Antonio Prete su Ginevra Bompiani, Premio Speciale della Giuria

Antonio Prete su “Metamorfosi” di Ginevra Bompiani, Premio Speciale della Giuria, sezione “Opere Scelte”

Disporre i pensieri perché accolgano presenze. Collocarsi, con lo sguardo, nel cuore di una pianura dove i viventi –animali, uomini, dei- si mostrano in una loro epifania priva di solennità, e tuttavia ancora sorgente di incantamento: prossimi, e ancora immersi in quella lontananza che è enigma. Seguire gesti e voci dei personaggi fin dove il quotidiano incontra l’inatteso, fin al punto in cui l’accadimento lascia intravedere l’arabesco del destino e la favola smaglia la sua tessitura facendo trasparire il patto con la verità. Questo movimento è come il respiro –sapiente e allo stesso tempo naturale- della scrittura di Ginevra Bompiani. Un movimento che ha la sua modalità propria nella descrizione: un dischiudersi piano del paesaggio via via animato da presenze. Presenze sorprese, si direbbe, mentre balzano verso l’apparenza. E nella descrizione si insinua, quasi inavvertita, lenta, ma sempre più nitida, l’allegoria, o meglio una sorta di declinazione anagogica del vedere. Una meditazione sull’esistenza che sembra coincidere con l’alone stesso di quel che appare, con il situarsi dei viventi nella luce del giorno, o nel silenzio della notte. Così il vecchio gatto, che apre questa autoantologia, malandato e privo di potere, ha un’altra sovranità, sostenuta dal vigore di una presenza che per il fatto stesso di stare sulla soglia della malattia e della fine, è sicura, severa, dispiegata nella sua domestica malinconia. La descrizione, variante dell’antica ékphrasis, ospita il tempo nell’atto del vedere, accoglie il visibile nell’orizzonte della parola. Porta, insomma, alla presenza: rappresenta. Sullo sfondo, il supremo nesso, frequentato da Kafka, tra apparenza e apologo. La passione dell’apparenza sa mascherare, in una noncuranza che è ironia e amore, il legame con ciò che è profondo. Nel piacere della descrizione l’enunciazione è sovrana: la sintassi si fa leggera. La sintassi è un pensiero del dire più che una forma del dire. Questo modo della descrizione, che è uno stile e una grazia, appartiene intero a Ginevra Bompiani, è il timbro stesso della sua scrittura. Nel suo svolgersi allude al confine della prosa con la poesia, e per questo ha nella tradizione della scrittura breve –da Hofmannsthal a Walser, per citare solo due nomi- un campo di asciutti mirabili esempi. La scelta dei testi qui disposti racconta, nel succedersi delle sequenze, la tessitura e l’ondulazione di una prosa che è, allo stesso tempo, narrazione e meditazione, fabula ed essai. Nel titolo, Metamorfosi, è detto non solo l’evento che annoda l’apparire con il divenire, l’essere con il suo segreto respiro, ma è anche alluso l’impulso primo della scrittura, che è quello di accogliere il visibile in un’altra forma, sollevandolo in un’altra forma. Fare nella scrittura esperienza di quel “sur-naturel” di cui diceva Baudelaire: “déformer, réformer, surpasser la nature” è il movimento precipuo della poiesis nella modernità. E allora, riflettere sulla metamorfosi è riflettere sul movimento stesso della scrittura. Per questo nelle pagine di Ginevra Bompiani, distese nel piacere discreto ed elegante del narrare, trema il riflesso di una meditazione sulla scrittura. La metamorfosi, questa “scorciatoia dell’eterno”, com’è definita dall’autrice, è condizione animale e umana nella quale permane l’impronta della primitiva appartenenza. Anteriorità silenziosa ed enigmatica. Forse questo intendeva René Char quando scriveva che “gli dei abitano la metafora”: nella lingua che trans-forma, nel movimento della parola che disloca il corpo nel dire, la voce nell’immagine, il sentire nella figura, c’è il respiro di un’appartenenza dei viventi, di tutti i viventi, alla physis. E questo è anche il movimento che porta la prosa di Ginevra Bompiani verso un teatro delle apparenze che allude, in ogni posizione, al mito, dunque all’origine. Un’allusione che non è arretramento nel prima, ma sguardo consapevole e critico sul mondo, sul nostro mondo. Una mitologia che, rifrangendo le sue parvenze nell’oggi, non si mostra secondo i modi classici ma anche consueti della familiarizzazione o della miniaturizzazione, della parodia o della secolarizzazione del sacro, ma si modula come pura presenza. Una presenza che conserva la sua dolce estraneità, la sua lontananza, e tuttavia agisce sul sentire, tanto prossima è alle forme del nostro pensare. Una fascinazione, certo, dell’enigma, ma allo stesso tempo, come accadeva nella prima operetta leopardiana, Storia del genere umano, una meditazione sul limite, sull’umana condizione di finitudine, la quale di tanto in tanto può essere visitata da qualche fantasma dell’origine e poi, con lo svolgersi del tempo, soltanto dal dolce fantasma di Amore. Il mito, come appare nelle pagine di Ginevra Bompiani, è popolato di figure che hanno scavalcato la separatezza contaminandosi, ibridandosi, mescolando i frammenti di cielo con il fango, la purezza del desiderio con l’angoscia del declino. Questa terrestre condizione, che partecipa dell’umano e dell’animale, è la traccia di un’altra magica e silenziosa appartenenza, e avvicina, con un velo ulteriore di teoresi, certe pagine di Ginevra Bompiani alle pagine di Anna Maria Ortese. E ha anche sullo sfondo, per quel confine tra energia della presenza e sfondamento onirico, certi animali della pittura novecentesca, tra Chagall e Franz Marc. Nei bellissimi frammenti provenienti da Le specie del sonno (del 1975), la terra incantata del mito ha velature che, prive di nostalgia, inducono a meditare sulla bellezza, sul desiderio, sull’impossibile. Eracle che insegue la cerva volendo catturare il desiderio, il desiderio nella sua assoluta purezza, è una figurazione del mito che del mito mostra l’essenza: racconto che si apre sulla grande scena della vita e della morte. Dissolte le tracce delle mitografie simboliste -che dal giovane Gide mallarmeano al nostro Pascoli a Valéry e oltre hanno sovraccaricato il mito di domande provenienti dalla sensibilità contemporanea- dissolta anche ogni declinazione estetizzante, queste pagine accolgono del mito una sorta di evidenza metafisica, un gioco di presenze che rinviano, tutte, alla tela fragilissima dell’esistenza, ai bagliori del suo apparire, del suo perdersi. Nel brano tratto da L’amorosa avventura di una pelliccia e di un’armatura sono due confini a farsi linguaggio: il confine del corpo di Franz con l’armatura, il confine del corpo di Murmin –animale e bambina- con la pelliccia. Come se alla superficie del corpo fosse concesso il privilegio di sottrarsi all’opacità della vita per poter percepire il ritmo nascosto delle cose. In una terra desertificata, in un paesaggio postumo, la percezione del vivente, la sua stessa nascita, è affidata al miracolo della metamorfosi: le libellule dissipano, con la loro azzurra trasparenza, il chiuso cerchio dell’aridità. Favola, favella: la vichiana contiguità tra la favola e la lingua, tra il mito e il linguaggio, è narrata, appunto favolisticamente, in Pesci fuor d’acqua. E la narrazione, come nelle Mille e una notte, sospende la morte, ma lungo il dialogo che il pesce preso all’amo intrattiene con il pescatore trascorre, pur velata, una moralità che oppone alla violenza del dire la profondità del tacere. Ancora sul confine -“tremante confine”- tra l’uomo e l’animale si attestano le pagine seguenti, che nel loro ritmo hanno esse stesse il trascolorare proprio della prosa saggistica che unisce narrazione e teoresi. La metamorfosi come passaggio, rovesciamentto, dislocazione, ma anche come scambio tra umano e animale: l’animale al posto dell’uomo. Proprio questa è la “cifra del sacrificio”, dice Ginevra Bompiani, questo è il contenuto stesso del “sacro”. La mano di Abramo è fermata, e il posto di Isacco lo prende una vittima animale. Catena della crudeltà, che ha nel macello, suggerisce l’autrice, in tutti i macelli, la sua mercificata esposizione. Si disegna, nel cuore di questa antologia, una linea di osservazione che cerca una soglia per lo sguardo, una soglia che sia “celeste”, cioè animale, e dunque profondata nello stupore, nel silenzio. Qualcosa di questo stupore ha, nel racconto successivo, Oscar, personaggio stralunato, perso, incantato, che potrebbe appartenere all’ordine di quelle “creature quasi d’altra specie” che il Leopardi dei Pensieri opponeva alla grigia pervasiva astuzia dei “birbanti” , cioè di quelli che “realisticamente” abitano il mondo. Accanto a Oscar, la ballerina meccanica e il professor Gudrùn: personaggi che perdono via via la loro “pesanteur” e sognano una leggerezza che di fatto è incantamento e malinconia insieme, vuoto di pensiero e spensieratezza. Ma l’esistenza, sembra suggerire il racconto nella sua leggera animazione, non consiste poi nella leggerezza, ma nel desiderio che muove verso un punto d’osservazione alto –la Mongolfiera ne è volatile emblema- dinanzi al quale si dispiega il mondo, con le sue atrocità, con la sua bellezza. Tra i bellissimi tableaux narrativi di Ginevra Bompiani questa antologia tiene il luogo di un autoritratto: esposizione di un proprio cammino che certo non sfugge all’arbitrarietà del soggetto ordinatore. Tuttavia, nella sua parzialità e frammentarietà, mostra molto bene il pensiero della fragilità, dell’inatteso, dell’incantamento che trascorre in tutta l’opera della scrittrice. E’ con questa disposizione che la scrittura può ospitare il vivente, può muovere verso una creaturalità che, priva di ogni legame col sacro, si fa prossima a quell’oltre che abita la vita: sentimento dell’impossibile, e, soprattutto, desiderio di dimorare nell’ “aperto”. In quell’aperto –das Offene- che sta sulla soglia dell’Ottava Elegia di Rilke e che mostra la prossimità dello sguardo animale all’essenza del visibile e dell’invisibile. Poter dislocare il nostro sguardo in quella regione che è prossima al respiro delle cose. Sottrarsi, inventando forme e ospitando sogni, alla malinconia del declino: anche solo per un istante. Proprio questa sospensione, che ha la bellezza e l’incanto dell’impossbile, persegue, con pacata cortesia di affabulatrice, Ginevra Bompiani.

Antonio Prete