Silvia Rosa, prosa inedita "Corrispondenza (d)al limite", con premessa di Mara Cini

“che cosa resta di ogni parola sgusciata…”?  Si prenda in mano una parola “sgusciata” e si avrà di questa parola la percezione più personale, spogliata dei significati correnti, riportata a un nucleo di identità sospesa fatta di memoria ed esperienza che la dilata. Ma ogni respiro, ogni sguardo, ogni soffio ha il suo inverso. Allora riappare il guscio che  soffoca, nasconde, racchiude.
Ecco,  dice Silvia Rosa, occorre lasciare la parola giusto a metà del  palmo, al limite della sua esplosione o implosione,  per donarla o serbarla.

 

 

Il limite, finalmente.
Ne sfioro il perimetro, ferendomi sull'orlo arrotato di gelo, io, che al gelo (non) appartengo.

 

Notte (epifania o della chiarità)
E dopo tutto a domandarmi ancora -muta- se sia stato più stupido giocare lealmente al tavolo (che sapevo) del baro, o aver accettato di partecipare a un gioco non mio (in qualità di giocattolo), nonostante facessi sul serio.
[S c a c c o, a prescindere. E l'impotenza del non (aver) detto]
Mi traccio intorno un confine di filo spinato: se sanguinare è necessario un poco a non perdermi esangue, che sia per impedirmi di superarlo di nuovo, quel limite oltre il quale c'è un baratro, specialmente nero di umiliazione.

 

Primo giorno
La voragine aperta dell'Assenza ha la forma di un sorriso scheggiato. Si scivola su qualche lacrima, rugiada di un dolore che si schiude ad ogni alba, ma si procede, a piccoli passi. In direzione inversa. Da lontano che sembra accanto, l'eco di voci amiche.

 

Secondo giorno
Con l'alfabeto della ragione misuro in lungo e in largo la lingua friabile del sentimento -al limite-, uno sguardo vigile sul precipizio, passeggio pensieri e mi interrogo. Come mai sono arrivata fin qui? Con la precisione dei geometri della mente riduco il confine a un grumo di terra, su cui ergo la logica asciutta, il rigore della consapevolezza.
Ho una chiave per liberarmi (?) invisibili catene, la stessa che apre i cancelli oltre il margine segnato d'inchiostro catrame. Nessuna distrazione nell'esercizio di analisi, mi concentro -uno sforzo dal vertice al suolo più sterile- e traccio la rotta dell'inversione.

 

Terzo giorno
Il vertice della solitudine è un chiodo, che ti fissa la carne al Nulla, è il freddo che abita il "Noi", quando l'Altro si fa trasparente, e scopri che era da sempre il non esserci, insieme. Il vertice della solitudine è uno spillo di luce, che ti svela il risvolto del Niente -Amore v(u)otato a perdere- appuntandosi al lembo più tenero (di te), che ti brucia d'offese.
Il vertice della solitudine è una piuma, che se la stringi abbracci te stesso, ti senti l e g g e r o -sul bordo del burrone indietreggi, nessuna vertigine-.
[Possiedi il tuo vuoto -per intero-, è nella mancanza -sola- che esisti]

 

Quarto giorno
Il tempo si è dilatato, i minuti respirano a lungo, e io prendo fiato con loro. Ma non è immobile questo restare sospesa nell'incavo spalancato tra secondo e secondo, questo virare lento dal nero alla macchia più accesa di rosso, questo scolorirsi leggero dell'ombra sfiorando la luce, attraversando silenzi che implodono gli occhi -li svuotano-. Attendo seduta sul ciglio (di me stessa) la rabbia. Quell'urlo che ho tenuto segreto, che precipiti al fondo e poi mi ritorni improvviso all'indietro, per sentirlo in un soffio, il verdetto i r r e v o c a b i l e la sentenza : Signori comprendo, ma no, non perdono Nessuno (tranne me stessa).

 

Quinto giorno
Che cosa resta di ogni parola sgusciata, se al centro il cuore di polpa -il significato- è marcito da tempo, un frammento cubico di una menzogna, un chicco spento bucato di noia, il verme del tradimento? Eppure si dovrebbe credere ancora che il Verbo possa dirsi (l')autentico, che possa coincidere con l'angolo vivo che pulsa annidato tra vertebra e costola, che possa segnare il battito esatto di ogni certezza, che pure nel dubbio si traduce in un interrogativo -qualunque- ma resta incoerente e se stesso. Al confine non vale ascoltare lo sgocciolìo sintetico che spiove tra i denti, l'aderenza di fede tra lettere e Amore: la salvezza dal baratro è in un gesto, in un passo all'inverso.
Che cosa resta di ogni parola sgusciata? Il ricordo della mano che l'ha fatta a pezzi, violandone il senso. Un gesto all'inverso.

 

Sesto giorno
Dove sono stata prima di affondare il respiro nel muro ovattato dell'orizzonte? Ho confuso la linea smerlata del cielo con una catenina di ruggine, annodata stretta alla carcassa del baratro, e a guardarla senza vederla davvero mi sembrava preziosa, un balocco dorato, con cui vestirmi bambina da sposa. Ma nel fondo scuro più fondo del fondo denso di ombre, ci sono solo catene che rendono schiavi e all'unico all'altare si arriva -annaspando in cunicoli bui d'umiliazione- come un'offerta, da sacrificare. Per Niente.

 

Settimo giorno
Possibile che di là dal confine non giunga nemmeno una voce, un alito tiepido di scuse? Possibile che ancora, nel lucore del limite che si apre scucito (un'asola) al bottone dell'alba, non si sappia credere a quel che si è visto -uno schizzo terso di vero-? Si attende, si aspetta qualcosa sprofondando nel centro più molle di un giorno (dopo l'altro), fino a sentirne il sapore di fango tra la fessura di labbra, fino a sentirsene parte, colmando la falda segreta che spurga il silenzio in acqua di sale. Aspetto me stessa, io, per smettere attese e mi abbandono, la pelle contro il recinto di ferro in cui pascolo oggi i miei giorni, al canto stonato di fede, al mio credere, credo che tutto quello che è stato -anche- Niente, per me è stato, e mi scuso, mi pento d'avere svenduto qualcosa che valgo, l'unica in cui credere ha senso. L'unica che ho rinnegato.

 

Un altro giorno
La conta dei giorni è una filastrocca, e io ho otto anni -da sempre- mi sento la stessa, e raccolgo innocente parole dopo parole dopo tutto chiedendo una culla -di quelle che pare ondeggiando che volino lievi- in una virgola, in un punto (di sospensione), la verità delicata parola dopo parola dopo Niente di una carezza perdendomi e invece [...].
Alla frontiera (terra di Nessuno) zolle di rovi, lembi seccati di polvere deserti, io interrogo il limite che mi appartiene e mi puntella lo scheletro di brividi e mi lega e mi tiene, ostaggio dietro grate d'insicurezza. Sto -da sempre- in questo luogo e peso le nuvole, sommo distanze di passi che mi portano dentro me che mi sfuggo, divido i fantasmi in pagliuzze di ombre, che mi lacrimano sguardi di tenerezze (inutili), e cancello con diligenza -in superficie- il fiore selvatico che sembra ogni segno, ogni mia cicatrice.

 

Un giorno a venire
L'inversione possibile è nello scatto obliquo dell'iride verso l'Azzurro, dal precipizio non si sfugge, il precipizio è il buco che coincide con la mia bocca, col mio ombelico, con la geografia di anfratti scuri che mi connotano - (il) Corpo- dentro fino all'atomo più piccolo di vita sfibrato, fino alla mia stessa origine. Il ghigno del baro fantasma carnefice è quella mia cicatrice, il ricamo di sutura con cui l'ho sottratta alla vista -al (mio) perdono- è la catena, che corre lungo derive -di resa- su cui (mi) sprofondo nel vuoto, nel buio senza appiglio pareti, nero su nero oltre il nero medesimo, dove non c'è niente io nemmeno.

 

Epilogo -qualsiasi giorno-
Non si va da nessuna parte. Si liberano fogli increspati di nostalgia -aquiloni che (non) volano, nella pozzanghera che cola d'arcobaleno indifferenza-, si fingono aurore improvvise, tramonti rivelati tra quattro punti -cardinali-, suggello di fine capitolo (chiuso per aprirne un altro uguale), si volta l'angolo e si ritorna a prima, si indugia troppo tra le parole -divaricandole- con le dita affondate nel Senso, a godere poi di che cosa? Di quel Niente che è (stato).
Aspetto me stessa, e spero che arrivi -al limite- d'io con la (mia) mano tesa: un'offerta di tregua, il pane caldo del perdono, uno spicchio di Cielo che non frani la Terra.

[-Stimmate- sulla linea interrotta della vita, a metà del mio palmo, il solco che resta].