento, su Caproni, Sereni, Gadda e Landolfi.

Ha partecipato, con suoi testi o letture commentate, a manifestazioni pubbliche (Giornata della Poesia, Fiorano Modenese – MO, 2008 e 2014; Perché poeti in tempo di povertà, Firenze, 2016 e 2017). Dal 2017 collabora al Festival internazionale di poesia Voci lontane, voci sorelle, Firenze.

Nel 2008 si è classificato secondo al concorso Ottottave; nel 2014 primo per la sezione Inediti (ex aequo con Antonella Ortolani) al XX Premio nazionale di poesia Alessandro Contini Bonacossi.

Ha esordito nel 2016, per la collana «Opera Prima» di Anterem, con il libro di versi Don Giovanni all’ossario.

Giorgio G. Adami, nota biografica e altre opere

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Giorgio G.Adami è nato a Verona il 7.8.1935.
Autodidatta , dipinge dal 1950. Ha seguito stages tenuti da qualificati maestri: A.Tavella, G. Celada, R Licata, R. Da Lozzo, N. Sene, per verificare e perfezionare le tecniche personali già acquisite.
Dopo l'esordio consueto m mostre provinciali, partecipa a varie rassegne nazJonah e mternazionati:
Roma, Venezia, Milano.Trento, Bolzano, Salisburgo, lnnsbruck, Rosario-Argenuna, Mexico, Parigi, Osaka, Monaco m Baviera, Sao Paulo(Brasllc), WashingtOn (USA).
Mostre personali in ltaha e all'estero.
Nel 1992 è invitato alla 3" edJZ1one di " Pittura a Verona" ( 1975-1991 ), curata da A.Mozzamban1 e L. Meneghelli, a Sona (Vr)
Il Comune di Verona,Assess.alla Cultura gli dedica nel 2006 una vasta antologica presso il Palazzo della Gran Guardia a Verona, a cura di Luigi Mencghclli . E' il riconoscimento di una attività durata oltre 50 anni, segnata dalla continua ricerca di purificazione dei mezzi e delle intenzioni.
Parallelamente alla pittura ha compiuto lo studio del canto, perfezionandosi nel repertorio classico antico, che lo ba portato a collaborare con diversi art1st1 e istituzioni mus1cal1
Segue Biografia di Giorgio G.Adami:
Sue opere in collezioni pubbliche:
Galleria d’Arte Moderna A.Forti,Verona - Young Museum, Revere (MN)

Piccolo racconto

Pdue paesaggi

Sue grafiche sono state inserite nelle seguenti pubblicazioni:
ANTEREM – Rivista di ricerca letteraria n.42-1991 – Verona
ELDORADO – Romanzo di Nereo E.Condini, ed.Anterem, 1991
LETRAS ABIERTAS, Rivista de Comunicacion Creativa, Madrid, n.2 e n.3 – 1992
BOUQUET – 110 frammenti in prosa di Marco Furia, ed.Anterem, 1992
CODICI - Poesie di Aldo Ferraris, ed.Anterem, 1993
IMPROVVISO E DOPO – Poesie di Giuliano Mesa, ed.Anterem, 1997
GRAMMI – 40 disegni di G.G.Adami, ed.Anterem-Verona 1997
MM’S Revolution, a Menippean Satire - di Madison Morrison. Ed.East & West,1998
VENTAGLIO, Poesie di Cinzia Ferro, ed.Cierregrafica, Verona, 1999
SCENES FROM THE PLANET, Prose di Madison Morrison, ed.Sterling Publisher ltd -New Delhi, 2001
CONTRASTI D’AMORE – poesie di Gilberto Antonioli – 2012
METROPOLIS –303 incisioni di 303 artisti, in un libro rilegato a leporello – ed.Centro Internaz.della Grafica, Venezia,2014. Il volume è stato esposto in musei e biblioteche pubbliche in Italia,Germania, USA, Brasile.
VARIE – Opera Prima, poesie di Massimo Stirneri - Ed.Cierre Grafica/Anterem, Verona

Dall'alto in basso, le opere sono "Piccolo racconto", "Due paesaggi", "Racconto d'autunno". La tecnica dei dipinti è olio e smalti su carta, solo "Due paesaggi" è un olio su tela, cm 70x50.  
 

Ultima pagina: Autori presenti in “Carte nel vento”

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Sebastiano Aglieco, Nadia Agustoni, Alessio Alessandrini, Pietro Altieri, Viola Amarelli, Angelo Andreotti, Marcello Angioni, Cristina Annino, Gian Maria Annovi, Lucianna Argentino, Davide Argnani, Giuseppe Armani, Alessandro Assiri, Daniela Attanasio, Dino Azzalin

 

Luigi Ballerini, Paola Ballerini, Daniele Barbieri, Bianca Battilocchi, Maria Angela Bedini, Daniele Bellomi, Primerio Bellomo, Mario Benedetto, Dario Benzi, Riccardo Benzina, Pietro Antonio Bernabei, Armando Bertollo, Giorgio Bona, Leonardo Bonetti, Doris Emilia Bragagnini, Silvia Bre, Fabrizio Bregoli, Alessandro Broggi, Roberto Bugliani, Simone Burratti, Giusi Busceti, Antonio Bux

 

Laura Caccia, Rinaldo Caddeo, Nanni Cagnone, Maria Grazia Calandrone, Giovanni Campana, Mario Campanino, Enzo Campi, Giovanni Campi, Martina Campi, Emanuele Canzaniello, Maddalena Capalbi, Michele Cappetta, Allì Caracciolo, Alessandra Carnaroli, Lorenzo Carlucci, Anna Maria Carpi, Peter Carravetta, Alberto Casadei, Mauro Caselli, Guido Caserza, Paola Casulli, Alessandro Catà, Alessandra Cava, Roberto Ceccarini, Giorgio Celli, Alessandro Ceni, Rossella Cerniglia, Marilina Ciaco, Viviane Ciampi, Gaetano Ciao, Laura Cingolani, Gabriella Cinti, Domenico Cipriano, Roberto Cogo, Osvaldo Coluccino, Tiziana Colusso, Silvia Comoglio, Federico Condello, Nicola Contegreco, Antonino Contiliano, Morena Coppola, Giorgiomaria Cornelio, Marina Corona, Marcella Corsi, Elena Corsino, Erika Crosara, Albino Crovetto, Lia Cucconi, Miguel Angel Cuevas, Vittorino Curci

 

Mauro Dal Fior, Anna Maria Dall’Olio, Chetro De Carolis, Alessandro De Francesco, Enrico De Lea, Chiara De Luca, Lella De Marchi, Evelina De Signoribus, Riccardo Deiana, Silvia Del Vecchio, Fernando Della Posta, Pasquale Della Ragione, Stefano Della Tommasina, Aurelia Delfino, Tino Di Cicco, Danilo Di Matteo, Vincenzo Di Oronzo, Stelvio Di Spigno, Letizia Dimartino, Edgardo Donelli, Paolo Donini, Antonella Doria, Patrizia Dughero, Giovanni Duminuco

 

Marco Ercolani, Franco Falasca, Gabriela Fantato, Anna Maria Farabbi, Roberto Fassina, Silvia Favaretto, Francesco Fedele, Federico Federici, Annamaria Ferramosca, Paolo Ferrari, Aldo Ferraris, Luca Ferro, Paolo Fichera, Massimiliano Finazzer Flory, Zara Finzi, Raffaele Floris, Rita Florit, Ettore Fobo, Giovanni Fontana, Luigi Fontanella, Valentino Fossati, Biancamaria Frabotta, Kiki Franceschi, Tiziano Fratus, Mario Fresa, Lucetta Frisa, Adelio Fusè

 

Gabriele Gabbia, Miro Gabriele, Tiziana Gabrielli, Marinella Galletti, Carmen Gallo, Gabriella Galzio, Guido Garufi, Paolo Gentiluomo, Mauro Germani, Fabia Ghenzovich, Alessandro Ghignoli, Gianluca Giachery, Anna Maria Giancarli, Lino Giarrusso, Andrea Gigli, Patrizia Gioia, Carolina Giorgi, Marco Giovenale, Alfredo Giuliani, Lorenzo Gobbi, Marcello Gombos, Llanos Gomez Menéndez, Giuseppe Gorlani, Alessandra Greco, Angela Greco, Cesare Greppi, Lino Grimaldi, Maria Grimaldi Gallinari, Giovanni Guanti, Ermanno Guantini, Vincenzo Guarracino, Mariangela Guàtteri, Gaia Gubbini, Gian Paolo Guerini, Stefano Guglielmin, Andrea Guiducci

 

Giovanni Infelìse, Maria Grazia Insinga, Carlo Invernizzi, Stefano Iori, Francesca Ippoliti, Gilberto Isella

 

Ettore Labbate, Michele Lamon, Marica Larocchi, Vincenzo Lauria, Alfonso Lentini, Laura Liberale, Tommaso Lisa, Oronzo Liuzzi, Andrea Lorenzoni, Francesco Lorusso, Ghérasim Luca

 

Loredana Magazzeni, Marianna Marino, Emanuela Mariotto, Attilio Marocchi, Raffaele Marone, Francesco Marotta, Giulia Martini, Giulio Marzaioli, Vincenzo Mascolo, Stefano Massari, Mara Mattoscio, Alessandro Mazzi, Luciano Mazziotta, Daniele Mencarelli, Manuel Micaletto, Emiliano Michelini, Marco Mioli, Francesca Monnetti, Daniela Monreale, Gabriella Montanari, Emidio Montini, Romano Morelli, Sandra Morero, Alberto Mori, Alessandro Morino, Renata Morresi, Gregorio Muzzì

 

Luigi Nacci, Paola Nasti, Giuseppe Nava, Stefania Negro, Davide Nota, Marco Nuzzo, Francesco Onìrige, Cosimo Ortesta

 

Luca Paci, Marco Pacioni, Alessandra Paganardi, Carla Paolini, Alice Pareyson, Paola Parolin, Angela Passarello, Giuseppe Pellegrino, Camillo Pennati, Gabriele Pepe, Daniela Pericone, Roberto Perotti, Luisa Pianzola, Antonio Pibiri, Renzo Piccoli, Antonio Pietropaoli, Pietro Pisano, Stefano Piva, Daniele Poletti, Gilda Policastro, Chiara Poltronieri, Giancarlo Pontiggia, Nicola Ponzio, Michele Porsia, Stefania Portaccio, Claudia Pozzana, Chiara Prete, Loredana Prete, Maria Pia Quintavalla

 

Jacopo Ramonda, Giuseppina Rando, Andrea Raos, Beppe Ratti, Luigi Reitani, Vittorio Ricci, Jacopo Ricciardi, Alfredo Rienzi, Giuliano Rinaldini, Alfredo Riponi, Massimo Rizza, Gianni Robusti, Marta Rodini, Cecilia Rofena, Andrea Rompianesi, Stefania Roncari, Silvia Rosa, Sofia Demetrula Rosati, Lia Rossi, Pierangela Rossi, Giacomo Rossi Precerutti, Greta Rosso, Enea Roversi, Paolo Ruffilli, Gianni Ruscio

 

Luca Sala, Tiziano Salari, Luca Salvatore, Rosa Salvia, Lisa Sammarco, Massimo Sannelli, Marco Saya, Viviana Scarinci, Antonio Scaturro, Evelina Schatz, Giuseppe Schembari, Fabio Scotto, Massimo Scrignòli, Loredana Semantica, Luigi Severi, Sergio Sichenze, Ambra Simeone, Stefania Simeoni, Maurizio Solimine, Lucia Sollazzo, Marco Sonzogni, Pietro Spataro, Fausta Squatriti, Giancarlo Stoccoro, Maria Paola Svampa

 

Antonella Taravella, Gregorio Tenti, Italo Testa, Matilde Tobia, Maria Alessandra Tognato, Silvia Tripodi, Luigi Trucillo, Guido Turco, Giovanni Turra Zan

 

Liliana Ugolini, Tonino Vaan, Roberto Valentini, Camillo Valle, Sandro Varagnolo, Francesco Vasarri, Matteo Vercesi, Maria Luisa Vezzali, Ciro Vitiello, Annarita Zacchi, Simone Zafferani, Paola Zallio, Claudia Zironi

  • Aprile 2019, anno XVI, numero 43
  • Ranieri Teti

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a cura di Mario Varini
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agg. 27/08/2010


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