NOTA DELL'AUTORE
I. Del nasser
Una serie di testi si è coagulato poco alla volta attorno ad un'idea generica di poemetto per frammenti, episodi da una flebile idea di viaggio, di partenza del clerc: "G.de L.". Che è abbreviazione del nome e cognome di un personaggio storico, scriba e maestro, prototipografo ed umanista, cantore vagabondo e arrabbiato, imparentatosi per [sia pur opinabili e volatili] sinergie culturali prebembesche, con Paolo da Castello, con Giorgio Sommariva, con i barberiniani Auliver e Liberale da San Pelajo, con Amadeo de Villa e Antonio de Nepote e, perché no, con Nicolò e Gabriele da Verona, con i notai della famiglia da Castagnole, col farmacista della Colonna e il servita frate Eliseo; forse anche col matto di Feliciano.
Non propriamente prime versioni né varianti: piuttosto riscritture, ricondensazioni dei fantasmi, riarmonizzazioni metriche, timbriche, riaccordature dall'universo dei mondi possibili della poesia.
Da una parte sta il lavoro sui singoli versi e parole, le pause, gli a capo; dall'altra l'organizzazione dell'insieme, alla luce delle lasse che precedono e che seguono, nell'ideale strutturazione di un unicum, in forma di poemetto, di narrazione in versi, di storia per suggestioni verbali. Nella versione definitiva, "condensata" e scurita nei toni ma molto più musicale, si sono aggiunti infatti dei versi [a guisa di lasse di canzoni] che precedono, si intrudano, seguono e chiudono [provvisoriamente, almeno]. Di quali stati si tratti, non è chiaro, a parte la stesura finale: supposto che di stesura finale si tratti. Ogni testo rinasce e si ricrea diverso ad ogni lettura, sia essa lettura "per gli occhi" o con la voce, e ad ogni lettore differente. Nulla di più indefinito, dunque, di un testo definitivo.
C'è chi dice che occorrerebbe, in una più corretta [e arida?] prospettiva storico-critica, ricostruire il tutto fin dall'inizio, dalle prove della penna alle aggiunte interlineari, alle cancellature, alle maniculae con glosse incatenate, alle prime stesure dattiloscritte o videoscritturate [comprensive, le ricerche, dei files con estensione ".bak"]. Oppure, in una più libera prospettiva poetico-ludica, ricorrere agli exempla della nascita della poesia tout court, per entrare nel circo piuttosto che nell'officina.
Ma sono, ancora, altri discorsi. [Ma il concepimento, il moltiplicarsi delle cellule, l'accrescimento del feto, ancor più se poetico, restino il più possibile, vi prego, privati: e donca, no stemo far massa ciacole].
II. Del scrivar
Mi frulla in testa un fitto chiocciare da torchio, da videoscrittura, e non ricordo cosa posso pensare cosa posso mai aver pensato, anche nel corso di svariati colloqui personali, della necessità di scrivere. Tout que s'exprimant, in palinsesto leggibile solo con la lampada di Wood, diventerebbe facilmente tous qui s'expriment oppure tant qu es ex prima ante... e dunque chi lo sa che cosa sta dietro lo srivere il dire. Perché quando il calamo grigna il gioco va a finire, rinasce per altre strade.
Io macino, immagino, frullo (appunto) e il mio macinare, immaginare, frullare (appunto) finisce per caso in una pagina. Il mio fare poesia? Perché so usare le parole? Perché voglio usare le parole? Non so che dire; meglio: so cosa dire come dirlo, mi piace dirlo, mi piace farlo (e farmi) ascoltare ma non capisco perché altri mi debba o mi voglia stare ad ascoltare se non per il mio piacere.
Mi ritorna in mente un fitto scricchiare di penna, e non ricordo cosa stavo scrivendo né cosa stavo leggendo. Provo a riscrivere le mie poesie, provo a scrivere a caso provo a scrivere a caos, provo a riscrivere (scusa tanto) una bozza di illuminazione sulle motivazioni del mio convivere con il mondo delle mie sinfonie/sinergie/simpatie (da soffrire insieme, da godere insieme).
C'è una forza, credo, per la quale il poeta non può non scrivere e da cui si libera solo sottomettendosi a sè. Ce n'è un'altra, mi pare, per la quale il poeta non può non vivere scrivendo e per la quale non può scrivere senza vivere e non può pensare senza poetare e non può crescere senza amare e non può creare senza fagogitare. Ci sono ragioni, infatti, che inducono l'autore alla scelta della parola e alla sua composizione. Si tratta forse del bisogno di manifestare l'inespresso rinominando l'esprimibile o di svelare la follia della mancanza rendendo nuovo il conosciuto?
Non so che dire: la tradizione muore nell'epigono, rivive nel tradimento, violenta in perpetuo chi si affligge e si completa nel sesso, nella musica. Sono operazioni che distinguono ogni uomo dal proprio simile e che fondano la differenza degli autori rispetto la scrittura. Vogliamo capire quali siano le scelte operabili: meglio: c'è qualcosa che vogliamo davvero capire?
La questione è differente, riguarda forse questioni più intime dell'interpunzione, degli equilibri dei bianchi, degli spazi sonori da offrire, dei timbri che si vogliono suggerire. Ella si coniuga con la comune latitanza là dove non di communi programmi si parla, ma di comunione di stenti; la domanda potrebbe essere: secondo quali nodi? entro e non oltre quali templi? Noi, è vero, non siamo che figure. Nella storia letteraria ecco ciò che si incontra del passato: compagni stranieri di brevi soggiorni, vipere di isole tropicali, teste quadre che preservano e indicano il cammino durante la visita a città sconosciute. Non credo ci siano elementi del lavoro sin qui svolto fra ricerca individuale e lavoro redazionale per un riconoscimento critico-generativo del nostro pari, e per di più ogni intenzione è palese, come se individuare l'occulta memoria comune fosse, ancora una volta, LA differenza. Dire o impaginare, immaginare o dormire, fare o brigare: nel tessuto della poesia (delLA poesia) è presente il carattere della tradizione e il paesaggio jensoniano, gutenberghiano gherardiano, tra manoscrittura insegnamento stampamento e brigatura si scorge là, oltre il limen, appena prima del limen: sta qui dove si possono udire da lontano voci e voci e voci.
Sto facendo molta confusione. Confondo gli input con gli output e li mescolo più o meno liberamente. Quale impossibile schinapsi.
Buon lavoro e un caro saluto.
III. De le vose
C'è poi uno spazio della poesia che è tutto ensembrament legato alla sua fisicità e che, nella fattispecie, richiede che la si dica, che la si legga a voce alta, utilizzando la pagina scritta solo come traccia labile, sorta di partitura. A metà tra il madrigale, l'intavolatura, il copione teatrale. Che il poeta migliora (peggiora) ad ogni dizione, che comunque modifica.
Anche se è vero che nella follia rumoristica di oggi piacerebbe il silenzio della privata lettura, la parola poetica esige la trasmissione orale. Facciamo che le uniche onde sonore da ascoltare siano quelle della parola poetica, che possono anche mimare l'accavallarsi caotico della chiacchera tra sordi. Ma che principalmente di mimetico hanno soltanto la mimesi di se stesse, della bellezza dei propri suoni, dei propri ritmi (astratti come il linguaggio della musica), dei propri silenzi in pausa. Non teatro, non musica, non canto, non dizione. Ma spazio specifico della poesia detta. La rivalutazione del circuito aedico. Omero, minnesanger, troubadours.
IV. De le lingue
Quanto all'idioletto della poesia, che altro si può dire? In un atto verbale creativo qual è la poesia stessa, non ha da essere creato che il codice linguistico, fatto non soltanto di artifizi della retorica, della metrica, della prosodia, ma anche di elaborazioni, trasmigrazioni tra contesti differenti, tra lingua codificata e altre lingue, di ri-creazioni in una nuova lingua che si cerca e si rinnova continuamente, in un idioletto, appunto, che è una marca particolare. Di questa Marca (si passi velocemente alla storia passata) gli idioletti di questi testi vogliono essere l'attraversamento: del dialetto, dei dialetti (anche reinventati e fatti reagire tra loro), delle lingue delle passate poesie: alla ricerca di lontani padri (Auliver princeps, rusticalità Paoline e prealpine).
Quanto alla possibilità delle trascodifiche, non esistono. Solo tracce generiche, aure significanti, ambiti-paradigmi che alludono, ma che portano fuor di binario. Perché gli idioletti stanno, ascoltabili e non spiegabili, a far da tramite tra l'universo mentale dello scrivente e quello (quelli) degli udenti. Loro soli, gli idioletti.
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V. De le fregole
Frammenti. Luogo dove fluttua una realtà forse solo mentale fatta di lacerti di letture, di recuperi da legature con ritagli in pergamena dove nascono poesie d'amore in cattiva lingua volgare, di tangibili solchi lasciati da inchiostri acidi di anni, di lingue inventate alla corte d'Alberic.
Frammenti. Lingua della mente spaccata da fotoni d'artificio, una melassa un blob che duole s'illumina d'improvviso di fosfeni e lucciole, occhi tatto coccole, cortocircuiti di database, universo di vocaboli dalla biblioteca della poesia, delle poesie.
Briciola (soprannome della dolcissima bionda riccioluta figlia del medico Bartolomeo, da Cavassico) ritrovata in certe lingue primordiali, in certe lingue della poesia che suonano il suono delle parole, per sincopi, per armonie medievali, per sillabazioni dell'infanzia. E percorsi, viaggi lumachini o strappi per afasia, dondolandosi nella culla delle dolci amniotiche assonanze che filano suggestioni fantasmi e ritmi di cuore e di altri organi.
Prigioni sonetti. Prigioni canzoni. Molli prigioni da cui i suoni evadono. Prigione lingua da cui scappare con lingue super iper; a confronto con la comprensibilità, duttilità, con la musica delle parole ad esorcizzare l'Assente o l'horror candidulus blandulus.
Ricettacolo, pattumiera fascinosa di avanzi altrui, ri/produttrice di senso, oltre i vuoti della pagina, del video, oltre i vuoti della mente, riempiti di presenze altrui.
Frammenti di una lingua, di una poesia: farsi costruire dai frammenti della lingua della poesia.