Adriano Marchetti: Una recensione di Lorenzo Tinti

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Adriano Marchetti

Proponiamo l’esaustiva recensione, apparsa in Bibliomanie.it, di Lorenzo Tinti su Scritture di passaggio di Adriano Marchetti, vincitore del “Montano” nel 2007 per la sezione “Opere scelte – Regione Veneto”.

In questo volume, edito da Anterem Edizioni, Adriano Marchetti propone autori esemplari del ‘900 di lingua francese attraverso preamboli, saggi e traduzioni inedite di scrittori noti e di altri meno conosciuti dal pubblico italiano. Partendo da un recente passato ci offre contemporaneamente un’idea di futuro della poesia. Per ordinare il volume scrivere a info@anteremedizioni.it


Adriano Marchetti, Scritture di passaggio. Preamboli, saggi, traduzioni, Anterem, Verona 2007, pp. 141.

«Avere un mondo significa rapportarsi al mondo.»
Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo

Un uomo che attraversi la geografia instabile delle humanae litterae senza un metodo è un uomo che rischia di perdersi, ma il metodo non è l’uomo. Quando il rigore del metodo diviene «rassicurante specialismo», «pensiero unico», «conformismo», «terrorismo intellettuale», quando la strumentazione di quello si trasforma in solidi binari che preservano la ricerca dal disordine e dalle contraddizioni dell’esperienza, quando in nome di quello il critico veste i panni rassicuranti della «divisa ufficiale del suo ruolo», è dubbio se la luce del metodo più guidi o più accechi. Ecco perché, crediamo, Adriano Marchetti ha collocato programmaticamente in apertura di volume la sua Introduzione a Qu’est-ce que la littérature?, in cui riconosce a Charles Du Bos il merito di essersi «sottratto alla frequentazione dei modi correnti dell’interpretazione».

«La sua idea di letteratura non corrisponde alle istanze dell’elaborazione scientifica della letteratura, né alla rinuncia di ogni rapporto soggettivo tra l’opera e il suo lettore. […] egli ha inaugurato quell’età aurea della critica in cui l’attività dell’interprete ha acquisito la dignità di un’autentica creazione letteraria. […] in tale ambito si sviluppano le riflessioni di Du Bos, all’incrocio tra una letteratura mistica e una mistica del pensiero, luogo più congeniale al letterato sia rispetto a una teologia speculativa o negativa che a una critica formalistica o ideologizzata, linguistica o strutturalista». Insomma, non esiste attività ermeneutica o traduttologica capace di svincolarsi dalle secche di certa astrattezza accademica, se prima non ha saputo affidarsi allo spazio chimerico e mai del tutto afferrabile che conduce dalla parola all’essere, se non ha accettato l’idea che nell’analisi rispettosa dell’Altro è insito il rischio del riconoscimento del sé («volevo diventare me stesso per intermediazione dell’Altro coniugato nei modi più disparati possibili, convinto com’ero che ogni pensiero si riflettesse su un altro pensiero e insieme si nutrisse di immaginazione. Niente di dottrinale agiva in questo riflesso. La lettura forniva materia al mio essere e al contempo proteggeva la sua parte d’ombra e d’enigma»).

Ci si potrebbe chiedere – e chi scrive lo ha fatto – il motivo del titolo attribuito dall’autore a questa crestomazia dei suoi scritti, a questa «antologia elettiva, ma anche severamente selettiva, della sua pluriennale attività» (dal saggio conclusivo di Enrica Salvaneschi). Siamo convinti che siano possibili due ordini di risposta, senza che l’uno escluda l’altro. Anzitutto un’autentica ammissione di modestia: Scritture di passaggio nel senso di “esercizi paratestuali” (preamboli), di “prove letterarie liminari” (saggi), di “testi di servizio” (traduzioni), transeunti giacché sempre perfettibili, orbitanti – come falene impazzite di luce – attorno al testo primario, quello sì eterno (aere perennius). Da cui la necessità di evitare ogni presunzione sistemica, anzi di farsi tentare dalla polifonia di «un dispersivo dilettantismo», poiché i sistemi teorici non sono che sovrastrutture artificiali soggette alla temporalità, mentre a rimanere sono le esperienze di verità: quella della parola poetica, comunque originale, e quella della voce che la interroga, purché sappia scendere dal piano rassicurante del monologo a quello compromissorio del dialogo. «Il Marchetti, dunque, a mio parere dissimula, nella professione di critico, una tensione propria, un proprio contributo, sofferto e offerto, di creatività; e volta per volta si misura con i suoi modelli, senza presunzione alcuna ma ben consapevole di sentirsi loro simile e fratello» (E. Salvaneschi). Eppure, secondo un’altra possibilità di lettura, in fondo complementare alla prima, il titolo può essere interpretato nell’accezione platonica di “strumenti di elevazione”, “esperimenti di ascensione”, dal momento che nessuna prassi – per quanto precisa – può persuadere se non è animata dalla tensione erotica che media tra la parola d’autore e l’Essenza che ne è veicolata («L’accoglimento della parola è dettato da un’intenzione, platonica, di approssimazione alla verità dell’opera e comporta un’elaborazione eclettica in vista di un rinascere al non-tempo. L’essenza della letteratura non scaturisce da una teoria, ma da una erotica, dall’“incontro di due anime”, e ogni volta che tale evento accade»).

Scritture di passaggio, edito da Anterem con il patrocinio della Regione Veneto (premio speciale della Giuria per il Premio di poesia Lorenzo Montano), è il segno del riconoscimento ufficiale attribuito al lavoro critico e di traduzione svolto da Adriano Marchetti nel corso della sua attività accademica[1]. Il volume riunisce una scelta rappresentativa dei suoi scritti, distribuendoli in quattro sezioni (Custodi delle lettere, Tradotti dal silenzio, Costellazioni, Fuori gioco) e definendo un preciso percorso di significato. Anzitutto lo spazio sacro dei Custodi, abitato dalle figure ibride di critici-scrittori: Charles Du Bos e la sua fiducia plotiniana nel Verbo della letteratura; Jean Paulhan come incarnazione della coincidenza di esprit de géométrie e di esprit de finesse, Suzanne Lilar e la ricerca intorno al luogo metaforico in cui vita e poesia si intersecano e, infine, Pierre Oster, autore di una «scrittura ellittica e pensosa». Meditando le opere di queste figure, Adriano Marchetti denuncia fin da subito di non voler evitare il rischio del rispecchiamento. Il custode (dal latino custos) è anche colui che segrega, nasconde; l’etimo della parola rimanda addirittura al sema del furto (si pensi al greco keútho, “rubare”): il custode è allora colui che ruba e protegge. Del resto non è Hermes, divinità protettrice del lógos, del viaggio e del furto, a introdurre il concetto di ermeneutica? Nell’atto perpetrato dal vero interprete, nondimeno, non c’è tanto l’ardire di Prometeo, quanto la pazienza e la fede di un rabbino, il quale, se sottrae qualcosa alla Verità, non lo fa solo per capire o per far capire ma essenzialmente per capirsi, in un silenzio contemplativo («In Du Bos non si saprebbero negare neppure certe risonanze del modello ebraico, per il quale la letteratura è impensabile se avulsa dal referente soprannaturale. Ma l’armonizzazione di quelli che sono generalmente considerati all’origine nella storia delle civiltà come i due modelli diversi con cui interpretare la condizione umana è già stata attuata dai Padri della Chiesa. Se il Classicismo francese ha spezzato la circolarità di quel dialogo tra letteratura, religione e pensiero, Du Bos rivendica allo spirito del Verbo, in modo squisitamente letterario, la vocazione di ricongiungere, nel raccoglimento dell’ascolto reciproco delle coscienze, gli anelli della platonica catena magnetica»).

Tradotti dal silenzio, la seconda sezione, rappresenta in pratica una stringatissima crestomazia di traduzioni poetiche. Arthur Rimbaud, innanzitutto, «un essere multiplo, che ha vissuto l’amore, la sensualità nel ricupero di un’energia barbara e nello slancio en avant, aperto all’ignoto»; René Char, da cui promanano epifanie liriche come frutti attesi di un assoluto rigore ascetico; Max Loreau, inteso al recupero della folgorazione, della forza primigenia di una parola ormai estenuata in vane raffinatezze; Henry Bauchau, cultore di una lingua in completa sintonia con il senso, di una limpidezza che, nondimeno, dissimula una profonda ricerca. Il titolo della ripartizione sembra alludere, da una parte, a quella dimensione di raccoglimento rispettoso nella quale si incontrano la solitudine dello scrittore e quella del suo ricettore, dall’altra alla funzione negromantica affidata all’operazione di lettura-traduzione, la sola capace di restituire voce (di riportare alla vita, trans + ducere) a una scrittura ormai allogata nel silenzio assoluto delle pagine richiuse.

Quindi: Costellazioni; capitolo di saggi, introduzioni, postfazioni. Capitolo dedicato ad autori da sempre seguiti e da sempre orientanti (come le costellazioni, appunto), perché continuamente alla ricerca della struttura permanente della mutevolezza. Maurice De Guérin e la sua tentazione, il suo «pensiero permanente, una passione dominante […], il desiderio inappagabile di tradursi in un’opera di verità indicibile e racchiusa nel segreto inviolabile del mito»; Max Jacob e il suo «amore per la tradizione mitica, antica e moderna»; Joë Bousquet e il suo progetto di trasfigurazione alchemica della carne attraverso la rivelazione dell’amore; Simone Weil, infine, alfa Ursae Minoris, autrice amata sopra ogni altra, incarnazione stessa dello sforzo di attingere alla Bellezza attraverso il dolore. Costellazioni, allora, come ciò che si oppone al transeunte, perché segno visibile dell’azione numinosa che può catasterizzare una vita, purché meritevole.

La conclusione della silloge (Fuori gioco) è affidata all’Introduzione, scritta nel 2000, per Tre ballate di Ferdinando Tartaglia. Venenum in cauda? Non è solo questo.  Nel nome del prete-eretico parmense e nella sua deverbazione del Verbo, nella sua dis-dizione materialistica dell’Uno ha termine il libro (che, per quanto, non può essere il Libro) come una sorta di Tsimtsum al contrario: nell’opposizione tra pensiero dell’essere e pensiero dell’esistenza, se il “ritiro” di Dio, la sua negazione di una parte di sé, offre lo spazio-possibilità perché l’uomo nidifichi nel creato, analogamente non è improbabile che nella «capacità» umana «di smarrire se stesso nella totalità del vivere e nell’insoddisfazione di avere in questa totalità riconosciuto un pur sterminato limite» (Saviano) si offra l’estrema via alla riconciliazione con il Principio. Bisogna smarrirsi tra i reagenti organici del mondo, se si vuole tornare a salire dopo una sbornia di ideale; bisogna ridiscendere tra i suoni primi della lallazione, della balbuzie, se si vuole recuperare la propria – autentica – voce. Il capitolo su Tartaglia, se non ci inganniamo, si pone insomma come una specie di Opus postumum kantiano, che non rinnega ma problematizza il percorso precedente, ricordando all’ermeneuta che la ricostruzione del senso è un’operazione rischiosa, mai data una volta per tutte, perché instabilmente librata tra soma e psiché. Coglie nel giusto la Salvaneschi – ma in relazione al saggio sulla Weil – trasentendo in Marchetti una sotterranea vocazione a un «autodafé d’autore, dissimulato appunto, tangente a un silenzio per fortuna nostra non mantenuto, bensì frustato e frustrato da una verbigerazione delicata, maliziosa perché déguisante tuttavia». Poniamo Scritture di passaggio come florilegio, dunque, e “florilegio” come raccolta di fiori del deserto.

(Lorenzo Tinti)  

Bibliomanie.it


[1] Citando dalla motivazione addotta dalla Giuria: «Il riconoscimento è destinato dalla Giuria del premio ad Adriano Marchetti, per gli altissimi esiti raggiunti con il suo lavoro di saggista e di traduttore; lavoro fondato su una scrittura interpretativa che non solo interroga, ma anche si interroga. Marchetti ci indica che accostandosi a un’opera poetica non si è più invitati a estasiarsi, a entusiasmarsi, ma a fare esperienza del suo senso, fino a cogliere il soffio impercettibile che la anima, fino a rimodularne il respiro. Quando ciò accade possiamo parlare di pratica di verità, tanto che l’incontro con l’opera produce nel soggetto un’effettiva modificazione, fino a trasformare la sua coscienza, spostandola, dislocandola. Con Marchetti la critica non è più fondazione di unità di misura e si confronta con l’opera scalarmente; assecondando le molteplici interrogazioni che le parole e i segni non cessano di promuovere, impedendo ai significati e ai risultati mano a mano raggiunti di solidificarsi e irrigidirsi. In questa complessità, ogni esito critico non può che costituire un nuovo inizio, una pietra di un compatto edificio».