Terza pagina/1, Beppe Sebaste e Mara Cini: epistolario intorno alla vita e al "Montano"; una nota di Cini; scelta di testi

Terza pagina/1, Beppe Sebaste e Mara Cini: epistolario intorno alla vita e al "Montano"; una nota di Mara Cini; scelta di testi da "Come un cinghiale in una macchia d'inchiostro", Aragno 2018

 

Cari amici e care amiche del Premio Montano e della rivista “Anterem”, buongiorno. Io vi ringrazio, anche se non vi ho mai incontrato, e anche se non so perché il mio libro abbia vinto il Premio Montano 2019. Forse, ho pensato, per avere l’occasione di parlare (di) poesia, di parlare il linguaggio della Lode (come si dice riferendosi al Divino) e cercare quindi di pulirsi la coscienza (cosa difficilissima). Lodare il Divino (sive Naturam, se preferite) e pulirsi la coscienza, sono la stessa cosa. Si fa con azioni diverse, una delle quali è appunto scrivere poesie, una pratica non priva di austerità che in altre lingue sarebbe definita “arte marziale”, o meglio: ”Via”. «Prendere la poesia sul serio», ha detto una volta Allen Ginsberg, significa praticarla «come una specie di sadhana, di sentiero sacro, o una forma di yoga». Non «come un’arte beneducata o una disciplina accademica, piuttosto una santità».

Se rientra nel suo orizzonte anche il premio che io avrei conseguito nell’anno 2019, l’anno del Covid, la faccenda si fa seria. Questo premio, e lo sfondo sociale, biopolitico in cui ha preso forma, è stato per molti un’ennesima conferma (per altri forse la scoperta) dell’assoluta impermanenza di ogni cosa e di ogni essere, di ogni azione, della fragilità irrilevante delle nostre umane aspettative e della nostra tenera illusione di programmare e affaccendarci per mantenere i programmi. Se la nostra consapevolezza si allarga e ne guadagna, non è tempo perduto. In questo senso, questo premio senza premiazione è stato un insegnamento dello stesso tenore, se non della stessa stoffa, di cui è fatta la poesia.

Un premio conseguito da un libro di poesie mi fa pensare all’incipit ioneschiano di una poesia contenuta nel mio libro, “Suonano alla porta”: “Quando suonano / alla porta / non si sa mai / se c’è qualcuno / o no”. Ecco, il premio Montano è stato per me una folata di vento di questo genere, un evento che non si sa se è accaduto o no.

Quando pensiamo di essere pronti a qualcosa, in realtà non siamo mai pronti. Credo che sia la ragione principale per cui scrivo poesie, sono tornato cioè a scrivere parole e frasi spezzate, inconcludenti e perentorie. Sempre di più ci accorgiamo che in verità tutto è frantumi, provvisorio, impermanente. Tutto. Non lo insegna solo il Buddha, lo insegna la poesia.

Queste parole non sostituiscono il discorso che avrei dovuto fare a Verona se il premio fosse stata occasione per parlare di poesia, parlare poesia, e rispondere anche al vostro invito a evocare la storia di Aelia Laelia, una “etichetta” (piccola etica) editoriale che contribuii a fondare quasi trent’anni fa, e che rivendicava il compito di pubblicare solo libri impubblicabili e necessari, quindi bellissimi (tra gli altri, di Amelia Rosselli, Carlo Bordini, Livia Candiani, Patrizia Vicinelli). Ma ancora non ho avuto io risposta alla domanda: perché mi avete premiato? Forse per parlare tutti insieme della nuda verità dell’accadere, del tempo, del kairos? Mi sono sentito, confesso, un po’ profugo: dal mio libro, dal premio, da un incontro con voi. Non è l’unica ragione per cui ho deciso di donare buona parte del premio a chi organizza accoglienza concreta per i profughi e i migranti – associazioni su base volontaria il cui lavoro benemerito e necessario viene puntualmente sgomberato da chi detiene le redini della legalità – come accade per esempio troppo spesso all’associazione Baobab a Roma. Forse la poesia esiste per questo, per andare oltre la legalità senza subirne troppo le conseguenze?

Credo che il sentimento e l’esperienza di essere profughi spieghi la poesia meglio di tanti discorsi. È quello che avrei detto a Verona sulla necessità di questa cosa fragile, questa impermanenza in atto, che è la poesia – una verità da non rinviare mai, da accogliere in ogni occasione senza indugio, senza scuse. Adesso. Qui.

Un caro saluto,

beppe sebaste

(Roma, 15 agosto 2020)

 

Caro Beppe Sebaste,

ti ho incontrato molte volte. Eravamo insieme dentro ai Narratori delle riserve (in quell’occasione ti ho visto a Cortona, in una specie di chiostro, mentre spingevi un passeggino e c’era un cane lupo. 1992?). Ti ho forse incontrato anche prima, negli interstizi della via Emilia, tra Mulino di Bazzano e Bologna, tra Patrizia e Corrado, tra Giulia e Franco Beltrametti. Ti ho seguito nel sentiero in-segnante dei tuoi libri (che poi mi sembra un solo Libro), chiedendo di te a Franca di Roma o riandando a quella volta che in una mattina di dicembre, gelata, costeggiai il lago di Ginevra (un viaggio in macchina dagli Appennini a Parigi), cercando di situarti anche in qualche geografia terrestre, oltre che poetica. Poi la sorpresa di trovarti tra i libri “da scegliere e premiare”, nell’intricata macchia degli inchiostri (ma con quel titolo ci voleva un disegno di Giuliano Della Casa!), come una rosa nell’insalata. Io so perché il tuo libro ha vinto il premio Montano…

Grazie.

Mara Cini (Anterem)

Lagune di Sasso Marconi, agosto 2020

Dice Sebaste “Niente è più comune di ciò che riteniamo intimo e personale, e niente è più condiviso del disorientamento del perdersi e del ritrovarsi. Insisto da tempo sul valore della soggettività…” Ecco la giustificazione per questa lettera.

 

 

Mara Cini per “Come un cinghiale in una macchia d’inchiostro” di Beppe Sebaste

 

Ritroviamo in questo libro di Sebaste la sua scrittura abitata. Abitata da revenants lontani nel tempo e nello spazio, improvvisamente presenti, al nostro cospetto. Sono apparizioni che in qualche modo ci riguardano, eventi casuali, disordinate illuminazioni che implodono tra il dentro e il fuori dove comincia il volo, e dove / l’immobilità.

Ritroviamo poesie-costellazione, geometrie temporali e geografiche, riverberi culturali e antropologici da Cézanne a Laurie Anderson, da inquadrature alla Hopper [lei è nuda davanti agli alberi sulla sedia] / [io la guardo al di là dagli alberi sul letto] / [con la maglietta bianca] a tagli verso l’infinito che ricordano l’ultima fotografia di Luigi Ghirri.

Ritroviamo molteplici annotazioni, conoscenze e saperi emotivi che albergano in chi scrive e in chi legge. Ecco è questo rimbalzo che vivifica i testi: il pulviscolo del pensato, del guardato, del detto, del vissuto che torna ad essere pensato, guardato, detto, vissuto…rinnovandosi nell’epifania, nella condivisione di un breve momento.

Le poesie del Cinghiale si sfilano da una lettura letteraria, se pure, alcune, squisitamente letterarie nei loro riferimenti stilistici. Da Corrado Costa (proprio di fronte davanti agli occhi / sulla strada che è linea di separazione / degli avverbi: sopra e sotto / proprio di fronte vanno davanti / agli occhi…) a E.E. Cummings (Cara, poiché tu sei una persona / (e vedo le tracce dei tuoi piedi / sulla neve che mi hanno preceduto) / cara…), da Ginsberg (Che io possa amare e essere amato / che io possa illuminare e essere illuminato/ prego ti prego / Ti. ) a Beckett (chi parla / chi è? / chi dice / “chi è”? / Chi è che dice / “chi parla”? / Silenzio. / Quale “silenzio”?).

Sono poesie scritte in un lungo arco di tempo, poesie sparse come si dice, che coincidono di volta in volta con un accadimento, uno sguardo, una lettura, un incontro. Depositati sulla pagina, i frammenti, immagini latenti mai veramente isolate le une dalle altre, ridisegnano disordinate geometrie interiori un po’ come le amate “impressioni fotografiche” di Francesca Woodman.

A volte sono perfetti oggetti-poesia (La poesia non parla di / non dice qualcosa su / ma parla con / è parte della cosa di cui parla / è evento dell’evento del dire / che dice). A volte sono canovacci, idea di romanzo (ecco, la scena è questa, ed è breve (loro non sanno perché stanno lì a guardarlo) / dopo proseguono…) a volte insensate performance (una volta ho suonato a casa mia / a lungo /non mi sono aperto / forse non c’era / nessuno eppure / sentivo chiaramente / trattenere il fiato / dietro la porta).

La scrittura per Sebaste è un viaggio dove è possibile non vedere neanche una parola, è una prova, come nella vita, non sempre superata (mi piacciono…le frasi vuote che falliscono e cadono).

La scrittura è un luogo e un tempo senza unità di memoria che rileva un passato / tanto più remoto quanto più recente. I ricordi di altri improvvisamente sono i nostri. I sentieri che abbiamo percorso portano in luoghi dove non siamo mai stati ma che altri descrivono con i nostri occhi Scrivere è lasciare segni invisibili e / poi vederli.

Le cose (qualunque cose voglia dire) arrivano, si raggrumano nell’inchiostro, poi ci abbandonano, poi ritornano, poi ci abbandonano Lo scrivere…è forma e non è forma come il bagnasciuga / quando le onde disfano ogni segno / che i tuoi piedi e le tue mani subito ricreano...

 

 

Beppe Sebaste, da “Come un cinghiale in una macchia d’inchiostro”, Aragno 2018

 

Parco centrale

diciamo “c’è un albero”, ma

non vediamo realmente l’albero

(...) 

proprio di fronte davanti agli occhi

sulla strada che è linea di separazione

degli avverbi: sopra e sotto

proprio di fronte vanno davanti

agli occhi con la bicicletta vanno

e possono essere uomini

sulla linea di demarcazione

o donne di differenti età o anche

vecchi col giornale oppure

bambini col gelato

(...)

 

Ho fatto molte letture
 

(...)

più tardi compirò un endecasillabo spontaneo “lèggere

fin che non mi viene sonno”

 

ho fatto molte letture di poesie

chi scrive una poesia e poi la legge

crede di avere chiuso un cerchio

è una sensazione idiota e sai che i cerchi

non esistono

e ogni cosa è rotta

 

mi piacciono le parole semplici e le parole rotte

le frasi vuote che falliscono e cadono

 

Disegni amati [Desseins a(n)imés]

A Juliana Reining

 

[lei ha preso le misure sulle sue spalle prima di farlo]

[lei è nuda seduta sulla sedia e fuori il cielo è rosa]

[la finestra nel disegno non si vede ma dalla finestra si vede la gru]

[io sono dietro o di fianco disteso sul letto con la maglietta bianca]

 

[tra lei e la gru c’è la finestra]

[io vedo lei che disegna davanti al vetro]

[lei mi vede dalla gru]

[io sono il vetro, e scrivo le frasi]

[lei è il vetro, non ha gli occhi e disegna]

 

[ci sono gli alberi dentro la finestra]

[lei è nuda davanti agli alberi sulla sedia]

[io la guado di là dagli alberi sul letto]

[con la maglietta bianca]

 

[io sono in basso a sinistra, nel disegno]

(...)

 

La neve di Zermatt

 

Cara, poiché tu sei una persona

(e vedo le tracce dei tuoi piedi

sulla neve che mi hanno preceduto)

cara io ti tradirò sempre per lasciare

le mie tracce, per poter dire

“sono solo” nel mio naufragare

davanti a questa nostalgia (questo

naufragio) e sentirmi perduto

e perdermi, e dirlo:

 

Camminare in silenzio. Ogni tanto

fermarmi. Sulle punte degli alberi

uccelli cinguettano. Guardare.

 

Preghiera

 

(...)

Che io possa amare e essere amato

che io possa illuminare e essere illuminato

prego ti prego

Ti.

Pietà per me pietà per ogni essere

che io possa onorare il mio corpo la mia natura

che io possa onorare la natura di ogni natura

prego. Ti prego

che

io possa a lungo pregare

che io possa essere felice così come ogni essere

prego. Pietà.

Ti prego pietà. Prego pietà di me di ogni essere ti prego. Ti.

 

(suonano alla porta)

 

(...)

Quando suonano

alla porta

non si sa mai

se c’è qualcuno

o no

 

non si sa quasi

mai niente

di quello che c’è

da una parte

o dall’altra

della porta

 

una volta ho suonato a casa mia

a lungo

non mi sono aperto

forse non c’era

nessuno eppure

sentivo chiaramente

trattenere il fiato

dietro la porta

(...)

 

Sorgente

 

La poesia non parla di

non dice qualcosa su

ma parla con

è parte della cosa di cui parla

è evento dell’evento del dire

che dice,

nasce insieme,

come acqua sorgiva,

come bere acqua

dalla sorgente

 

Idea per un romanzo n.2

 

(...)

c’era Easy Rider in televisione, interrotto dalla pubblicità – l’acido

fatto al cimitero con le donne –

         ma c’era una scena nuova (c’è sempre una scena nuova quando

si rivede un film – o quando si legge un libro)

         che non mi ricordavo (ora non me la ricordo) (ora penso solo      

al blues di dylan prima della loro morte) (ora penso a un pensiero

che avevo guardando il film, sul valore dei nomi, sui nomi che hanno

le esperienze, e senza i quali non abbiamo memoria)

         il carnevale, ecco, loro che vanno fuori dal bordello con le

loro donne e camminano (le donne vanno fuori dal bordello e

camminano coi loro uomini)

         loro che camminano e vanno per le strade a vedere il carnevale

isterico nella città – ci sono tante cose pazzesche da vedere –

         ma loro escono dalla città (non era quella la scena)

si ritrovano in una periferia molto vasta con le case, poche, bianche,

         quadrate, si fermano,

ora sono chini a guardare un cane morto, accostato al marciapiede –

ecco, la scena è questa, ed è breve (loro non sanno perché stanno lì

a guardarlo)

         dopo proseguono, e vanno verso il cimitero

 

Scrivere su: fare - l’amore

 

Scrivere nel vuoto. Lo scrivere crea

il vuoto. Immagina

una grande superficie colorata

che muta di continuo,

è forma e non è forma come il bagnasciuga

quando le onde disfano ogni segno

che i tuoi piedi e le tue mani subito ricreano,

ma a colori.

Saltelli sui colori come Harpo che si arrampica

sui neon intermittenti fino al cielo

 

Scrivere è lasciare segni invisibili e

poi vederli.

Esempio di scrittura: l’amore.

Occorre il vuoto per realizzare un abbraccio.

Scrivere nel vuoto, scrivere il vuoto.

L’abbraccio crea l’abbraccio dove

c’è il vuoto, dove (non) c’è

nulla. Poi  

l’abbraccio si scioglie.

Dove è andato l’abbraccio quando l’abbraccio

si scioglie?

Scrivere campi di colore immensi,

impronte d’infinito che debordano

ogni idea, ogni parola al di là di essere

e non essere.

(...)