Ragioni del testo e destino

Tiziano Salari

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In un bel libro di Milan Kundera, I testamenti traditi, si parla, tra l’altro, delle traversie in cui incorrono i testi dopo la morte degli autori, e si sofferma in modo particolare sull’opera di Kafka, sia sui modi alterati in cui è stata tradotta o pubblicata (in modo particolare in Francia), a partire dal primo tradimento, quello di Max Brod di pubblicare e far leggere al mondo ogni riga scritta dall’amico.” Non riesco a capacitarmi che ci si stupisca tanto della (supposta) decisione di Kafka di distruggere l’intera sua opera. Come se una simile decisione fosse a priori assurda. Come se un autore non avesse sufficienti ragioni per portarsi dietro la propria opera nel suo ultimo viaggio” E questo sia perché i libri possano non piacere più al suo autore, o non possa più piacergli il mondo ai quali essi sono stati largiti. Alla fine un autore, potrebbe essere disgustato dalla stessa vanitas vanitatum dell’arte o delle incomprensioni che ha subito e non vuole che esse vengano perpetrate anche dopo la sua morte. A una attenta disanima sia della lettera a Max Brod che viene ritenuta il testamento di Kafka., sia di altre dichiarazioni di Kafka, Kundera afferma che Kafka non partecipava a nessuna delle categorie sopra elencate, che riteneva valida una parte della sua opera (di cui correggeva ancora, sul letto del sanatorio, poco prima della morte, gli ultimi racconti), e gli scritti che voleva sopprimere erano sostanzialmente gli scritti intimi, lettere e diari, e i racconti e i romanzi che non era riuscito a ultimare. America? Il processo ? Il Castello?

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Scrive Kundera: “Penso all’epilogo del Processo: i due uomini che sono andati a prendere K. sono chini su di lui e lo stanno pugnalando ‘ Con gli occhi che si offuscano K. vide ancora, vicini al suo viso, guancia contro guancia, i due uomini che osservavano l’esito. ‘Come un cane!, disse, era come se la vergogna dovesse sopravvivergli” L’ultimo sostantivo del Processo è la vergogna, l’ultima immagine è quella di due volti estranei, vicini quasi al punto di toccarlo, che osservano K. nel momento più intimo, quello dell’agonia.”. E concludendo: “È questa trasformazione di in uomo da soggetto in oggetto ad essere sentita come una vergogna”. La morte ha trasformato Kafka e le sue opere (fino alle lettere più intime, quelle a Felice e al padre, il padre che non lesse mai la celebre lettera a lui diretta) in oggetto, manipolabile a piacere da critici, traduttori, editori. E, sempre secondo Kundera, Brod non ha scusanti.” Ha tradito il suo amico. Ha agito contro la sua volontà, contro il senso e lo spirito della sua volontà, contro la sua indole schiva che egli ben conosceva”Ma chi avrebbe potuto resistere a non veder pubblicate opere come America, Il processo, Il castello, e quindi non ringrazia Brod della sua disobbedienza all’amico morto?

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Un altro testamento tradito fu quello di Virgilio, che aveva chiesto di dare alle fiamme la sua Eneide, perché la considerava non soltanto un poema incompiuto, ma fallito. Fu Augusto che tradì il suo testamento. Anzi, l’Eneide divenne il libro politico per eccellenza, il libro che giustificava la fondazione dell’Impero. In La morte di Virgilio Hermann Broch parla di questo dramma parlandoci dell’ultima notte di vita del poeta latino e dell’angoscia del fallimento per la differenza tra l’opera compiuta e quella che avrebbe voluto compiere.Come per Kafka, forse temeva che la vergogna di essersi piegato a un potente gli sarebbe sopravvissuta.Ma nel frattempo sente che nella morte può essere nascosta la soluzione del mistero del linguaggio, di quella parola nella quale si è consumata la sua vita di poeta. […] la parola si librava al di sopra di tutto, si librava al di sopra del nulla, al di là dell’esprimibile e dell’inesprimibile; ed egli, travolto e avvolto al tempo stesso avvolto dal fragore della parola, si librava con lei; tuttavia, quanto più quel fragore l’avvolgeva, quanto più egli penetrava nel suono fluttuante che lo penetrava, tanto più irraggiungibile e tanto più grande, tanto più grave e tanto più evanescente si fece la parola, un mare sospeso, un fuoco sospeso, con la pesantezza del mare, con la leggerezza del mare, e tuttavia sempre parola: egli non poteva ricordarla, non doveva ricordarla; essa era per lui incomprensibilmente ineffabile, perché era al di là del linguaggio.”

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Al di là del linguaggio! Esiste dunque una verità più alta, non articolabile in parole, una verità che si tocca in momenti privilegiati della vita, o, appunto, nella prossimità con la morte.Ci sono verità accecanti, che ti piombano addosso come una scure interiore che ti dilania l’anima: è la rivelazione lenta, ma graduale, che travolge Edipo. È lui lo scandalo additato dall’oracolo di Delfi, è lui il mostro da cui Tebe si deve liberare se vuole risorgere purificata dalla pestilenza che la sta spopolando.Ci sono istanti privilegiati in cui, in un lampo di superiore chiarezza, la vita si spalanca davanti agli occhi nella sua interezza, come nelle estasi degli attacchi epilettici del Principe Myškin,nell’Idiota di Dostoevskij , che può diventare un abito o una scelta filosofica nel vedere la propria vita come un tutto, nell’anticipazione della morte. Non ci possono essere altre premesse per una vita autentica, non consumata nella dispersione o nella chiacchiera. È la soluzione prospettata in Essere e tempo di Heidegger.Vederci come un tutto concluso nella nostra irrimediabile finitezza, dall’angolazione della fine. È a partire da quel momento che acquistano importanza i testamenti. In uno dei suoi saggi Filosofare è imparare a morire,Montaigne dice che bisogna presupporre in ogni momento della vita di avere la possibilità della morte vicina, anche uscendo di casa per fare una semplice passeggiata. E che quindi dobbiamo essere sempre a posto con noi stessi e con gli altri, di non trascurare di avere mai qualcosa in sospeso. Forse è una cosa impossibile che ciò avvenga. Come possiamo considerarci da subito come oggetti? Che riusciremo a portare a termine il libro che abbiamo nel cassetto? Che moriremo facendo in modo che la vergogna non ci sopravviva?

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La morte di K. nel Processo mi fa venire in mente un’altra terribile morte di un romanzo del Novecento, del Console, in Sotto il vulcano di Malcom Lowry. Tutti ricordiamo la vicenda del Console alcolizzato, nel Messico violento, alla vigilia della seconda guerra mondiale, sotto “la vetta impennacchiata di neve smeraldina” del Popocatepel ,il vulcano tutto “inzuppato di luce”. Anche il Console, dopo essere stato abbandonato dalla moglie, muore al margine di una strada, temendo che la sua vergogna gli sopravviva. K, prima che i suoi carnefici affondino il coltello nel suo cuore, si guarda intorno. “I suoi sguardi caddero sull’ultimo piano della casa che si alzava sul limite della cava di pietre. Come una luce che si accende d’un tratto, si spalancò una finestra, ed un uomo, che a quella altezza e a quella distanza appariva esile e debole, si piegò in avanti allargando le braccia. Chi era? Un amico? Un uomo di cuore? Uno che provava compassione? Uno che voleva portare aiuto? Era uno solo? Erano tutti? Era ancora possibile venire in aiuto di K.? Si poteva fare ancora qualche obiezione che prima era stata dimenticata?”Ma sono domande inutili e viene ucciso. “Come un cane”, mormorò, e gli parve che la sua vergogna gli sarebbe sopravvissuta”. Allo stesso modo pensa il Console, che forse avrebbe dovuto avere più fiducia nel soccorso del mondo e nell’amore. Ma tutto ciò è inutile rispetto all’inesorabile fine. “Ad un tratto egli urlò e fu come se quell’urlo rimbalzasse lanciato da un albero all’altro, come se la sua eco ritornasse, poi, come se gli stessi alberi si avvicinassero, lo stringessero da presso, serrati gli uni agli altri, chinandosi su di lui, pietosi… Qualcuno gli scagliò dietro un cane morto, nel burrone”

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Se la vergogna ci sopravvive, dunque si muore come un cane. O insieme ai cani. E c’è anche la possibilità di morire ed essere in vita. Nietzsche., ridotto a puro oggetto inerte negli ultimi dieci anni di vita , l’autore dello Zarathustra , mentre cresceva la sua fama nel mondo, aveva perso ogni possibilità di controllo sulla sua opera. Solo recentemente i suoi frammenti postumi sono stati ricostituiti con un certo ordine critico. Ma per tanti anni è circolata un’opera a suo nome, La volontà di potenza, che lui certo aveva progettato, ma che, nel modo in cui fu composta, fu manipolata da altri, in modo particolare dalla sorella Elizabeth. Lo stesso discorso può essere fatto per l’enorme lascito del poeta Friedrich Hölderlin, che ha vissuto quasi trent’anni in uno stato di dolce follia, e che ha lasciato gran parte delle sue poesie più grandi in uno stato aperto a correzioni e trasformazioni. Un altro caso è quello dello Zibaldone di Leopardi, l’enorme scartafaccio di appunti letterari e filosofici, che fu pubblicato soltanto sessant’anni dopo la sua morte e che ha rinnovato gli studi leopardiani in tutta la loro rilevanza poetica e filosofica.. Probabilmente gran parte di queste opere devono al Novecento, alla nuova sensibilità filologica e critica anche per l’incompiuto, o per il non finito, per il frammento lasciato al margine dell’opera compiuta, il fatto di essere diventati fonti di studio dei loro autori. E forse la parte più preziosa della loro eredità spirituale.

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Dunque la morte ci trasforma in oggetti, ma anche un testo, quello pubblicato con tutti gli avalli autoriali ed editoriali, diventa un oggetto, sia agli occhi dello stesso autore, sia dei lettori. Ecco, questo sono io! L’autore può vedersi come un tutto limitato, con compiacimento o con insoddisfazione, ma in ogni caso ha la possibilità di misurare il rapporto che intercorre tra quelle che erano le sue intenzioni e il risultato. O forse l’autore non è sempre in grado di farlo e si affida ai critici. Di tutta questa problematica, e cioè di un testo come viene valutato, a seconda dei tempi, delle novità, degli umori dei lettori e dei critici, la trattazione più acuta è quella che si può leggere nell’operetta morale di Leopardi dal titolo Il Parini ovvero della gloria. Sono insegnamenti che, nella finzione, il vecchio poeta Parini dà a un giovane letterato di belle speranze. Singolare che la gloria letteraria venga posposta alla possibilità di qualche azione eroica, impossibile ai tempi di Leopardi così come ai nostri. Il Parini di Leopardi fa l’esempio di Alfieri e di altri che “inclinati straordinariamente alle grandi azioni; alle quali ripugnando i tempi, e forse anche impediti dalla fortuna propria, si volsero a scrivere cose grandi” Ma ciò che resta ai moderni è, appunto, solo la possibilità della gloria letteraria, ed è sulle difficoltà di questa che si concentra il discorso.”Potrei qui nel principio distendermi lungamente sopra le emulazioni, le invidie, le censure acerbe, le calunnie, le parzialità, le pratiche e i maneggi occulti e palesi contro la tua reputazione, e gli altri infiniti ostacoli che la malignità degli uomini ti opporrà nel cammino che hai incominciato”Col rischio dunque di essere trascurato in vita e di essere dimenticato in morte, anche applicandosi a fondo alla ricerca della bellezza e della verità. Insomma il Parini di Leopardi elenca tutte le difficoltà di poter giustamente valutare un’opera nuova, anche posto caso che sia bellissima”Ora tornando in via, dico che gli scritti più vicini alla perfezione,hanno questa proprietà, che ordinariamente alla seconda lettura piacciono più che alla prima. Il contrario avviene in molti libri composti con arte e intelligenza non più che mediocre”, che non reggono mai a una seconda lettura, ma che si fanno leggere avidamente alla prima. Oggi potremmo dire e pensare ai best seller, che quasi mai reggono a una seconda lettura, posto che siano leggibili alla prima, il che forse raramente avviene.

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“Ma il nostro fato – conclude il Parini leopardiano, dove che egli ci tragga, è da seguire con animo forte e grande; la qual cosa è richiesta massime alla tua virtù, e di quelli che ti somigliano”. E questa conclusione, credo, sia un ammaestramento anche per noi,per il lavoro solitario di ricerca, quando ci troviamo di fronte a un testo, a un work in progress che accentra tutta la nostra attenzione, sul quale convogliamo tutta la nostra sensibilità linguistica ed esistenziale, e ci chiediamo: per chi stiamo lavorando?per chi stiamo cercando?.Ci viene in soccorso Blanchot, quando dice che “Scrivere è entrare nell’affermazione della solitudine, dove incombe la fascinazione.È consegnarsi al rischio dell’assenza di tempo, dove regna l’eterno ricominciamento”. È la stessa cosa, detta in linguaggio moderno, del seguire il proprio destino con animo forte e grande, nella certezza che avvertiamo di toccare, con lo scrivere, qualche verità essenziale che ci riguarda. Blanchot parla di solitudine essenziale, di cadere afferrati e conquistati da una fascinazione che ci mette in contatto con una presenza neutra, impersonale, un “Sì” indeterminato, “all’immenso Qualcuno senza volto”Non è forse questo un altro nome con cui definire il destino da seguire con animo forte e grande?

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Per chi scriveva Kafka quando nei suoi Diari si lamenta di non avere abbastanza tempo per scrivere, o quando vi si accingeva, che avrebbe preferito vivere in un luogo sotto terra, per non essere disturbato da un minimo rumore? Per chi scriveva Proust nella camera imbottita dalle pareti di sughero? “ Proust e Kafka hanno scritto negli stessi anni. Hanno scritto entrambi di notte, prigionieri della notte. Entrambi ebrei, anche se socialmente molto diversi Sono morti a due anni di distanza l’uno dall’altro, entrambi presi alla gola, l’uno dall’asma l’altro dalla tubercolosi che lo aveva assalito alla trachea […] Hanno avuto, l’uno e l’altro, lo stesso rapporto assoluto con la scrittura di cui e per la quale sono vissuti e in certo senso sono morti”(Franco Rella) Si dirà: destino, certo, che seguono in forme più o meno assolute tutti coloro che si dedicano alla scrittura, anche se non tutti sono Kafka o Proust, ma ciascuno è legato alla sua piccola o grande ansia di verità. E per tenervi fede occorre essere in grado di sostenere quella che Blanchot chiama la “solitudine essenziale”.”La solitudine, che viene allo scrittore dall’opera si rivela in questo: scrivere è ora l’interminabile, l’incessante”Nel saggio Rilke e l’esigenza della morte, parla della necessità di Rilke, di scrivere da un luogo che fosse equiparato alla morte..Questo luogo è difficile da raggiungere, e soprattutto in esso, è difficile sostare senza impazienza.Impaziente fu Michelstaedter, che si tolse la vita a 23 anni, in quanto aveva ritenuto che guardare in faccia alla morte fosse l’unico modo serio di corrispondere alla visione tragica del mondo, alla verità enunciata dai tragici greci e dalla poesia moderna di Leopardi e di Ibsen e dalla musica di Beethioven. Secondo il Rilke, commentato da Blanchot” l’impazienza è anche uno sbaglio contro la sofferenza: rifiutando di soffrire lo spaventevole, sfuggendo all’insopportabile, ci si sottrae al momento in cui tutto si capovolge e il pericolo più grande diventa la sicurezza essenziale” In una celebre poesia di Hölderlin si dice che “là dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva”Il detto è stato commentato più volte da Heidegger in rapporto alla tecnica che domina sempre più i rapporti umani a livello planetario e all’abbandono degli dei, fino al totale venir meno di ogni rapporto col sacro, che i poeti(in modo particolare lo stesso Hölderlin) sono chiamati a tenere in vita. Forse questo è uno dei modi di enunciare il compito del poeta (se vogliamo della scrittura, se vogliamo della solitudine essenziale) e cioè quello di esporsi agli urti dell’essere, della nuda vita, e cercare di articolare nel linguaggio la sua verità in quel punto in cui diventa tangente con la verità di tutti.