Antonio Pibiri, da “Chiaro di terra”, L’Arcolaio, 2016, nota di Flavio Ermini

Antonio Pibiri con Chiaro di terra è al suo terzo libro di poesia. La casa editrice è L’Arcolaio. L’anno di pubblicazione, il 2016.

Con Chiaro di terra Pibiri vuole rompere i diaframmi dell’oscurità. Ma non per tornare a un improbabile “chiaro di luna” e lì affidarsi a ormai apatiche certezze veritative. No. Pibiri ci sta comunicando che siamo davanti a qualcosa come un gioco d’ombre, in cui proprio attraverso il messo-in-ombra, appena illuminato dalla terra, rende accessibile il senso della vita.

È il passo nella penombra della verità, nel cammino della sapienza, nel gesto dell’amore, ma – ancor prima – nell’abbacinamento dell’ombra. Perché è qui che Pibiri ci vuole portare: all’illuminazione che viene dall’ombra.

La poesia è mossa da un’originaria meraviglia e da sempre la sua domanda è in cosa consista un’ombra. Ebbene, questo libro mostra come il pensiero-che-interroga metta in discussione innanzitutto se stesso. Incessantemente Chiaro di terra si fa paladino della compresenza essenziale di luce e oscurità, compresenza che si costituisce come principio germinativo della parola poetica, tanto da giungere a sovvertire la lingua che essa stessa parla.

Ciò accade in modo particolare nella sezione “Visioni dell’ultimo”, dove il poeta ipotizza che la luce sia in fondo quella cosa che nasce dall’ascolto di una voce.

Ecco cosa ci rivela Pibiri. Ci indica che se la poesia poco sa della luce è perché pur avendola sempre pensata non l’ha mai pensata a partire dalla terra, dall’evento della terra, dal suo chiarore.

 

***

Al primo centro abitato, autogrill,

lungo la strada, non so dopo quale

tornante dopo senza tormento.

 

Al primo ceppo o donna nel paesaggio,

bestie da tiro, dressage, la carne rossa

al banco, i domestici nella fretta di rincasare.

 

Lungo la strada impervie sinòpie,

smarrita, franta in un prisma

di gioco a perdersi ovunque

comunque.

 

***

Due studi sul corpo inclinato

I

Insiste batte violento

Il chiaroscuro alle finestre.

Ma i pugni bramano disertare

Le ferree file dei fianchi.

 

E in favore di penombra

avanzando dallo spoglio

delle stanze rinverdisce

lungo la sua nudità.

 

II

Quello che la nudità cela si versi pure

per intero sulle tavole d’alabastro

il servizio buono i panieri profumati,

sulle parole senza lisca, in tondo

a-embrice, la presentazione

ineccepibile.


Antonio Pibiri è nato a Sassari nel 1968 e risiede ad Alghero. In poesia ha pubblicato: Di quinta in Quinta (Magnum editore – Sassari, 2007 e Il mondo che rimane (Lampi di Stampa, 2010).