Giuseppe Gorlani, prosa inedita “La parola”, nota di Mara Cini

Illecito è pretendere d’essere creduti quando tracciamo confini inesistenti intorno alla parola.

Tentativo quello di Gorlani di circoscrivere la sostanza inesprimibile che pure spreme un succo stupefacente. E’ la parola nel perimetro del corpo e del respiro, nella geometria di un’apertura, nell’accrescimento botanico, nella litania consolante e ludica dei suoni.

La parola che si fa alternativamente tasca e coltello, che raccoglie e ripara, offende e ferisce, che disegna aree dove seminare, coltivare, raccogliere e ridisseminare.

La parola muove da un suono o da una traccia. Chi ha imparato dal gheppio sa che nel volteggio (un gesto grafico se immaginato con ali intrise d’inchiostro) il rapace scrive il suo grido.

La parola

I

In interiore homine c’è l’erba piegata dal vento. All’esterno, sul calar della sera, c’è l’erba d’oro tinta. In alto l’etere, in basso il cielo. Intorno la madre silente ripete quel che le suggeriamo. Al grido risponde con un grido, al sussurro con un sussurro. Saperlo induce a quiescere. Oppure ancora ci si ostina ad immaginare cornucopie sostenute dal cachinno del secolo?

Difficile pregare, impossibile chiedere. Nell’atarassia emerge la porta diuturnamente aperta, senza battenti, senza cardini. Anzi, nemmeno si può dire che vi sia una porta. In verità un insetto, una nuvola o qualsiasi altra forma suscitano stupore e ammirazione. Eppure si è affini agli estinti: il corpo già andato, l’anima a brandelli, la gola prosciugata. Gli uccelli li si ode distanti.

Non si ha alcuna pretesa di descrivere il modo a-modale dell’Essere in se stesso. Tutti lo vivono in essenza; nessuno lo conosce. Deum nemo vidit umquam.* Piuttosto si vuole correre, immobili sul filo del paradosso, saziare fame e sete, spossare gli eoni. In conseguenza a ciò le ginocchia si piegano, le palpebre si chiudono, le mani asciutte accolgono altre mani, le lettere si associano all’improvviso, le sillabe grondano sangue – o rubini, o pomi imperlati dalla pioggia nel verziere custodito dal serpente? – la neve crea sintassi inaudite.

E allora ci si china sulla parola come su una pianticella, scaturigine dell’intero mondo vegetale. La si contempla, ovvero si penetra in essa, la si lancia qua e là nell’ebbrezza ludica, la si ripone in un panno candido per stanchezza, non la si vende mai. Essa è sì virtù cacuminale, ma nel contempo risulta incomprensibile a qualsiasi mercanteggiare. Parola addormentata, diritta, languida, radiante. Tasca ove riporre gli esigui giorni da trascorrere che in essa producono vapore. Coltello, poeta, rishi: il pensabile in spire raccolto ai margini della foresta. Amica del filosofo e sua mercuriale messaggera, araldo nella battaglia sullo Kurukshetra. Bhagavadgita, Anugita, mandala perpetuati da fiumi. Nascite e morti a milioni, per nulla. Tristezza.

Financo la torre contratta a penna, ormai affatto indifferente alle vicende semantiche, reputa importante prosternarsi ai suoi piedi. La contentezza da questi sprigionata fiorisce nella libertà, mentre i passi errano e danzano tra scacchiere ingannevoli, riflettendosi negli occhioni bovini, nel muschio abbarbicato alle pietre, nella carcassa abbandonata ai necrofagi.

La parola è respiro da centellinare il mattino, è dono elargito con maturata innocenza, è profumo accetto agli dèi discesi nei mantra, è mysterium, filo aureo, ponte nella coincidenza tra catabasi e anabasi, rovina e risurrezione, rintocco che pervade il trimundio, è giumella in cui si porge la postrema offerta ridotta a briciola abbagliante in pasto a una formica.

* Gv I, 18

II

La parola insorge se le si ordina di esaurire la realtà. Divora le falangi ai pennaioli, oggi impegnati con tastiere, e le risputa alle ortiche. La parola è scepsi inesauribile o, tutt’al più, inno all’Ineffabile, proemio al silenzio. Scevra da albagia, percorre tratturi tra i poggi e pregia soste con i rari ortolani sopravvissuti. Sa distinguere il fungo edule da quello esiziale, perciò nutre e protegge. Non teme l’inzaccherarsi nei pantani, purché la farfalla proceda prima che deperisca il calore.

Anche i tetti di certe cappelle cimiteriali sporgenti dai muri perimetrali sono per lei palazzi principeschi o architetture diafane in cui i viatori possano resipiscere, cioè comprendere la natura degli alberi, la meraviglia aleggiante nelle campagne.

Dopo la parola litanica sopraggiunge la quiete, avvolta in dense nebbie percorse da note di pianoforte. I suoni a volte sembrano palloncini colorati, a volte foglie rotanti sulle quali la voce innamorata modula dolenti ebbrezze. Già, poiché l’amato non si lascia mai toccare, forse solo lambire nell’intimo, quasi le ore e gli anni avessero scarso valore.

Tuttavia c’è, in esergo, appagamento: l’intelletto non scorge iniziare o terminare alcunché.  Ci si può dunque fermare, estranei ad ogni divenire, indifferenti ai machiavellismi dei saccenti che asseriscono di appetire cose concrete.

È una sostanza inesprimibile quella a cui ci si apre; così la parola, da antichi ceppi liberata, può sorreggere. Il profumo sussiste, il colore celeste riverbera eco persistenti, il grigio culla il bambino, lo stridere dei corvi sale e scende sopra i campi arati. La parola intona stanze a cascata, abbracciando l’attuale e l’inattuale, sbeffeggiando le mode imponenti etichette, appartenenze, maschere. Come se fuori da simili ambizioni vi fosse il niente.

Illecito è pretendere d’essere creduti quando tracciamo confini inesistenti intorno alla parola. Inopportuno pascere ritorni chimerici al passato o sporgersi avventatamente verso il futuro. Basta restare nell’impronta presente, consentendone l’eccesso e la sobrietà, la laconicità. Il che implica abbandonare il frastuono interno.

III

Sta due dita dietro la lingua, la parola. Non si lamenta. Registra declivi profanati da sporcizia, la miseria salita in cattedra, l’idiozia sclerotizzata a dogma, il plagio pervasivo da pochi rifiutato, eppure tace, o emette ultrasuoni sufficienti a tenere in vita la bellezza, senza che sia propizio domandare dove abiti. Gli astri balzano agili oltre il sole. E in tale átopon è proscritto l’accesso a chi abbia smarrito la chiave di passo. È indispensabile recuperare sensibilità, aspirazione, empatia se si gradisce che i cerchi sull’acqua tornino a farsi intelligibili e lo stagno, le rane, le tife, i ponti dissolti nella luce meridiana si rivelino mai scomparsi. Nello specchio persino il re ci sorride; l’azzurro da cui è circonfuso, la porpora, l’argento, il verde ci porgono pazientemente la sapienza capace di saldare attimi, eternità, sfumature. A cagione di quale ottenebrazione avevamo potuto dimenticare i viottoli nelle foreste, le fragole presso la roccia solitaria, l’improvvisa apparizione di Pan, i flauti sulle labbra delle trote? Capitolare al servaggio è proprio un resistere al mare. Quanto travaglio per censurare quel che si è o si potrebbe risvegliare, sostituendovi l’adesione robotica a sogni altrui! Ben altro spirito assiste Offerus quando traghetta il peso del cosmo-bambino, meritandosi il nome Cristoforo.

L’atto coscienziale si impone per necessità: recide lacci, fende veli, scaglia nell’aere frammenti sepolcrali, sdrucisce arti aggrappati a croci stanche, appese in cubi titanici, infernali. E l’oro riemerge, carico di gioia. La parola ne è garante. Addietro si nascondeva tra detriti cementizi, soffocata da liquidi amniotici, ora canta di nuovo, dilata il minuscolo, si sofferma sopra i labirinti calcinati in compagnia del padre Dedalo. Ma non precipita per esuberanza. Ha imparato dal gheppio. Conosce l’integrità, la differenza nell’identità. Sa la plenitudine nel vuoto, la soddisfazione nel deserto, lo strillo aquilino, il gemito nella corda strappata sotto la luna.

La pagina gira. Qualsiasi cosa appaia non ha importanza. Non v’è aritmia: la parola ne estrae il succo stupefacente.

 

Giuseppe Gorlani è nato a Longhena (Bs) nel 1946. Dai venti ai trent'anni ha viaggiato a lungo in Oriente e nel Sud dell’Italia, soggiornando in Afghanistan, Nepal e alcuni anni in India.

È poeta, grafico, saggista e musicofilo.

Suoi interventi sono apparsi in varie riviste letterarie e di studi tradizionali, tra le quali: Convivium, Paramita, Poiesis, I Quaderni di Avalon, Viàtor, Conoscenza, Atrium, Letteratura-Tradizione, Spiritualità e Letteratura, Quaderni dell’Associazione Eco-Filosofica Trevigiana, Vidya.

Suoi articoli e saggi compaiono in siti online quali: Centro Studi Opifice, La nube e la rupe, Est Ovest, Rassegna Stampa di Arianna, Per una Nuova Oggettività, Corriere Metapolitico, Centro Studi La Runa, Centro Paradesha, Vidya Bharata, Fondazione Julius Evola, Politicainrete, PoliticaMente, ecc.

Presso Il Cerchio Iniziative Editoriali ha pubblicato tre raccolte di poesie e disegni (Radici e Sorgenti, 1989; La Porta del Sole, 1990, Premio Letterario “Città di Roma” 1991; Nel Giardino del Cuore, 1994, con Prefazione di Emilio Servadio), una traduzione dall’inglese dell’opera Nan Yar di Sri Ramana Maharshi col titolo Chi Sono Io? (1995) e la raccolta di saggi Il Segno del Cigno - Sulle Tracce dell’Ineffabile (1999), con Prefazione di Adolfo Morganti. Le sillogi La Porta del Sole e Nel Giardino del Cuore sono illustrate, oltre che da se stesso, da Carla Ricotti, Maura Boldi e Domenico Franchi.

Un suo saggio, Hippie: sadhu d’Occidente, compare nel volume antologico L’immaginazione al podere – Che cosa resta delle eresie psichedeliche, a c. di A. Castronuovo e W. Catalano, Stampa Alternativa, Vt 2005.

Con La Finestra Editrice (Lavis-TN) ha pubblicato: Anatema (2000), una raccolta di prose poetiche; Uomo e Natura (2006), una raccolta di saggi, con una testimonianza di Guido Ceronetti; Visioni del Soma (2010), una raccolta di prose poetiche e disegni; Il Filo Aureo (2012), una raccolta di saggi con Prefazione di Giovanni Sessa.

Su incarico di Guido Ceronetti ha illustrato la vita del Buddha in due tavole comparse su La Stampa nella rubrica La Valigia del Cantastorie (2002).

Tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta ha collaborato con varie radio libere di Brescia e dal 1991 al 1992 ha curato la trasmissione Il Terzo Orecchio per Radio Popolare di Brescia.