Martina Campi, da una raccolta inedita, nota critica di Giorgio Bonacini

In poesia distinguere tra voce e scrittura è un’operazione ardua, sia dal punto di vista concettuale sia da quello materiale. Si dice ciò che si scrive o viceversa? Probabilmente non è la distinzione nella manifestazione esterna che apre al fare poetico, ma forse, e più sottilmente, è riuscire a togliere, a nascondere, o ancor meglio a far scomparire la differenza, che nel procedere di un linguaggio così teso come quello della poesia, fa sostanza e conduce il senso. Martina Campi ha una scrittura vocale che assume l’esperienza del dire incuneandola direttamente nel corpo percettivo della lingua, svuotandola da ogni “intenzione premeditata”e arricchendola di trasformazioni e sovversioni istintive. Manuale d’estinzione si muove proprio intorno a ciò che fa assenza – di luce, di suono, di movimento, di struttura – cercando, nell’immersione in ciò che viene meno, di recuperare almeno dei frammenti presi dalla “densità del buio” o dal “moto del respiro”, e con questi provare a ridare forma, visibilità, ricordanza a ciò che per esistere deve imparare a sottrarre e a sottrarsi. E lo fa con un disporsi, spezzato in parole, che sembrano scorrere sulla pagina con un moto intimo, a volte lineare, a volte a salti e a scatti, a volte quasi inciampando, come per distrazione, contro una realtà (spigoli, oggetti, rimorsi) che frena la materialità dell’essere e dello stare lì, in concomitanza con il mondo. Ma questo trovarsi non può non frantumarsi quando il senso del mondo ordinario viene sparpagliato e rivissuto al centro della solitudine poetica. Allora bisogna rendere visibile ciò che per l’autrice è una scelta di forma: e in quanto scelta è fisicamente udibile nel “vibrare della gola”. Lì dove la parola cercano di trasformarsi in ciò che esiste fuori, nel turbinio delle trasmutazioni che la lingua attua. Ma questo referente esterno è solo apparenza. Ciò che è effettivamente reale viene invece sprigionato da una significazione sorgiva che rende metaforico, e dunque più vero, anche un cuore fantasmatico ma vivente. Un cuore che traspare in esistenza tra le sillabe, che accadono e conseguono verso una qualità speciale della conoscenza che ci è ignota, eppure sentita come un attrito nuovo, come all’origine dei suoni e dei segni, nella sintesi dei sensi. E Martina Campi è capace, in queste pagine, di versi semplicemente luminosi, come cenni sfuggiti ai primordi di una leggerezza rara e chiara. Versi che hanno l’andamento di un haiku, che puoi trovare dispersi nei testi e quasi incogniti, ma quando si incontrano manifestano immediatamente la loro disposizione, il loro”guizzo di luce” dove “la gazza/ladra del sonno/ubriaca il chiarore”. Ma ciò che sta al centro di questo poema, aperto a flussi di propagazione ma anche a necessari cedimenti, è far sì che la parola possa posarsi e smuovere il vuoto e il bianco della pagina, disarticolando la struttura rigida di quel pensiero arido, falsamente veritiero che blocca la vicinanza al dire che rischia e che brucia in poesia. Lì, e solo lì, la voce può perdersi in un pulviscolo di significazioni che diramano dal corpo presente, teso al limite del sentirsi. Perché presenza e assenza, articolate in combinazioni lucidamente emotive, hanno regole che si manifestano solo dopo gli accadimenti. Ma la poesia impara, e l’alfabeto imprime le sue connessioni fino al punto in cui “finisci per credere al movimento/ degli alberi” e a ciò che dev’essere: dare voce e consistenza alle cose e insieme ricevere da loro sostanza e parola. Una risonanza che è vita, con la sua dedizione al gesto di consegnarsi al luogo dove può capitare che le cose pronuncino da sole la loro lingua coscientemente folle. L’autrice indaga con precisione questa buona anomalia, che rende la parola poetica - né veritiera né verosimile né verità – ma semplicemente vera. Perché il suono delle cose è voce che prende dal silenzio il suo ascolto, in attesa del senso inaspettato, lì dove “forse basterebbe lasciarsi/pensare”. (g. b.)

 

Da Manuale d’estinzione

 

 

2.22

aframmento pop del centellinante-

alle 2.22 speri in un futuro non troppo futuro show dei cure e speri di trovare in rete proprio la mail di robert smith per scrivergli qualcosa d’importante tipo di dormire senza paura o che gli vuoi bene e non solo immaginare di volergliene ma davvero come le parole che non si perdono e si scrivono sempre e ci scrivono come l’andare del sogno e ti sembrava d’aver trovato qualcosa di davvero davvero importante da dirgli che non poteva aspettare di dimenticarsi come i tanti pensieri e le idee che diventano millimetri o meno di millimetri tra i chilometri delle strade di tutte le città messe insieme tutte in un posto le luci che sequestrano gli occhi le luci t’incasinano tutto perché era spontaneo e non l’avevi preparato e intorno quando c’è il buio le luci sono indicazioni a frammento e sono richiamo per tutto quello che non hai mai raccolto prima o se hai fame ti dicono qui puoi venire e qui è dentro e le 2.22 continuano a saperlo come allungarsi e distrarsi da quello che volevi dire quello che avevi capito

di    tanto    importante   proprio    allora

ascoltando

che ti fa pensare sempre a come risolvere il problema cure che se ci pensi è un controsenso ma neanche tanto se invece entro in scena anche io e mi metto a pensare alle gocce che poi quello delle gocce che scendono è il mio pensiero notturno più centellinato

 

 

Da “Estinzione 02”

 

                                                                                  ***

Eravamo luce di corvo

in volo: la vista sfuoca

la distanza in gocce

che ci separa

 

e la mancanza

che fa sentire

 

se pare un volo nero

a svanire.

 

 

***

Quel bussare era ieri

un cuore fantasma

sperduto senza memoria

 

cosa potremmo dire

che non sia verità

è il vuoto che si prende le stanze

 

e ogni parola dagli scaffali.

 

 

Da “Estinzione 05”

 

 

Dire:

sì.

 

Può salvare la vita.

 

Fare voce

fare destino

 

accettare la natura

persino quando tramonta.

 

Nota biografica