Giuliano Rinaldini, da “Sequenza del fico”, con una nota di Rosa Pierno

Giuliano Rinaldini, “Sequenza del fico”, Joker 2008

 

E’ solo a partire dalla perlustrazione della realtà, in questo caso un percorso in una pianura - ma già viene il sospetto che si tratti di puro pretesto – che, fra le maglie delle cose, e più che percepite solo elencate, si ravvisano squarci metafisici in cui un “invisibile aritmico” aleggia fra pali e covoni. Con il repentino, ma distinguibile intervento della memoria, la tessitura del visibile si arricchisce in maniera sostanziale: “(memoria) / guardo i rovesci marci della terra. / campagna aprente il mio orecchio”. A tal punto che più il poeta guarda e meno crede a ciò che di fatto vede, essendo quel che si vede un ibrido risultato, un conglomerato di diversi “materiali”. L’esistente siamo noi. Da un mero dato si passa a un complesso oggetto, dove ben presto le componenti si confondono, sono fittamente intrecciate. Indistinguibili. E’ un attimo e il risultato visivo/mentale diviene più forte fino al punto da sostituire totalmente il reale. Forte al punto da emozionare. Presenza epifanica, con tutto quel che comporta per la conoscenza. O per la rappresentazione. Non è forse solo attraverso essa che si può individuare un processo formativo? E, dunque, ecco che fa ingresso il “coro: / pezza di terra capovolti / visi di argilla. / le cose sono meno affilate / un ossario di cose”. Seguiamo Rinaldini nella continua spola tra percezione e processo conoscitivo (sapendo che la percezione è già parziale processo elaborativo nella costituzione del testo poetico): “e, com’è buona l’aria, / anche se squallida, buona come un’ancella: / altra cosa la poesia : solo un incontro / con una mia miseria”. Poiché passa per questa via qualsiasi definizione della propria individualità: inestricabile dal dato percettivo e culturale. Inesistente senza essi. E anche così suscettibile di essere da loro travolta: “chiusura (ermetismo di me), / torcimento (o tortura) di viscera.”. A dire che l’intervento massivo dell’emotività travolge il paesaggio, lo rende totalmente dipendente: “pianura, come un’arnia lunga e sorda, o una tonnara… / luce di una notte seminata di fanali / sofferenti nell’alba: / di pali elettrici”. Sappiamo con certezza, ora, che presto la pianura rioccuperà l’intera scena con la sua opprimente afa. Rinaldini non manca di avvertire: “di tutti i mali / che può una mente, qui non ne vedo alcuno” ponendo così un sigillo che connota tutta la sua poesia come un atto di altissima quanto paludata investigazione morale.

 

 

Secondo intermezzo

 

sulla strada di lentigione,

giovedì ventotto settembre. verso la foce dell’enza:

le macchie dei fiori alti gialli sugli argini. i pioppi

|allibiti, allisi, stampati sul fondo.

lontano, un rossore di case.

spari.

(un continuo rossore debole)

campane.

rumore di passi (i miei).

pezzi di terra sull’asfalto.

i fiori dei fossi.

sono in piedi con una smorfia e scuto

(nulla in particolare).

(premuto

tra il sole

e la linea del suolo)

la notizia del silenzio

è sui campi.

emerge dall’aridità, durante un giorno:

collega le cose.

(guarigione dei rumori)

essere solo in questo seno.

lontano, sulle ghiove, un cacciatore e attorno i suoi cani.

in mano gli luccica un fucile.

venerdì ventinove settembre, nessun luogo.

non ritrovo il posto del silenzio.

(tutto si mischia, imbrunisce)

le strade e i campi si uniscono in un nodo.

 

Giuliano Rinaldini è nato a Reggio Emilia nel 1981. Laureato in Lettere Classiche a Bologna, attualmente i suoi studi si orientano in ambito biblico e nella poesia italiana del Novecento. Ha pubblicato Cognizione di un’alba, Cierre 2007, nella collana “Opera prima” diretta da Flavio Ermini.