Beppe Sebaste: Una premiazione virtuale, in forma di lettera

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Il vincitore per “Opera edita” del “Montano” 2019 è stato Beppe Sebaste, con il libro Come un cinghiale in una macchia d’inchiostro, pubblicato da Aragno nel 2018.

Essendo stato impossibile svolgere una premiazione pubblica, che avrebbe ospitato anche un suo ricordo degli anni indimenticabili dell’esperienza di Aelia Laelia che fondò negli anni ‘90, grazie a questa lettera riusciamo a premiarlo nella casa virtuale di “Anterem” e del “Montano”.

Va rimarcato che buona parte del premio è stata devoluta dall’Autore all’Associazione Baobab di Roma che si occupa di accoglienza per profughi e migranti. (r.t.)

Copertina - Come un cinghiale in una macchia d'inchiostro

Cari amici e care amiche del Premio Montano e della rivista Anterem, buongiorno. Io vi ringrazio, anche se non vi ho mai incontrato, e anche se non so perché il mio libro abbia vinto il Premio Montano 2019. Forse, ho pensato, per avere l’occasione di parlare (di) poesia, di parlare il linguaggio della Lode (come si dice riferendosi al Divino) e cercare quindi di pulirsi la coscienza (cosa difficilissima). Lodare il Divino (sive Naturam, se preferite) e pulirsi la coscienza, sono la stessa cosa. Si fa con azioni diverse, una delle quali è appunto scrivere poesie, una pratica non priva di austerità che in altre lingue sarebbe definita “arte marziale”, o meglio: ”Via”. «Prendere la poesia sul serio», ha detto una volta Allen Ginsberg, significa praticarla «come una specie di sadhana, di sentiero sacro, o una forma di yoga». Non «come un’arte beneducata o una disciplina accademica, piuttosto una santità».

Se rientra nel suo orizzonte anche il premio che io avrei conseguito nell’anno 2019, l’anno del Covid, la faccenda si fa seria. Questo premio, e lo sfondo sociale, biopolitico in cui ha preso forma, è stato per molti un’ennesima conferma (per altri forse la scoperta) dell’assoluta impermanenza di ogni cosa e di ogni essere, di ogni azione, della fragilità irrilevante delle nostre umane aspettative e della nostra tenera illusione di programmare e affaccendarci per mantenere i programmi. Se la nostra consapevolezza si allarga e ne guadagna, non è tempo perduto. In questo senso, questo premio senza premiazione è stato un insegnamento dello stesso tenore, se non della stessa stoffa, di cui è fatta la poesia.

Un premio conseguito da un libro di poesie mi fa pensare all’incipit ioneschiano di una poesia contenuta nel mio libro, “Suonano alla porta”: “Quando suonano / alla porta / non si sa mai / se c’è qualcuno / o no”. Ecco, il premio Montano è stato per me una folata di vento di questo genere, un evento che non si sa se è accaduto o no.

Quando pensiamo di essere pronti a qualcosa, in realtà non siamo mai pronti. Credo che sia la ragione principale per cui scrivo poesie, sono tornato cioè a scrivere parole e frasi spezzate, inconcludenti e perentorie. Sempre di più ci accorgiamo che in verità tutto è frantumi, provvisorio, impermanente. Tutto. Non lo insegna solo il Buddha, lo insegna la poesia.

Queste parole non sostituiscono il discorso che avrei dovuto fare a Verona se il premio fosse stata occasione per parlare di poesia, parlare poesia, e rispondere anche al vostro invito a evocare la storia di Aelia Laelia, una “etichetta” (piccola etica) editoriale che contribuii a fondare quasi trent’anni fa, e che rivendicava il compito di pubblicare solo libri impubblicabili e necessari, quindi bellissimi (tra gli altri, di Amelia Rosselli, Carlo Bordini, Livia Candiani, Patrizia Vicinelli). Ma ancora non ho avuto io risposta alla domanda: perché mi avete premiato? Forse per parlare tutti insieme della nuda verità dell’accadere, del tempo, del kairos? Mi sono sentito, confesso, un po’ profugo: dal mio libro, dal premio, da un incontro con voi. Non è l’unica ragione per cui ho deciso di donare buona parte del premio a chi organizza accoglienza concreta per i profughi e i migranti – associazioni su base volontaria il cui lavoro benemerito e necessario viene puntualmente sgomberato da chi detiene le redini della legalità – come accade per esempio troppo spesso all’associazione Baobab a Roma. Forse la poesia esiste per questo, per andare oltre la legalità senza subirne troppo le conseguenze?

Credo che il sentimento e l’esperienza di essere profughi spieghi la poesia meglio di tanti discorsi. È quello che avrei detto a Verona sulla necessità di questa cosa fragile, questa impermanenza in atto, che è la poesia – una verità da non rinviare mai, da accogliere in ogni occasione senza indugio, senza scuse. Adesso. Qui.

Un caro saluto,

beppe sebaste

(Roma, 15 agosto 2020)

Come un cinghiale in una macchia d'inchiostro

Come un cinghiale in una macchia d'inchiostro

Come un cinghiale in una macchia d'inchiostro

(Altri testi e la nota critica di Rosa Pierno saranno pubblicati nel prossimo numero di “Carte nel vento”)